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L’abbraccio algerino all’attacco del potere

E’ da più di un anno che in Algeria non si spera più, o meglio si percepiscono come insopportabili e inaccettabili provocazioni gli slogan che rimandano ad un futuro prossimo di ricchezza e benessere. Anche in Algeria si è capito che la speranza è un’arma del padrone. E non aiuta a comprendere gli eventi di questi giorni la banale semplificazione proposta da giornali e numerosi commentatori del riflesso quasi automatico che il movimento tunisino ha provocato nella piazza del paese confinante. Se non si mette da parte questa banalità, che sembra fare delle soggettività sociali delle manifestazioni di istinti acefali (ma si sa quando si parla di nord africa si usa spesso a destra e a sinistra la misura del cammello o al massimo si concede quella del beduino), ben poco si riuscirà a comprendere delle ragioni e delle passioni, della composizione sociale della rivolta attuale e del suo lungo e insistente lavoro di scavo ed emergenza nel territorio magrebino della crisi.

L’Algeria nel 2010 è stato un territorio ad alta tensione. Le lotte sociali hanno assunto fin da subito la radicalità dello scontro tra abitanti dei quartieri proletari, divenuti ormai qualcosa di molto prossimo alle bidonville, e le politiche dell’abitare messe in atto dall’amministrazione del regime. Il piano quinquennale 2005/2009 varato dal governo è completamente fallito, da una parte per gli interessi di lobby e clientele dell’edilizia pubblica e privata, dall’altra per la speculazione sui mutui e i prestiti che il governo avrebbe dovuto facilitare per tutti quelli che volevano acquistare una prima casa. L’eclatante fallimento del piano dell’edilizia pubblica si è accompagnato a centinaia di operazioni e tentativi di “sgombero ed evacuazione” da parte della polizia di molti quartieri abitati per lo più dagli assegnatari del piano casa. A fronte dei tanti soldi pubblici volatilizzati nelle tasche di costruttori, dei ripetuti tentativi di sgombero, della fine dell’illusione per migliaia di famiglie di poter vivere sotto un tetto dignitosamente la rabbia sociale è esplosa.

Tizi Ouzou, Algeri, Costantine, Annaba, Rouiba, Chlef, Ghardaia, Oran, i grandi centri cittadini, insieme a decine e decine di paesi e località più piccole si sono incendiate della rivolta della lotta per il diritto alla casa: adolescenti, studenti, giovani disoccupati, e lavoratori dei quartieri a rischio sgombero e assegnatari mancati del piano sull’edilizia popolare sono scesi in strada, non per difendere la miseria in cui il regime li aveva costretti da anni, ma per affermare il proprio diritto alla dignità, il proprio rifiuto a vivere in condizioni disumane. I blocchi stradali, scaldati e illuminati da barricate e pneumatici in fiamme, sono stati gli strumenti di lotta che hanno coinvolto centinaia e centinaia di uomini e donne, con i ragazzi più giovani in prima fila a difendere la barricata dalla violenza poliziesca lanciando pietre e molotof.

Il 2010 in Algeria è trascorso così in moltissime città e paesi: tra barricate, blocchi stradali delle arterie regionali e nazionali, tentativi di sgombero, resistenza e contrapposizione sociale. Alla questione della casa va aggiunta la lotta per le infrastrutture civili che in molte aree dell’Algeria sono completamente inesistenti (dall’acqua pubblica agli ospedali) e la lotta per il diritto al gas. Sembra un paradosso, uno di quei paradossi che fanno ghignare solo gli affaristi dell’Fmi, ma l’Algeria, uno dei primi produttori di gas dell’area mediterranea, non garantisce le forniture di carburante a buona parte della popolazione. Questo in estrema sintesi il quadro di lotta e crisi del 2010 algerino (con più di 112878 interventi di ordine pubblico, e più di 9000 insorgenze e scontri secondo il quotidiano Liberté), che ha visto le giovani generazioni di studenti, di universitari e disoccupati in lotta contro “la mal vie”, contro la speranza ormai tramutata in menzogna svelata di un futuro desiderabile.


Nelle lotte del 2010 va scoperta l’accumulazione di forza sociale,
di saperi antagonisti e di passioni ribelli che da focolai diffusi oggi si stanno tramutando nel fuoco della rivolta generalizzata contro la crisi e la governance del regime al potere in Algeria.

Candido e con tono paternalistico, il ministro dello sport e alla gioventù, Hachemi Djari ha esortato i giovani a “manifestare pacificamente, e a dialogare in modo pacifico e civile, lontani da atti di vandalismo che non portano da nessuna parte”, dimenticando che dal 1992 in Algeria è in vigore lo stato d’emergenza e che tutte le manifestazioni sono proibite. Il ministro allo sport lo ha dimenticato, ma la polizia e il ministero degli interni a quanto pare no, e neanche i rivoltosi che in questi giorni per poter continuare la mobilitazione contro il caro vita e la crisi hanno dovuto organizzarsi per difendersi e reggere un livello repressivo altissimo che ha già ucciso due giovanissimi manifestanti.


Dai primi giorni di Gennaio, da lunedì sera l’Algeria è in rivolta.
Nelle grandi città, da Algeri ad Oran, da Bejaia ad Annaba, fino ai paesi più piccoli, giovani e giovanissimi proletari precari o disoccupati stanno manifestando contro la crisi, il caro vita e la condizione bestiale in cui si trovano costretti ormai da tempo. Come per tutto il 2010 la pratica di lotta è in larga parte il blocco della città e poi anche delle strade regionali e nazionali, barricate e pneumatici fumanti, tentativi di sgombero delle strade da parte delle forze poliziesche, lanci di pietre e molotov. Fin dai primi giorni a questa iniziativa di lotta, sempre più massificata e partecipata che mostra la determinazione a voler mantenere la posizione politica nello scontro, si sono aggiunti numerosi saccheggi, incendi e attacchi ad edifici pubblici (tribunali, commissariati di polizia, poste, sedi dell’amministrazione) e privati (negozi, distributori, centri commerciali, banche). Ad Oran è stato assaltato e distrutto il più grande showroom della Toyota nel Magreb, ad Algeri invece è stata la volta dello showroom della Renault, come a indicare l’ormai superata soglia della tolleranza per una ricchezza che fa bella mostra di sé in città dietro le vetrine restando pur sempre irraggiungibile per molti.


Ieri venerdì 7 e oggi sembra aumentare il livello di diffusione e radicalità dell’insorgenza sociale.
Gli appelli degli himam (che non si stancano di ricordare che ad Allah piace la vita serena) e le dichiarazioni del governo che promette di mantenere stabili i prezzi dei beni alimentari di prima necessità (il cui aumento aveva fatto da primo detonatore della rivolta) non sembrano intimidire o calmare le strade e le piazze. Come ieri notte ancora oggi blocchi stradali, barricate e assalti a commissariati di polizia, edifici pubblici e saccheggi di negozi di abbigliamento e di elettronica. La piazza algerina stremata dalla crisi, dal caro vita sta volta sembra voler riprendersi tutto, e volere altro delle solite promesse o dei diritti che la governance del regime non può garantire se non a parole.


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