
Non sperare, ma combattere. Le Ypg sul fronte di Ayn Issa
Ayn Issa è un centro urbano, ma non più un centro abitato. È stata evacuata, come molti villaggi lungo il fronte, affinché la popolazione civile non cadesse vittima delle attività militari. Le finestre delle abitazioni e le lamiere degli esercizi commerciali abbandonati scricchiolano tutto il giorno sotto l’effetto del vento del deserto, e le strade sono talora zeppe di oggetti e cianfrusaglie che qualcuno ha sottratto al loro interno e gettato sulle carreggiate; un complesso sistema di barricate trasforma la viabilità in un labirinto, impedendo ora l’ingresso, ora l’uscita da questa o quella via, imponendo sensi obbligati, consigliando la bassa velocità in prossimità dei continui dossi e delle profonde buche nel terreno. La città è stata conquistata dalle Ypg nel giugno del 2015, quattro mesi dopo la vittoria di Kobane. È il punto più avanzato delle forze libere verso sud, alla longitudine più centrale del territorio siriano, a metà strada tra Tel Abyad e Raqqa. Il suo fronte è strategico sotto il profilo militare e simbolico a un tempo; è il luogo dell’opera lasciata a metà, che le Forze Siriane Democratiche – Turchia, Stati Uniti e Russia permettendo – vorrebbero completare.
Il comandante Mazlum siede a fianco dell’autista della sua unità, Siyabend, su uno dei caratteristici Toyota 4×4 utilizzati tanto dalle Ypg quando dall’Is. Usciti dalla città deserta verso ovest, un panorama desolante si para ai nostri occhi: una lunga serie di edifici distrutti e carcasse di veicoli incendiati si distende oltre i limiti della città. “Questo è il luogo in cui le forze del regime di Assad sono state sterminate dalle canaglie”. Mazlum non usa il termine “stato islamico”, che troverebbe ridicolo, né l’acronimo “Daesh”, che gli sembra concedere un’impropria eccezionalità a questa organizzazione; i miliziani dell’Isis sono per lui soltanto ceté, “banditi” o “canaglie” in curdo (il termine è vicino all’inglese scum) – esattamente come le bande di Al Qaeda o Jaish al-Islam, o come i “dewlet ceté”, i “banditi di stato”, termine con cui le Ypg designano i soldati del regime di Bashar al-Assad o della Turchia.
“Attaccarono la divisione del regime con quaranta carri armati e migliaia di miliziani. Dopo che i militari furono sconfitti, furono trucidati tutti, ad uno ad uno: morirono in duemila su questa strada”, racconta Mazlum. In mezzo alle ferraglie e alle lamiere che oggi restano di quel massacro (ignoto all’occidente come tutti i massacri che colpiscono i «nemici» dei nostri governi) troviamo per terra ancora un portacaricatori strappato, accartocciato per terra, probabilmente nel luogo dove è caduto il soldato siriano che lo portava addosso. Poco oltre questa visione inquietante, un piccolo arco rettangolare sovrasta la strada sterrata, producendo l’effetto western caratteristico di questa parte della Siria, e introduce agli ampi spazi leggermente collinari dove è avvenuta l’ultima sottrazione di territorio allo stato islamico: il 25 maggio le Forze Siriane Democratiche sono avanzate in direzione Raqqa liberando alcuni villaggi, all’inizio dell’operazione “Raqqa Nord”, continuata con l’avanzata lungo il corso dell’Eufrate e la conquista di Menbij, e oggi nei fatti sospesa a causa dell’invasione turca di Jarablus e Al-Rai.
In seguito alla perdita di questo territorio a nord di Raqqa, l’Is ha lanciato alcune rappresaglie. Nei primi giorni di giugno i miliziani sono riusciti a condurre un attacco a sorpresa, in 300, 15 Km a ovest di Ayn Issa, occupando per alcune ore una postazione delle Sdf che si trova proprio accanto alla fabbrica (francese) di cemento che rifornisce tutta la zona. Sei combattenti arabi sono stati fatti prigionieri e, secondo il consueto stile dell’Is, lagati assieme, cosparsi di benzina e bruciati vivi prima che potessero arrivare i rinforzi. Quando questi ultimi sono arrivati, i miliziani si sono dati alla fuga, inseguiti anche dentro i loro villaggi, lasciandosi alle spalle decine di morti tra le loro fila. Ci hanno riprovato il 1 luglio, stavolta a est di Ayn Issa, ma l’epilogo è stato identico, sebbene un comandante delle Ypg sia caduto in battaglia. Questo fronte, fondamentale per la difesa di Kobane e Tel Abyad, e per ogni presente e futura operazione delle Sdf contro l’Is è, se possibile, uno dei meglio difesi del Rojava.
In una delle postazioni delle Ypg alcuni ragazzi giocano a dama, sorseggiando té iperzuccherato e sgranocchiando gli immancabili semi di girasole. Molti di questi combattenti sono di Kobane, o dei villaggi a sud di Gre Spi, ma non mancano quelli provenienti dall’Iran – Teheran, Urmia – e dalla Turchia: dalle province ribelli di Dyarbakir e Sirnax come da quelle teoricamente più “pacifiche” di Urfa o Agri. Non manca anche un ragazzo di Suleimaniya, Iraq, e combattenti arabi e curdi da Raqqa (donne e uomini); se il curdo è la lingua ufficiale delle Ypg, le sue declinazioni colloquiali e dialettali lo rendono al fronte una lingua melliflua, vaga e imprevedibile, con le sue mille contaminazioni persiane, arabe o turche, le sue curvature tipiche dell’area di Kobane, le immissioni espressive delle lingue curde Sorani (Iraq) ed Hewraman (monti dell’Iran). Tra i combattenti internazionali è noto che queste aree del Rojava sono, per svariate ragioni, le più ostiche sotto il profilo culturale e linguistico; ma non mancano coloro che, proprio per questo motivo, chiedono di essere assegnati a questo fronte.
“La nostra non è una guerra di conquista – spiega Bager, 20 anni, che comanda dieci suoi compagni – e non è una guerra nazionalista. Nostro interesse non è fondare un nuovo stato-nazione, né separarci dalla Siria, che vogliamo resti un paese integro, anzi, più unito di prima”. “Noi lo stato non lo vogliamo, no, no – commenta Zagros, arabo, di Raqqa – ne abbiamo già visto abbastanza, di stato. Qui in Rojava lo stato non c’è, c’è soltanto l’esercito”. I commenti politici di questi combattenti descrivono paradossi e scavalcano antinomie con la stessa grazia e noncuranza con cui le loro mani puliscono le canne dei loro Kalaschnikov. “Ora gli Stati Uniti hanno interesse a sostenere la nostra azione, perché vogliono sconfiggere Daesh – continua Bager – ma Stati Uniti e Ypg non possono essere politicamente alleati, poiché noi puntiamo alla costruzione di una modernità democratica [espressione che per le Ypg ha un senso comunistico, Ndr] mentre gli Stati Uniti difendono l’ormai vecchia modernità capitalista, nostra nemica”.
Camminiamo lungo la strada che costeggia il fronte verso est, per il giornaliero controllo anti-mine. “Non dimentichiamo quel che gli Stati Uniti hanno fatto al Vietnam: quello è il capitalismo, uccidere migliaia di persone per denaro”; Bager dice di sentirsi vicino alle famiglie delle vittime dell’attentato di Orlando, in Florida, compiuto dall’Is, ma al tempo stesso invita gli americani a criticare il proprio stato: “Perché uccidere tutti quei vietnamiti? Non erano forse esseri umani? Quelle persone non avevano fatto del male a nessuno”. Saliamo sul tetto di una delle postazioni di guardia, dove la sentinella è un ragazzo di nome Dilgesh. “È importante che voi occidentali veniate qui – continua Bager – per vedere con i vostri occhi quanto il popolo del medio oriente ha fame”. La sua famiglia è di Van: regione leggendaria – nel vero senso della parola – al confine tra Iran e Turchia. “Sai quanti fratelli ho, io? Dieci. Noi abbiamo sempre avuto fame. Noi bambini del medio oriente non abbiamo tempo per giocare, cresciamo fin da piccoli nella guerra”. Mentre parla, cresce la sua rabbia. “Sai quanti curdi la Turchia ha ucciso a Van? Cinquemila. No, forse di più. Non so quanti fossero; ma noi, popolo di Van, sappiamo quel che è accaduto, e che adesso è ricominciato” [Operazioni dell’esercito turco sono in corso a Van da circa un anno, Ndr].
“Il medio oriente è sempre stato occupato, fin dai tempi dei sumeri – interviene Dilgesh – poi sono venuti gli assiri, i greci, i romani; poi i gli arabi, i turchi; infine l’Inghilterra e la Francia, ed oggi la Russia e l’America, ad imporre i loro sacerdoti e i loro stati”. Alle sue spalle, in lontananza, le automobili dei miliziani dell’Is si spostano tra analoghe postazioni di guardia, mentre cala il sole. “Noi curdi siamo il più antico popolo della Mesopotamia. La purezza della nostra cultura mediorientale è stata preservata dalla vita sulle montagne, e per questo è ora nostra missione liberare tutto il medio oriente”. Sospira sorridendo, guarda il nemico. I curdi, spiega Abdullah Ocalan nei suoi scritti, devono il loro nome al sumero Kur-Di, la «gente delle montagne». Repressi duramente nei centri abitati a valle, in Turchia, negli anni Trenta del Novecento, dopo che gli accordi Sykes-Pikot avevano loro negato uno stato, in milioni emigrarono come profughi a sud, arricchendo quel crogiolo multi-linguistico che oggi tra Qamishlo, Hasaka, Kobane e Afrin costituisce il Rojava.
Ayn Issa è una città araba. Quest’area della Siria non è Kurdistan. Le sue pianure desertiche quasi disabitate sono simbolo della ferita che questa guerra ha scavato nella demografia del paese. “Noi abbiamo abbandonato l’idea del nazionalismo primitivo in nome di un vero socialismo, e per questo combattiamo, qui come in tutto il Rojava, assieme agli arabi e agli assiri” continua Bager. “La liberazione del Kurdistan porta con sé un secondo effetto, che è la contaminazione rivoluzionaria di tutti i paesi che occupano il Kurdistan: la Siria, la Turchia, l’Iran, l’Iraq”. La visione di Bager e dei compagni di Ayn Issa è limpida, ma vertiginosa: “Il nostro progetto è liberare il Kurdistan, quindi il medio oriente e, dopo il medio oriente, il mondo”. Lo guardo negli occhi un po’ incredulo, mentre poggia il mitra su un cumulo di sacchi di sabbia e si accende una sigaretta, come avesse detto la cosa più normale del mondo. “Speriamo…” è il mio timido commento. Lui si alza, prende con sé l’arma ed esclama accigliato e severo, congedandosi: “Non basta sperare: bisogna combattere”.
Dal corrispondente di Radio Onda d’Urto e Infoaut ad Ayn Issa, Siria
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