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Un murale che parla (in negativo) di noi

E’ la sfida che dovrebbero cogliere i sinceri rivoluzionari: partire dalle proprie inadeguatezze per cercare di superarle.

Partire da uno sguardo critico sulle nostre realtà, per saper rapportarci al mondo e alla composizione della nostra classe senza frustrazioni per gli insuccessi delle nostre iniziative e del nostro radicamento, o per risultati che non reputiamo soddisfacenti rispetto alle aspettative nutrite e coltivate nel tempo.

Non è la classe ad essere inadeguata, siamo noi che non sappiamo coglierne in maniera del tutto sufficiente i desideri, svilupparne le rigidità, attraversarne le contraddizioni per farle esplodere, ricomporla su un terreno di scontro contro l’attuale sistema di dominio.

Non crediamo che sia facile e non abbiamo ricette confezionate da servire come se fossimo scienziati della rivoluzione, quello che possiamo e dobbiamo fare è guardarci con onestà e capire dove ci stiamo muovendo bene e svilupparne le potenzialità, dove siamo carenti e assenti e cercare di capire come invertire rotta.

Ma per fare tutto ciò dobbiamo guardare noi stessi, le nostre assemblee, i nostri collettivi e modificare (e quale scuola migliore della prassi?) le nostre inadeguatezze, i nostri limiti soggettivi.

 

E così la presentazione di un libro e l’intervento di una compagna può gettare luce sui nostri limiti, sulla riproposizione e riproduzione anche all’interno di realtà di movimento di dispositivi che diciamo di combattere: in questo caso di dinamiche sessiste.

Silvia Baraldini, durante la presentazione del libro “Sebben che siamo donne” nel nostro spazio sociale, ha fatto notare come il murale raffigurante la testa di un corteo che si muove sotto uno striscione con scritto “Working class” fosse composto quasi esclusivamente da uomini; solo due donne attraversano la mobilitazione immortalata: una composizione di classe non solo anomala, ,ma del tutto erronea.

L’elemento femminile è completamente rimosso.

Sintomo di un pregiudizio inconscio, di un rimosso in buona fede, ma esplicativo di un atteggiamento mentale figlio della società in cui viviamo che relega le donne a posizioni ausiliarie; e quando queste assumono e impongono la centralità delle loro presenze e delle loro scelte ne viene osannata l’eccezionalità, trascurandone il ruolo centrale che sempre ebbero nella storia e nei suoi molteplici sviluppi.

Potremmo spingerci oltre: i manifestanti ritratti sono tutti bianchi. Curioso che proprio in questi ultimi anni una composizione operaia soprattutto migrante abbia animato e portato avanti le lotte più radicali nelle cooperative della logistica.

 

E’ questo il merito principale del libro di Paola Staccioli e della discussione condotta con lei e con Silvia in merito al libro “Sebben che siamo donne”:  la presentazione e la proposta di un punto di vista assolutamente interno alla soggettività militante femminile che dagli anni ’70 fino agli anni 2000 ha portato avanti in autonomia la propria scelta di alterità rispetto ad un presente e ad una società malati e profondamente ingiusti; un punto di vista partigiano espresso con tale forza e autenticità da sollevare e incrinare, per chi ha l’onestà intellettuale di cogliere e riconoscere le proprie contraddizioni e i propri limiti, un atteggiamento inconscio che come uomini (e bianchi) riproduciamo nella nostra militanza e nel nostro agire collettivo.

 

CSA Dordoni

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