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Almaviva, una vicenda a strati

PRIMA I FATTI. Il 23 Dicembre c’è un tavolo al Mise sulla vertenza Almaviva, azienda internazionale di telecomunicazioni e Informatica. Il Governo consente vigliaccamente all’azienda di fare la stessa proposta separatamente alle RSU di Napoli e Roma. La proposta è indecente. Un accordo capestro che rinvia la decisione sulla chiusura delle sedi a tre mesi (supportati con soldi pubblici come i precedenti mesi di attività) a patto che vengano accettatati immediatamente un taglio del costo del lavoro e il controllo da remoto. Gli stessi punti di cui si discute nel tavolo CCNL delle Telecomunicazioni.

Le RSU di Napoli accettano (a stragrande maggioranza), Roma rifiuta. Lo scandalo impazza sulla stampa. Si tiene pochi giorni dopo un Referendum sulla scelta delle Rsu. La maggioranza delle lavoratrici di misura boccia la proposta (quasi il 45% approva invece il NO). E’ comunque tardi l’azienda rifiuta i risultati del Referendum e chiude la sede di Roma avviando una procedura di licenziamento collettivo per 1666 lavoratrici e lavoratori. Da qui parte la lotta di un Comitato autogestito di lavoratrici e lavoratori che non ci sta a prendersi la responsabilità dell’esito della vicenda.

UNA VICENDA A STRATI

Nella storia del conflitto all’interno del mondo della produzione di questo paese, c’è un termine di confronto obbligato per la chiusura della sede di Roma di Almaviva Contact ed è il licenziamento degli operai di Mirafiori del 1980. Questo non perché le due vicende possano essere accostate in nessuna maniera sul piano sindacale, della composizione del tessuto operaio e su quello strettamente politico, ma perché Almaviva a Roma era la Mirafiori dei call center italiani: grande per dimensione e qualità delle commesse, la sua enorme sede si staglia al centro di Casal Boccone, quartiere incompiuto e ridisegnato negli anni della speculazione della Roma veltroniana, accanto ad un’occupazione dei Movimenti romani. C’è un’altra utilità nel paragone impossibile appena proposto, confrontare come il licenziamento di migliaia di persone che è sempre un’operazione politica portata a termine da parte padronale sulla spinta di altre esigenze che non siano esclusivamente di bilancio, raccolga lo schieramento dell’opinione pubblica e delle forze politiche. Su questo terreno ci troviamo veramente all’opposto. Nel 1980 i licenziamenti vennero percepiti da parte di quel ceto medio allora craxiano ed in futuro berlusconiano con la soddisfazione di chi vede ridimensionata la forza di quella classe operaia che è qualcosa di distinto da se ed addirittura ostile. Il resto del paese vede però i licenziamenti di Romiti con timore presagendo a quale futuro di deindustrializzazione porterà la libertà del Capitale.

Oggi nella rappresentazione della stampa e nel messaggio sociale diffuso rimane l’insofferenza verso la rigidità del lavoro (“Ma che vogliono questi? Si permettono di dire NO ad un accordo che li mantiene in vita?”), ma paradossalmente è l’infrastruttura del ceto sociale su cui poggiava negli anni 80 che declina inesorabilmente. Dal punto di vista politico siamo ugualmente agli opposti, il Sindacato confederale ha abbandonato totalmente la vertenza, non crede che una regolazione seppur minima del mercato del lavoro sia difendibile, il PD l’ha gestita come parte attiva facendo sponda esclusivamente su Tripi patron di Almaviva (e da sempre grande elettore PD). Dalla parte estranea al mondo istituzionale alcuni tra attivisti da sempre impegnati sul fronte del lavoro, sindacati di base e Movimenti per il Diritto all’abitare della adiacente occupazione si schierano, altri non capiscono il quid di una lotta che è drammatica ma forse non epica, perfetto specchio dei nostri tempi.

COME RIDURSI COSI’

La lotta del Comitato dei 1666 ex Almaviva è una lotta che parla più linguaggi contemporaneamente e che ha più aspetti da sviscerare. Alcuni parlano di certi aspetti oggettivi che travalicano anche gli attori in campo e si riflettono sullo scontro tra gli interessi ad un livello più ampio. Bisogna quindi prenderla alla larga su questioni che solo apparentemente non c’entrano nulla. L’ICT è un settore di accumulazione ad alto valore aggiunto, la cui assenza in Italia è una delle cause della minorità del sistema di gestione del Capitale italiano nei confronti di quello di altri paesi industrializzati. Il peccato originale (in senso strettamente industriale senza neanche prendere posizioni ideologiche) è la privatizzazione dell’ente telefonico di proprietà statale, in una modalità che poteva essere pensata solo dal PD (allora Ulivo). Comprata per due volte da gruppi che avevano potenti legami ai fondi finanziari Telecom era un’azienda non priva di suoi laboratori di innovazione che si ritrova sin dagli anni duemila senza alcuna strategia industriale e carica essa stessa dei debiti che sono serviti a scalarla. Il risultato è che in Italia si pagano altissime rendite ai gestori telefonici, senza neanche avere una rete adeguata. L’aggravante è che lo Stato pur di rendere appetibile questo colosso dai piedi di argilla gli ha anche lasciato la gestione della infrastruttura di rete, i cui progetti di rinnovamento e allargamento sarebbero necessari ma mancano ovviamente dei capitali privati e pubblici (ben impegnati in meraviglie dell’ingegno tipo i vari TAV). Anche il noto finanziere francese Bollorè essendosi alla fine trovato nelle mani quasi per caso la patata bollente Telecom pensa che l’unica maniera per farla diventare profittabile sia quella di trasformarla in un vettore di contenuti fondendola con Mediaset. Incredibile come non si sia fatto notare nello straparlare di nazionalità dei capitali come tanto quello francese, quanto la storia italiana siano dei progetti residuali dal punto di vista dello scenario industriale-tecnologico che disegnano. In un quadro del genere i Capitali sono stati investiti in nicchie assolutamente periferiche come i servizi di telefonia in appalto. Addirittura un Tripi qualsiasi può risultare un imprenditore di grossa taglia semplicemente perché raccoglie una serie di commesse telefoniche da grandi attori pubblici e privati (dall’Inps al Comune di Roma, dall’Eni a Trenitalia etc.). Già la lotta di Atesia imponendo alcune rigidità (ridimensionate “opportunamente” con l’intervento del Governo Prodi) aveva costretto a ristrutturare il settore spostando ulteriormente i call center nelle regioni obiettivo 1 (con la possibilità di aprire i call center tramite i fondi europei), il perfezionamento delle tecnologie Voip (le stesse di Skype) ha attualmente consentito ulteriore mobilità dei capitali (quelli di Tripi compresi) che oggi delocalizzano all’estero dove si parla Italiano (Albania, Tunisia, Romania etc.). Oggi la partita si gioca esattamente sull’oggetto della controversia Almaviva taglio salariale e controllo in remoto delle postazioni telefoniche, oltre la già pessima normativa del Jobs Act renziano. La produttività dei servizi telefonici in appalto si ottiene così. In un quadro industrialmente devastato come quello delle Tlc italiane ciò di cui c’è bisogno perché il lavoro torni ad essere di qualche rilievo come fonte di valore non è solo un taglio salariale che riduca il compenso delle lavoratrici italiane quasi alla stregua delle telefoniste dell’Est Europa, è un comando costante sui ritmi in una riedizione ipertaylorista più che postmoderna della produzione dentro le TLC.

E’ su questo nodo che precipita la soggettività di quei lavoratori e lavoratrici che non solo danno mandato consapevole, ma continuano a rivendicare la correttezza delle ragioni del NO, che ca va sans dire per Noi incarna quel NO sociale di cui parliamo da mesi.

I PRIMI SCRICCHIOLII?

Proviamo ora a misurarci per davvero col tentativo di far parlare le lotte e non i singoli lavoratori (atteggiamento che nasconde più che il populismo la coazione idealista-negriana a immaginare di essere sempre di fronte al Soggetto giusto). Nel post-referendum sull’accordo –dicevamo- nasce la protesta di alcuni ex lavoratori Almaviva, in un contesto in cui neanche per i sindacati di base è stato possibile giocare un ruolo si forma un Comitato autorganizzato che tenta di proseguire la lotta dopo i licenziamenti.

Una prima buona abitudine è esaminare la piattaforma degli attori in campo e ricondurla ad un quadro analitico e valoriale. La piattaforma dei lavoratori Almaviva si poggia su tre macro punti. Il diritto ad ammortizzatori sociali più generosi della Naspi, una ricollocazione equa e infine la critica politica a quei meccanismi di esternalizzazione, sottoinquadramento e sorveglianza su cui è stato ristrutturato il mercato del lavoro e che hanno già rifiutato dicendo NO all’accordo.

Qui si può già riscontrare una prima anomalia. Una lotta che inizia quando la vertenza si è appena chiusa con una sconfitta, non è evidentemente una lotta sociale normale, perché non esiste in sé la contesa sindacale. Potrebbe essere una lotta per riaprire una partita che è stata truccata, ma come detto rientrare in Almaviva non è la rivendicazione.

Questo punto è particolarmente rilevante e fa capire perché sia stato possibile per almeno una metà dei dipendenti Almaviva direzionare le RSU nel rifiuto dell’accordo. Si inizia a manifestare un rifiuto del lavoro, che ha una natura identica e al contempo differente da quella che fece esplodere il lungo ’68 italiano. Questo rifiuto, come tutte le negazioni e come tutti gli aspetti di questa vicenda è ambivalente ed apre a più possibilità. Da una parte è l’affermazione che l’erogazione della forza lavoro non può avvenire a qualsiasi condizione, perché i lavoratori e le lavoratrici che detengono quella forza lavoro sono vita estranea alla stessa forza lavoro, e fuori da ogni retorica non hanno piacere a fare quello che fanno o –almeno- non hanno nessun piacere a farlo nelle condizioni in cui lo fanno. C’è in alcuni (tutti/e quelli/e che hanno votato NO e si mobilitano) lavoratori e lavoratrici un fortissimo rifiuto dell’identificazione di se stessi con l’azienda. Eppure attraverso una serie di modalità a volte autoritarie, a volte paternalistiche la storia di Almaviva racconta di un fortissimo investimento nell’ingenerare questo sentimento. La realtà conta più dell’affabulazione.

Dall’altra parte c’è un rifiuto di questo specifico lavoro a queste specifiche condizioni che sono andate e che sarebbero necessariamente andate peggiorando anno per anno. Se questo è ovvio, visto che nessun proletario è un filosofo e rifiuta sempre uno specifico e determinato lavoro, è interessante scoprire come questo rifiuto prenda più forza nel confronto di altre vertenze venute al primo dei gironi infernali della crisi (in particolar modo Alitalia ed Eutelia) che acquisirono la ribalta delle cronache sul lavoro negli anni tra il 2009 ed il 2011.

E qui si può venire al secondo dei punti della piattaforma. I lavoratori chiedono un ammortizzatore sociale che non sia la Naspi anche in riferimento all’utilizzo della CIG in deroga durante i primi anni della crisi e in occasione delle summenzionate vertenze che provocarono anche esse centinaia di esuberi. Quel percorso di accompagnamento “comodo” al pensionamento (o ad un impiego pur che fosse) non esiste più. Era stato uno stratagemma che Tremonti aveva trovato per far pagare gli effetti della deindustrializzazione alla tanto odiata Europa riversando miliardi di euro attraverso i circuiti della formazione regionale, in maniera da non far esplodere completamente il malcontento sociale. In ogni caso richiederebbe oggi una procedura di concertazione a cui nessuno è disponibile (né Padroni né Governo). Ci sono i margini però per rivendicare l’ indennità di mobilità come giustamente viene fatto, che garantirebbe una copertura appena superiore a quella della NASPI. Tra il primo girone infernale della crisi e i giorni di oggi sono passati, non inosservati ma inadeguatamente ostacolati dall’intero corpo dei lavoratori, il governo Monti e la ristrutturazione Renziana ed i suoi effetti non possono non notarsi. In qualche maniera ci troviamo di fronte ad una seconda fase della crisi in cui anche l’attenzione politica messa nel disinnescare le mine sociali provenienti dall’inarrestabile desertificazione produttiva è assai più bassa. Questo non solo perché dalla parte delle classi dominanti non c’è interesse ad ammortizzare la situazione convinti che essa non sfocerà mai in un’esplosione generalizzata, ma anche perché inizia a diventare impellente che la crisi compia tutto il suo percorso di compressione dei salari.

Di fronte a questa nuova fase dopo avere ampiamente verificato di non avere gli strumenti per “non pagare la crisi”, quantomeno bisognerebbe imporre che la crisi diventi un problema anche per loro.

A questa considerazione generale si affianca il fatto che alcune vertenze aziendali dentro un sistema di protezione sociale particolaristico e duale come quello Italiano vengono ammorbidite, altre no. In questo senso Almaviva, che -come abbiamo spiegato poco sopra- appartiene sicuramente alla periferia del mercato del lavoro è stata non casualmente trattata come è noto; ha fatto anzi le veci di un caso esemplare di sacrificio che possa mostrarsi a tutti quei lavoratori e lavoratrici italiani di media qualifica che pensano ancora di poter accedere ad un minimo di regolazione del mercato del lavoro. Il rischio vero è che Almaviva non abbia di fronte a sé il miraggio di un trattamento stile lavoratori del trasporto aereo, ma di un destino tipo mondo delle cooperative. Su questo punto c’è una sorta di sospensione ed alle volte vince l’affabulazione sulla realtà. Nonostante ciò il rifiuto della prospettiva di immiserimento è chiaro e consapevole. Non solo i meccanismi di ricollocamento regionale che passano attraverso gli stessi inutili circuiti formativi rafforzati negli ultimi anni vengono visti con sospetto come lo strumento che può dare sbocco ad una condizione più bassa di quella di provenienza, ma viene agitata consapevolmente la parola d’ordine della internalizzazione dei servizi come unico strumento di salvaguardia reale di chi lavora nel settore. Del resto o dentro l’attuale configurazione del mercato del lavoro vengono imposte delle rigidità che costringano il Capitale a trovare equilibri di produttività superiore o bisognerà abituarsi ad una prospettiva di vertenze senza mediazione solo fino a pochi anni fa impensabile.

Il peso che questa consapevole visione del rischio deve avere sul prosieguo della vertenza del CCNL delle telecomunicazioni deve essere pesantissimo. L’avanguardia deve venire in questo caso “da fuori” in senso proprio: cioè da lavoratori e lavoratrici che non sono più tali. Può sembrare un’eresia ma c’è bisogno che le esperienze autorganizzate (come i lavoratori TIM) e il Comitato dei 1666 ex Almaviva continuino a tenere aperta la contraddizione che si è concretizzata con la rottura del tavolo del CCNL.

PRIMI ESPERIMENTI

Consci dell’improvvisazione inevitabile in una situazione del genere questi lavoratori e lavoratrici hanno accettato di buon grado il dialogo molto più che con la solita sfilata dei vari politicanti sempre pronti a rappresentare il loro nulla, con pezzi molto vari di forze sociali, vagliandole più che altro sulla disponibilità vera di stare con loro in piazza e alle assemblee e di accompagnarli nei primi passi di organizzazione di un percorso.

Quello slogan sulla “gente come Noi che non molla mai” è stato un segnale di fumo in aria per i Movimenti del diritto all’abitare. Mondi sociali lontani (e fisicamente così vicini) che si sono incontrati il giorno della riconsegna delle cuffie. Questo aspetto probabilmente è quello che incarna meglio il terzo punto della piattaforma, quello più politico. Sarà impossibile infatti invertire la tendenza nel mercato del lavoro senza portare dentro il conflitto operaio quella carica che ha attraversato le lotte sociali contro l’austerità negli ultimi anni, e senza unire quei pezzi di classe che il corporativismo confederale ha volutamente tenuto separati in questi anni.

In questo senso il Comitato dei 1666 ex Almaviva racchiude tutte le difficoltà e le speranze che si possono ritrovare in una situazione del genere. Rispondere all’espulsione non con la dispersione, ma con il compattamento. Rispondere all’esclusione non con la docilità, ma con la rigidità. Rispondere alla frammentazione con l’unione delle lotte. La Gente come Noi non molla mai!

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