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La Corte dà ragione alle Filippine, la Cina rifiuta il verdetto: sempre più tensione nel Pacifico

La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja ha nella giornata di ieri espresso il suo verdetto rispetto alle controversie che opponevano Cina e Filippine sui diritti di sfruttamento delle acque del Mar Cinese Meridionale. Il risultato è in linea con le aspettative del tutto favorevole alle Filippine, e segnano un primo elemento vincolante legalmente rispetto alla questione complessiva dei rapporti di forza nel Pacifico, dove la partita decisiva si gioca sulla volontà o meno della Cina di forzare la mano sulle sue intenzioni espansionistiche nei confronti dei vicini (Giappone, Filippine,Vietnam,Malesia).

La decisione dei giudici è stata quella di sottolineare la violazione da parte della Cina di numerose norme di diritto internazionale, perlopiù riferibili alla Convenzione per i Diritti del Mare dell’Onu (UNCLOS, ratificata dalla stessa Cina), tra cui l’intromissione illecita nella Zona Economica Esclusiva di sfruttamento delle acque appartenente alle Filippine. Pechino è stata poi accusata di impedire i legittimi diritti di sfruttamento delle acque a pescatori filippini, di aver costruito illegalmente atolli artificiali nelle acque contestate, di aver attentato alla tenuta dell’ecosistema marino locale.

La Cina ha dichiarato immediatamente di non voler in ogni modo rispettare il verdetto dell’Aja, definendo i giudici come prezzolati dalla Filippine, ribadendo il suo diritto alla militarizzazione della zona e affermando la necessità di risolvere la questione unicamente attraverso accordi bilaterali tra i paesi coinvolti. Una modalità che la Cina sponsorizza proprio per far valere il proprio peso economico e commerciale nell’uno contro uno, ma che proprio per questo ha visto le Filippine nel 2013 ricorrere all’Arbitrato al fine di creare un precedente vincolante.

Le pretese cinesi di possesso su diverse isolette della zona (riunite collettivamente nel cosiddetto Nanhai Zhudao), che la Cina afferma di aver scoperto, nominato e gestito sin da 2000 anni a questa parte, non sono state riconosciute cosi come non è stata riconosciuta la validità della cosiddetta “linea dei 9 tratti” che include di fatto tutto il Mar Cinese Meridionale all’interno dell’area di sfruttamento cinese. La “linea dei 9 tratti” risale addirittura al 1948, quando ancora non aveva definitivamente trionfato la rivoluzione maoista.

Pechino ha comunque dichiarato non solo di non voler fare un passo indietro, ma anche di essere pronta ad istituire una Zona di Identificazione e Difesa Aerea (ADIZ) sul modello di quella costruita sullo spazio che circonda le isole Senkaku/Diaoyu contese col Giappone (la quale però è ovviamente non riconosciuta da Giappone e Usa, i quali l’hanno più volte violata svuotandola di fatto di senso all’atto pratico). Questa sarebbe una mossa che sfiderebbe direttamente una decisione di diritto internazionale innalzando ulteriormente la tensione nell’area del Mar Cinese Meridionale, già resa importante dalle azioni cinese ma anche dal rinvigorirsi di nazionalismi in paesi dell’area come il Giappone e le stesse Filippine.

Non sarà facile per Pechino riuscire a conciliare un atteggiamento aggressivo come questo con la volontà di incrementare la sua reputazione culturale basata sull’adozione intensificata di pratiche di soft power (potere di attrazione e indicazione identitaria e culturale). Il quadro è ancora più difficoltoso per la Cina se si considera che i dati dell’economia su Giugno vedono l’export cadere del quasi il 5% rispetto all’anno precedente, riflettendo i rischi sulle prospettive dell’economia mondiale relativi alla questione della Brexit ma anche della tenuta del sistema bancario europeo.

A cascata cadono anche le importazioni, al sesto mese di fila di ribasso in una dinamica che sembra innescare un circolo vizioso di cui non si vedono le vie d’uscita almeno nel breve periodo: il risultato complessivo parla di una crescita annuale inferiore al 7%, che molti vedono problematica mentre altri considerano semplicemente un segno del riadattamento di Pechino ad un nuovo tipo di normalità.

Detto questo, è difficile prevedere quali potranno essere le conseguenze di questo verdetto. E’ chiaro che da un lato si chiudono le vie per uno sviluppo pacifico delle controversie nella regione, a meno che la Cina non faccia un passo indietro che però come abbiamo visto sembra essere da escludere; la motivazione sta infatti nell’importanza ben oltre la questione specifica di questa disfida nel Mar Cinese Meridionale, che per la Cina è un’occasione di innalzare il suo status globale a partire da un rafforzamento della propria sicurezza, anche in relazione all’opinione pubblica interna.

D’altro canto gli Usa, che ricordiamo non hanno mai ratificato l’UNCLOS, hanno molto da perdere soprattutto a livello economico da un qualunque tipo di conflitto contro Pechino, e non è detto siano pronti a rischiare troppo per difendere gli alleati con i quali hanno accordi bilaterali a meno che tutta la comunità internazionale non si erga collettivamente contro la Cina. E’ probabile quindi che la tensione non porti a precipitazioni militari, e che la Cina possa continuare il suo percorso di rafforzamento militare sperando nel frattempo che i paesi dell’area possano cercare un accordo a lei favorevole, evitando il rischio di perdere tutto all’interno di un conflitto ma allo stesso rendendo noto lo spostamento di potere globale dagli Stati Uniti alla Cina. Dinamica che potrebbe interrompersi solamente in caso di esplosione di una guerra, per quanto locale..

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