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“La Palestina è un laboratorio: così Israele esporta la tecnologia dell’occupazione”

Armi, tecnologie della sorveglianza, droni, tattiche e repressione: Antony Loewenstein, giornalista australiano e nipote di ebrei tedeschi rifugiati, racconta come la Palestina sia diventata il luogo perfetto per gli affari dell’industria militare israeliana. Strumenti antidemocratici venduti a una lunga lista di Stati, molti dei quali governati da dittature e interessati a colpire le proprie minoranze interne

di Maurizio Bongioanni, da Altreconomia

Israele è uno dei dieci maggiori esportatori di armi al mondo. Un “traguardo” raggiunto sulla pelle dei Territori occupati palestinesi, usati come un vero e proprio banco di prova. In settant’anni di storia, Tel Aviv ha sviluppato infatti un “modello” di occupazione che poi ha venduto a una lunga lista di Paesi, molti dei quali governati da dittature e interessati a colpire le proprie minoranze politiche, religiose ed etniche.

Armi, tecnologie della sorveglianza, droni, tattiche e repressione: nel suo libro “Laboratorio Palestina. Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo”, edito da Fazi Editore, Antony Loewenstein, giornalista australiano e nipote di ebrei tedeschi rifugiati, indaga come la Palestina sia diventata il luogo perfetto per gli affari dell’industria militare israeliana. “Il militarismo è il principio guida di Israele e in questo senso mettere fine al conflitto con i palestinesi potrebbe essere negativo per gli affari e minare l’ideologia fondativa dello Stato ebraico”, racconta ad Altreconomia.

Loewenstein, quando è iniziato il “laboratorio Palestina”?
AL
 Non è una cosa nata dall’oggi al domani, bensì il frutto di una strategia portata avanti negli anni. Israele ha sempre cercato di ottenere un riconoscimento della propria esistenza dai Paesi esteri. Dalla guerra dei Sei giorni del 1967, lo Stato etnonazionalista ebraico ha accelerato lo sviluppo di un’industria degli armamenti con dispositivi sperimentati sui palestinesi e promossi sul mercato come “testati in battaglia”. Da allora, Israele ha usato armi e tecnologie per ottenere sostegno diplomatico in ambito internazionale. Di recente ha fatto affari con la Russia, vendendo a Putin le tecnologie per spiare i suoi avversari e i dissidenti politici. Ma negli ultimi sessanta-settanta anni ha fornito armi, attrezzature e addestramento a una quantità incredibile di Paesi e in diverse dittature: Pinochet in Cile, Ceausescu in Romania, Suharto in Indonesia, Duvalier ad Haiti, Somoza in Nicaragua e durante il genocidio in Ruanda. La lista è molto lunga.

Dal 7 ottobre 2023 vediamo una nuova evoluzione: l’intelligenza artificiale (Ai). Anche questa è stata testata in Palestina, come dimostra Lavender, usato per targetizzare gli obiettivi senza quasi l’intervento umano. È questo il mercato futuro di Israele?
AL Le nuove armi guidate dall’Ai sono diventate motivo di interesse per molti Stati, che adesso stanno osservando come queste vengono impiegate contro i palestinesi, senza di fatto intervenire per bloccarle. Come racconto nel libro, i Paesi esteri hanno sempre preso spunto da ciò che Israele fa in Palestina, mettendo da parte il contesto umano palestinese. E come dico sempre, ciò che accade in Palestina non rimane lì ma viene esportato in tutto il mondo. Da quello che vedo, dopo il 7 ottobre Israele continuerà a fare ottimi affari.

Lo shadow ban contro gli attivisti palestinesi c’è sempre stato, con il permesso delle Big Tech. Qualcosa è cambiato?
AL
 Anche questo è un aspetto che ha subito un’accelerazione dopo il 7 ottobre. Esisteva già, ma ora è più visibile ancora. Con delle sfumature diverse: alcuni politici americani hanno sostenuto che bisognerebbe vietare TikTok perché starebbe trasformando i giovani statunitensi in sostenitori della causa palestinese. È un’idea folle: i giovani stanno con la Palestina perché i social stanno mostrando la brutalità dell’invasione di Israele a Gaza. Negli ultimi sei mesi, le società di social media, Facebook, X e le altre, hanno effettuato massicce operazioni di censura, divieto e interdizione. Ma, nonostante ciò, direi che questa è forse una delle prime guerre in cui lo scollamento tra ciò che la gente vede nei media tradizionali e i social media è così grande.

Nel libro scrive che gli strumenti di sorveglianza, tra cui Pegasus, sono direttamente collegati ai ministeri israeliani e che Israele, quindi, deve essere ritenuta legalmente responsabile per aver fornito tali mezzi di repressione.
AL Uno dei motivi per cui ho iniziato a occuparmi di questo problema è stata proprio la copertura dei media occidentali a proposito di Pegasus. Nonostante fossero stati prodotti ottimi articoli sull’argomento, c’erano due cose che venivano spesso ignorate: la prima è che il gruppo Nso, che sta dietro Pegasus, è sì una compagnia privata ma di fatto è un’estensione del governo israeliano, usata per tessere relazioni con altre potenze: Ungheria, India, Ruanda. La tecnologia della sorveglianza viene venduta a regimi repressivi e Israele non viene perseguito. Come se non sapesse. Invece, ci sono prove che dimostrano che non solo Israele ha venduto loro le tecnologie ma ha usate queste per spiare gli altri governi.

Una tecnologia che viene usata anche contro i migranti, non è così?
AL
 Nel 2015 c’è stato un gran numero di sbarchi verso le coste dell’Unione europea dal Nord Africa. Per far sì che non si ripetesse un tale fenomeno, la “Fortezza Europa” ha impegnato droni israeliani. Quello che hanno evitato di dire è che quegli strumenti, non armati, erano gli stessi testati nei dieci anni precedenti in Palestina, per monitorare i palestinesi. Quindi, a monte della tecnologia che osserva le barche nel Mediterraneo, scegliendo se soccorrerle o lasciarle affondare, c’è di nuovo (anche) Israele. Così come in parte della tecnologia usata nella sorveglianza della frontiera tra Messico e Stati Uniti c’è l’equipaggiamento israeliano acquistato dagli Stati Uniti di Barack Obama, poi utilizzato anche da Donald Trump e infine da Joe Biden.

L’attivista Eitay Mack spera che un giorno si possa arrivare a convincere un numero sufficiente di israeliani che “spacciare morte e miseria in giro per il mondo sia il peggior lascito possibile”. Sarà sufficiente questo per fermare Israele? Che cosa ne pensa delle sanzioni?
AL 
Solo un’esigua minoranza di ebrei preme perché Israele smetta di vendere armi. Io penso che l’unico modo per fermarlo sia isolarlo economicamente. Israele ha venduto tanti di quei dispositivi per la difesa a tanti di quei Paesi che spera di essere al riparo da qualsiasi reazione politica alla sua occupazione senza fine. Ma ora alcuni Stati stanno parlando pubblicamente di sanzioni, per esempio Irlanda, Belgio e Malta. Di concreto, però, non si è ancora visto nulla. È vero che le sanzioni non produrrebbero un effetto immediato, e sicuramente il sostegno dell’Ue e degli Usa a Israele non verrà meno, sia che ci sarà Biden presidente oppure Trump. Ma nel medio termine le sanzioni, insieme alle prove di crimini di guerra e magari a una condanna dalla Corte di giustizia internazionale, potrebbero cambiare le cose.
Il Sudafrica è il miglior parallelo in questo senso: sì, c’è un’opposizione dei neri, ma per molti bianchi l’apertheid era accettabile. Quel periodo storico è finito grazie alla pressione internazionale, all’isolamento e alle campagne di boicottaggio. Ora, dopo il 7 ottobre, siamo in tanti a opporci alle politiche di occupazione di Israele, e tra di noi ci sono anche diversi cittadini israeliani. Ma non basta, siamo comunque sempre una minoranza. Non credo che Israele si sveglierà un mattino e riconoscerà il proprio livello di repressione. Senza una forte campagna internazionale per isolare Israele per il fatto che sta violando i diritti umani, o senza qualche causa mirata contro le aziende israeliane di armi che vendono dispositivi a Stati autoritari, l’industria e l’occupazione continueranno a prosperare. E se Benjamin Netanyahu rimarrà al suo posto, Israele diventerà una teocrazia, come i Talebani. Certo, il futuro non è scritto ma quello di Israele è già molto buio e senza un intervento esterno la situazione non cambierà.

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