
USA, verso le presidenziali a colpi di scandali e contestazioni
Non bastasse l’enorme distanza reale e percepita tra la Clinton e la stragrande maggioranza degli americani, a dare un altro colpo alla sua popolarità e a inquadrarla come il candidato dell’establishment è soprattutto lo scandalo delle mail rivelate da WikiLeaks, che in piena convention democratica hanno rivelato le manovre dei poteri forti del partito per fare fuori dalla contesa alla nomination Bernie Sanders.
Il principale rivale di Hillary alle primarie, che proprio ieri ha appoggiato la Clinton invitando a votarla a novembre per fare fronte comune contro lo spauracchio Trump, è stato fischiato dai suoi sostenitori durante il suo intervento per non aver preso le distanze dal candidato democratico alla presidenza.
Tra le varie mail desecretate alcune in cui si invitava ad attaccare Sanders per il suo ateismo in stati profondamente religiosi, a sottolineare l’impraticabilità delle sue idee in campo economico, ad impedire che i comitati locali potessero organizzare ulteriori testa a testa con Hillary che potessero rivelarsi pericolosi per l’ex first lady.
Attacchi alle spalle che, oltre a rendere assolutamente vuota la teorica neutralità del partito in sede di primarie, hanno fatto infuriare i sostenitori di Sanders, i quali ieri hanno inaugurato a loro modo la convention democratica con un corteo a Philadelphia, sede della manifestazione elettorale. Corteo nel quale la parola d’ordine comune era il rifiuto della Clinton in quanto elemento dell’establishment, oltre a proteste contro il programma di Hillary rispetto a temi quali le energie rinnovabili e il fracking.
“Aiutaci a fermare l’establishment in politica” recitava uno degli striscioni, mentre molti slogan sottolineavano la vicinanza tra la Clinton e il mondo della finanza e delle multinazionali: le principali banche ed hedge fund hanno proprie delegazioni a Philadelphia, e hanno sostenuto in maniera massiccia la campagna di Hillary. Perfino Michael Bloomberg, ex sindaco di New York ed esponente di primo piano del mondo della finanza, interverrà alla convention in favore di Clinton.
A pagare per tutti le conseguenze dello scandalo è stata Debbie Wasserman, presidente del Comitato Nazionale Democratico che si dimetterà a fine convention, sperando in questo modo di spegnere le polemiche accollandosi pienamente il ruolo di capro espiatorio per l’accaduto.
Imbarazzante il commento della Clinton a riguardo: bypassando completamente il merito della questione, ha infatti affermato che dietro lo scandalo ci fossero hacker russi impegnati nello spingere il sentimento popolare verso Trump contro i democratici, cosi da soddisfare le esigenze di politica estera di Putin.
Miglior regalo per Trump non poteva esserci, dato che nonostante la sua lapalissiana origine ai piani alti della scala sociale, il magnate repubblicano sta conducendo tutta la sua campagna proprio ponendosi come il nuovo che avanza rispetto all’establishment politico del paese; del resto la stessa candidatura di Trump è arrivata contro il benestare del partito, con membri come Ted Cruz che gli hanno negato l’endorsement durante l’appena terminata convention del partito a Cleveland.
Il magnate americano ha inoltre letto per la prima volta un sondaggio in suo favore, che lo darebbe di 3 punti avanti a Clinton: una svolta che testimonia la crescente disaffezione elettorale verso Hillary, soprattutto da parte dei sui stessi potenziali elettori e in particolare tra i giovani che hanno appoggiato in massa Sanders.
Clinton non ha aperto infatti in minima parte alle questioni sollevate da Sanders, neanche a livello d’immagine: ha infatti nominato come vice Tom Kaine, un centrista bianco la cui scelta sembra più votata a raccattare elettori della middle-class USA propensi verso Trump che a cercare di ottenere il consenso giovanile e progressista, che sembra essere visto da Clinton quasi peggio di Trump.
La questione centrale sembra quella riguardante chi si aggiudicherà il voto delle donne e delle minoranze etniche: un voto che dovrebbe garantire in teoria un largo vantaggio a Clinton ma che non è detto si possa esprimere a causa della percezione sempre più diffusa nella popolazione di una Hillary completamente ostile a qualunque forma di avanzamento sociale, rigettata come impopolare e invotabile da ampie fasce della popolazione, non solo da quella tradizionalmente repubblicana.
Del resto, l’era Obama è stata quella che ha visto invece della pacificazione, una ripresa del conflitto della popolazione nera, incarnata in percorsi politici come quello di Black Lives Matter. Quali speranze si dovrebbero avere in una candidata bianca ex segretario di Stato, nota per lo strenuo sostegno al conflitto in Iraq e nelle stanze del potere da più di vent’anni? Ad approfittarne potrebbe essere Trump che dalla sua vanta una base elettorale minore rispetto a quella di Clinton in ampiezza ma molto determinata e attiva nel sostenere la campagna del tycoon americano soprattutto negli Swing States, quelli tradizionalmente incerti a livello di comportamento elettorale e che sono decisivi per assegnare la vittoria.
Nell’Ohio ad esempio, dove la piccola e media industria è stata completamente devastata dai processi di deindustrializzazione e dagli accordi transnazionali come il NAFTA, difeso da Clinton e fortemente osteggiato, almeno a parole, da Trump. Lo stesso Trump che propone dazi commerciali del 40% ad ogni importazione negli USA, parlando di misura necessaria per rilanciare l’occupazione, e contestualmente afferma la necessità di costruire un muro alla frontiera con il Messico per fermare l’immigrazione clandestina.
Proposte aberranti come quest’ultima sembrano però fare presa su una classe consistente delle classi media e operaia bianca, che in una tendenza comune a tutto il mondo occidentale sta rigettando una teorica “sinistra” che difende a spada tratta l’operato delle multinazionali e i processi di globalizzazione capitalistica cadendo nelle braccia di retoriche nazionaliste e neoisolazioniste come quelle portate avanti da Trump con il suo “Make America Great Again”.
Lo scenario più probabile ad ogni modo è quello di un enorme astensionismo capace di riflettere lo iato sempre più profondo tra un contesto sociale che vede quanto successo a Dallas e Baton Rouge come il risultato di un razzismo istituzionale mai stato così forte nonostante la prima presidenza nera, che vede i fatti di Orlando come recrudescenza del profondo disprezzo verso le minoranze, e che dopo le elezioni difficilmente potrà essere rappresentato da qualunque candidato abbia vinto.
Uno scenario che apre interessanti prospettive per la possibilità di una ulteriore radicalizzazione dello scontro politico nel paese, con l’establishment che in seguito all’esperienza di Occupy e a questa campagna elettorale sembra sempre meno in grado di poter operare una qualsivoglia forma di riconciliazione nazionale.
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