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Altri sguardi: Il declino dell’impero americano

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Iniziamo a pubblicare alcuni dei contributi trovati in rete o inviatici da lettori e lettrici su quanto successo negli Stati Uniti con l’assalto a Capitol Hill. Crediamo che sia importante continuare a dibattere su quanto accaduto e cercare di comprendere le traiettorie che questo evento potrebbe segnare. Qui condividiamo un testo apparso su Carmilla a firma Sandro Moiso. Buona lettura!

E’ certamente difficile scrivere nell’immediato per spiegare quanto è accaduto il 6 gennaio al centro dell’impero occidentale. Ma alcune considerazioni si possono trarre fin da ora, naturalmente cercando di andare oltre le vuote formule democraticistiche espresse dai media internazionali e nazionali e, soprattutto, andando oltre la parziale spiegazione dei fatti attribuiti ad un unico deus ex machina: il presidente ancora in carica, anche se è ormai difficile stabilire fino a quando, Donald Trump.

Certamente il piagnisteo democratico, espresso sia da Joe Biden che dai suoi colleghi stranieri, non serve a spiegare i fatti, piuttosto tende ad intorbidirli, rivendicando per gli Stati Uniti un primato nella difesa dell’ordinamento democratico che dimentica il ruolo apertamente controrivoluzionario e reazionario che la capitale dell’impero e i suoi massimi rappresentanti hanno svolto a livello internazionale e interno.

Elencare le decine di azioni militari, poliziesche e golpiste condotte dall’intelligence e dalle armi statunitensi in ogni angolo del globo e del paese sarebbe qui troppo lungo, ma almeno alcuni fatti vanno ricordati: dall’intrusione di inizio Novecento, armi alla mano, negli affari interni del Messico e del Nicaragua per impedire o stravolgere le rivoluzioni in atto alla rimozione golpista di Mohammed Mossadeq in Iran nel 1953 per impedirgli di nazionalizzare il petrolio e rinsaldare sul trono la fedele dinastia Pahlavi oppure dal rovesciamento violentissimo del governo Allende in Cile nel 1973 al colpo di Stato in Brasile del 1° aprile 1964, che instaurò una dittatura militare filo-statunitense che durò ben 21 anni, fino ai più recenti tentativi di rovesciamento del governo venezuelano, solo per fare alcuni esempi.

 Quindi ascoltare i commentatori e il neo-eletto presidente degli Stati Uniti piangere per il pericolo corso dalla democrazia statunitense con l’attacco a Capitol Hill è perlomeno insopportabile, se non disgustoso. Quella democrazia, che all’interno per due secoli e mezzo almeno, si è basata sull’eliminazione dei nativi americani, sullo sfruttamento schiavistico degli schiavi africani e sull’emarginazione razziale di afro-americani, latinos, asiatici e, un tempo, anche degli immigrati italiani e dell’Europa dell’Est e del Sud, ha potuto vantare la propria forza proprio in nome di una rigida divisione di ruoli: all’America bianca la ricchezza estorta in patria e nel resto del mondo, con la forza e il ricatto, al proletariato multinazionale, alle etnie di diverso colore e agli stati dipendenti dalla colonizzazione occidentale (al cui vertice gli Stati Uniti si sono posti dalla fine della prima guerra mondiale in poi). A tutti gli altri gli avanzi e, in taluni casi, nemmeno quelli.

Fermiamoci qui e cogliamo però, nei fatti del 6 gennaio, una protesta delle classi medie statunitensi, prevalentemente bianche, per la perdita delle garanzie accumulate in passato proprio attraverso quel modello democratico di spartizione della rappresentanza politica e della ricchezza. In un altro articolo, apparso su Carmilla nel novembre 2020, si è già cercato di cogliere gli elementi economico-politici profondi che preludevano agli ultimi eventi e a quello, per necessità di sintesi, si rimandano i lettori (qui).

 Non è pertanto così paradossale notare che, in fin dei conti, le manifestazioni a Washington dei Proud Boys e di tutti gli altri sostenitori di Trump in realtà rappresentavano proprio la difesa estrema e rabbiosa di quella “democrazia”. Non vi può essere alcun dubbio sul fatto che il presidente uscente abbia contribuito ad infiammare ancor di più gli animi con le sue parole, ma allo stesso tempo occorre riconoscere che quella rabbia e quel desiderio di rivincita, almeno formale, covavano e crescevano nell’animo bianco dell’America profonda da ben più tempo. Anche da molto prima dell’ascesa al trono imperiale di The Donald.

In questo senso è facile comprendere come l’imperatore dal bizzarro taglio di capelli più che il creatore dello scontento bianco ne sia invece stato il prodotto. Make America Great Again (MAGA) è stato qualcosa di più un’intuizione psicologica trasformatasi in slogan. E’ diventato programma politico ed economico difficilmente realizzabile nel mondo globalizzato che gli stessi Stati Uniti avevano contribuito a realizzare, in cui le legioni bianche hanno, però, fermamente voluto credere.

Si parla qui di legioni e impero non a caso. Infatti, secondo lo storico inglese Adrian Keith Goldsworthy 1 per comprendere la crisi e la caduta di Roma come centro dell’impero occidentale è necessario ripercorrere quanto accaduto nei trecento anni precedenti, a partire dalla morte di Marco Aurelio, quando si verificò “una lunga serie di guerre civili, durante le quali gli imperatori rinunciarono alla res publica per concentrarsi solo sulla propria sopravvivenza”. A partire dal 180 d.C., lo storico inglese descrive dettagliatamente come le violente ribellioni locali finirono per danneggiare la struttura amministrativa e logistica dell’esercito, alimentando un clima generale d’insicurezza in cui chiunque fosse al servizio dell’impero poteva essere ucciso, torturato o imprigionato per ordine di altri Romani.

Ad alcuni potrà sembrare eccessivo il paragone in questi termini, ma è chiaro che la rivolta, la protesta oppure le semi-insurrezione, qual dir si voglia, di Capitol Hill porta violentemente alla luce le linee di faglia, fino ad ora in gran parte sotterrane, che dividono non solo bianchi da neri, ma anche le classi medie dal neo-proletariato non garantito, gli elettori dalla loro rappresentanza politica e gli interessi di una larga fascia di popolazione da quelli dello Stato e delle imprese più all’avanguardia.

Si potrebbe parlare di Americani bianchi contro un’America ancora sostanzialmente bianca nelle sue logiche di dominio e spartizione delle ricchezze. Soltanto che questo dominio e questa spartizione non può più essere diviso con tutti. Nemmeno con tutti i bianchi della middle class. E ciò costituisce un fatto realmente epocale, rilevabile ormai, soprattutto alla luce delle conseguenze politiche ed economiche della pandemia, in tutte le democrazie occidentali: la rottura del patto tra Stato e classi medie.

Classi medie che, dalle seconda metà dell’Ottocento alla fine del Novecento, hanno rappresentato il vero punto d’appoggio degli Stati, sia durante i governi democratici che autoritari o dittatoriali. Classi medie che hanno sempre richiesto e prodotto allo stesso tempo stabilità. Una stabilità economica, politica e di governo che oggi viene in gran parte a mancare e in cui anche l’autoritarismo rischia di rivolgere i propri provvedimenti contro coloro che più lo richiedevano (considerate tutte le possibili ricadute economiche dei lockdown e delle altre decisioni prese in materia di pandemia).

L’impero è oggi più debole, economicamente e politicamente, al suo centro e alla sua periferia su scala mondiale e, soprattutto, europea. Biden sarà il presidente più debole degli Stati Uniti, non solo per l’età ma anche perché il suo governo sarà sempre più stretto tra un malessere bianco armato2 ed un elettorato conquistato a suon di promesse che non potranno mai essere mantenute, La quasi emarginazione di Alexandria Ocasio-Cortez all’interno del Partito Democratico è, allo stesso tempo, sintomo e simbolo di tale contraddizione tra promesse e scelte possibili all’interno della logica capitalistica che regge ancora le sorti delle politiche statunitensi. Garantire a tutti un lavoro precario è sicuramente possibile, la stabilità dei diritti ed economica no.

Però se Atene piange, Sparta non ride, poiché anche il Grand Old Party, il Partito Repubblicano, si trova a dover prendere le distanze non tanto dal solo Trump, quanto da una parte rilevante del proprio elettorato. E’ perciò significativo di ciò il fatto che nel Campidoglio siano state “oltraggiate” sia la poltrona del repubblicano e vice-presidente Mike Pence che della portavoce democratica Nancy Pelosi. E lo è altrettanto il fatto che due ordigni esplosivi siano stati ritrovati nei corridoi del palazzo del Congresso, dopo l’incursione, nelle vicinanze sia degli uffici di rappresentanza democratica che repubblicana.

Tremano anche i populisti e i sovranisti europei, con in testa Salvini e Meloni, poiché iniziano a rendersi conto del rischio che si corre nel suscitare allo stesso tempo rabbia inconsulta e speranze illusorie. Altrettanto le sinistre europee, e soprattutto italiane, poiché è chiaro che continuare a perseguire politiche europeiste ad ogni costo accompagnate da vuote promesse potrebbe contribuire, in un periodo non troppo lungo, a portare in piazza manifestazioni più vaste, arrabbiate e violente di quelle viste a Napoli, Torino e Milano alla fine di ottobre.

La cosa positiva è stata certamente quella della mancata presenza in piazza a Washington di manifestanti anti-Trump legati a Black Lives Matter e Antifa, poiché non sarebbe stata una battaglia loro quella di difendere il Parlamento e le istituzioni politiche ed economiche che rappresenta e quella “presunta” democrazia. Certamente se i Proud Boys e simili dovessero in futuro aggredire la comunità afro-americana o rappresentanti dei movimenti dal basso, questi avrebbero tutto il diritto di difendersi con la forza. Anche con le armi accumulate dai gun club. Ma accondiscendere alla discesa in campo in nome di quella democrazia “esaltata” da Biden o dai media comunque asserviti, contro il pericolo rappresentato dall’”anarchia” dei fatti di Washington, costituirebbe un errore gravissimo e forse irreparabile. Destinato a castrare il movimento antagonista e a renderlo succube degli interessi del grande capitale.

 Il problema per gli Stati Uniti è ben più profondo delle immagini pop trasmesse da Capitol Hill, con sciamani, cappelli da cow-boy e costumi che sembravano rinviare alle immagini delle Civil War combattute dai supereroi Marvel nell’omonima serie di albi a fumetti e film. Quattro morti non sono pochi e nemmeno facili da rimuovere e dimenticare, considerato che la prima vittima del fuoco aperto dagli agenti del FBI per difendere l’aula del consesso è stata una manifestante pro-Trump, veterana dell’aviazione militare.

E tra quei manifestanti i veterani, cui Trump si è rivolto sempre più spesso, non dovevano essere pochi. Considerando poi che tra gli stessi militari e agenti di basso rango le simpatie pro-Trump oppure la rabbia per una perdita di garanzie socio-economiche non sono poche. Fattore che in uno scontro reale, allo stato delle cose oggi difficilmente immaginabile, potrebbe costituire un intoppo nell’esecuzione degli ordini e una minore affidabilità delle forze chiamate a difendere lo Stato. Così come già ieri si è constatato con il low profile delle forze dell’ordine per gran parte della giornata. Low profile certamente dovuto al rischio di una degenerazione dello scontro in carneficina, se la polizia avesse usato da subito l’armamento militare di cui è dotata, ma anche per non spingere una parte degli agenti a fraternizzare apertamente con i dimostranti. Come l’inchiesta sul comportamento della polizia e i selfie di un agente insieme ad alcuni dimostranti tenderebbe a confermare, sottolineando così la paura dei parlamentarii nei confronti di un possibile “tradimento” dei pretoriani

L’Occidente e la stessa Nato si sono risvegliati più deboli.
Riversare la responsabilità dei fatti soltanto su Trump di fatto significa nascondere la testa sotto la sabbia. Non vedere o rifiutare di vedere il malcontento che avanza proprio tra coloro che avrebbero dovuto continuare a rappresentare il maggiore elemento di stabilità per i governi e le economie pubbliche e private sarebbe un grave errore per gli stessi governi, partiti politici ed gli economisti che oggi brancolano, sostanzialmente, nel buio ad ogni emergenza. Non sapendo far altro che rispondere ogni volta con un autoritarismo privo di reale autorevolezza.

Nella politica statunitense sembra essersi creato uno stallo messicano di tarantiniana memoria: da una parte il tentativo di Trump, più conscio dell’attuale sconfitta di quanto sembrerebbe nella narrazione mediatica, che cerca di porre fin da ora le basi per nuovo soggetto politico, più radicale del Partito repubblicano, cui mettersi a capo. Dall’altra uno Stato che per una volta sembra convergere verso un governo di unità nazionale in cui, però, il partito repubblicano cercherà di rubare a quello democratico i voti dell’elettorato moderato. In tutti i casi, però, la possibilità di accontentare gli elettori sarà sempre più difficile, alla luce delle condizioni economiche e delle contraddizioni politiche attuali.

D’altra parte la fascistizzazione evidente della rabbia della middle class deriva proprio dalla sua incapacità storica, tipica delle classi medie, di esprimere una propria prospettiva politica, una propria organizzazione ed una visione univoca del divenire e del percorso da seguire. Prive di tattica e di strategia sono destinate dal proprio egoismo corporativo ad affidarsi alle promesse dell’uomo forte di turno. Strategia limitata e poco coraggiosa, nei fatti, che però risale al periodo del trapasso dal Comune alle Signorie nell’Italia tardo medievale, quando per evitare le lotte fratricide interne si preferì delegare il potere a qualche capitano di ventura o signore locale. Scegliendo così al posto di Machiavelli e della sua modernissima visione della politica e della funzione dello Stato, il perbenismo imbelle rappresentato dal Cortegiano di Baldassarre Castiglione e del Galateo di Giovanni Della Casa.

Nel film Il gladiatore di Ridley Scott, elemento pop, veniva messa in scena l’ascesa al trono imperiale di Commodo e la sua uccisione da parte di quegli stessi pretoriani che lo avevano portato al potere. Fatto che avrebbe dato inizio all’anno dei quattro imperatori e alla serie infinita di assassini e guerre interne destinate a indebolire sempre più l’impero, come si è ricordato poc’anzi.
Amadeo Bordiga, elemento politico, affermò, in uno dei suoi tanti scritti sulla grande crisi economica prevista per il 1975, che la rovina delle mezze classi avrebbe costituito un importante elemento di riconoscimento dell’avvento della Rivoluzione.

La crisi del 1975 non fu così devastante e certo meccanicismo economicistico oggi sarebbe fuori luogo. Eppure, eppure…la proletarizzazione e l’impoverimento delle classi medie, di qua e di là dell’Atlantico, potrebbe ancora riservarci delle sorprese. A patto di saperle anticipare e interpretare. Senza dormire sugli allori di un passato morto e sepolto come le vestigia di un sistema che avrebbe voluto sconfiggere e che invece ha contribuito, troppo spesso, a rafforzare.

 

1 Autore di La caduta di Roma. La lunga fine di una superpotenza dalla morte di Marco Aurelio fino al 476 d. C., Elliot, Roma 2011 

2 Come sottolinea Alec Ross, per quattro anni consigliere dell’amministrazione Obama: “L’assalto al Campidoglio non è opera di una minoranza insignificante. Ci sono 20 milioni di americani radicalizzati”, mentre una recentissima statistica dimostra che almeno altri 50 milioni hanno apprezzato il blitz. Vedi: F. Olivo, “Venti milioni di patrioti ancora radicalizzati”, La Stampa 8 gennaio 2021 

 

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