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“Un lavoro da tempo libero”: il caso Foodora

Chi sono i rider?

Dalle interviste realizzate emerge che i rider sono generalmente giovani, studenti universitari (o ex in quanto delusi dai percorsi di studio per la maggior parte italiani, per la stragrande maggioranza uomini. A causa della crisi, e della conseguente mancanza di opportunità lavorative, di questa categoria fanno parte anche persone adulte: noi abbiamo incontrato un uomo di 36 anni che per un periodo ha svolto contemporaneamente 3 lavori, 7 giorni su 7 e che si definisce attualmente: «privilegiato rispetto a tutti loro  perché a un certo punto l’azienda mi ha offerto un contratto vero per cui per 6 mesi ho avuto un contratto regolare a tempo determinato con tutte le garanzie», e un altro uomo sulla quarantina che ha lavorato per 10 anni presso una multinazionale con cui poi è entrato in vertenza per i continui spostamenti che gli venivano richiesti, che andavano ad incidere significativamente sulla sua qualità di vita.
Tra gli aspetti individuati come positivi di lavorare come rider emerge la flessibilità, il fatto che «sulla carta» sia un’occupazione che ti permette di «lavorare quando ti pare, prendere 5 euro all’ora, lavorare in bici a Torino in cui voglio dire in bici non è neanche male andare…».
Tra gli assunti da più tempo si riscontra anche una certa comprensione per la paga oraria non certo esaltante: nella fase iniziale di vita dell’azienda alcuni lavoratori si mostrano comprensivi rispetto a quelle che possono essere le difficoltà iniziali di far partire un progetto nuovo, di farsi conoscere dai potenziali clienti. Il fastidio viene manifestato quando, a fronte di una crescita esponenziale del fatturato, l’azienda non solo non propone migliori condizioni per tutti ma, anzi, propone il passaggio dalla paga oraria al cottimo

Funzionamento: dietro l’innovazione dell’algoritmo, le solite dinamiche

Da una chiacchierata approfondita riguardo il funzionamento dell’assegnazione turni si evince che in realtà, come nella maggior parte dei casi, il meccanismo si riduce una questione di relazioni personali e di discrezionalità dei responsabili. Uno dei rider lo spiega molto chiaramente: «ero in buoni rapporti con il responsabile dei turni quindi sapeva che ero sempre disponibile, quando era nella merda mi chiamava perché aveva bisogno e quindi poi cercava di darmi i turni che richiedevo. Trattamento che non era riservato a tutti e soprattutto non era riservato a coloro che non riuscivano ad avere un rapporto con quella persona un po’ confidenziale e intimo… è una questione di rapporti personali».
Quando chiediamo loro di spiegarci meglio il funzionamento dell’algoritmo ci rispondono che è il responsabile della flotta torinese la persona incaricata di accettare le disponibilità dei lavoratori e di assegnare i turni mentre l’algoritmo assegna le consegne durante il turno lavorativo. Sempre tramite l’algoritmo vengono raccolti dati statistici concernenti la quantità di ordini eseguita, le velocità medie tenute, la rapidità nell’accettare l’ordine. Ovviamente i turni vengono assegnati – oltre che in base alle relazioni personali – a seconda dei risultati ottenuti da ciascuno nelle statistiche.
Come nota di colore uno dei rider racconta di un collega estremamente performante a cui venivano assegnate sempre  le consegne più lontane, quando si è lamentato in ufficio i suoi capi gli hanno consigliato di andare più lentamente…esempio di un effetto perverso del funzionamento dell’app.

È comodo perché scegli tu quando lavorare (se Foodora è d’accordo)

La comodità della flessibilità è uno dei maggiori incentivi che spingono gli aspiranti rider a proporsi all’azienda. Si tratta però di una retorica che non corrisponde alla realtà dei fatti. Solo che, come raccontano i lavoratori e le lavoratrici, lo si scopre successivamente.
«Se tu non fai come ti dicono, semplicemente non vedi i turni quindi non lavori». Si tratta di una frase ricorrente all’interno delle interviste, specialmente quando si parla della mobilitazione. Al momento attuale, ad esempio, i rider che si sono esposti maggiormente riportano di non avere alcun turno assegnato da circa due settimane, ovvero dall’inizio della protesta. Così come una rider racconta di esser stata assunta, teoricamente, ma nella pratica non ha ancora mai svolto – e a questo punto non sa se accadrà – un turno lavorativo per Foodora.
La mancata assegnazione dei turni segue evidentemente una logica punitiva come emerge da questa dichiarazione a proposito delle discussioni che nascevano nella chat aziendale (prima che fosse abolita) e delle conseguenze che seguivano: «Quando abbiamo iniziato a lamentarci, con i toni più o meno accesi, sono venute fuori delle punizioni individuali che andavano dalla sospensione temporanea, dal banno di quella chat quindi dall’essere tagliati fuori dall’unico canale di comunicazione con tutta l’azienda e i colleghi, al taglio turni per 1-2 giorni». E ancora: «Ogni volta che siamo stati estromessi dalla chat poi sono derivati blocchi dei turni. Quindi tu non puoi più parlare e non puoi neanche più lavorare, e che sia da esempio ì».
Si tratta di impedire ad una persona di esprimere la propria opinione ritenuta scomoda, di non permetterle, a quel punto, di partecipare ulteriormente alla discussione neanche come ascoltatore, di non assegnargli successivamente i turni lavorativi, e di fare tutto questo pubblicamente perché sia da esempio.

Sfruttamento? Arroganza padronale? Antico…È l’economia on-demand baby!

«E poi il capo si era permesso di dire: basta così, altrimenti altri 2 sospesi!». Uno dei rider racconta che ad un certo punto Foodora ha iniziato una collaborazione con due aziende produttrici di birra e ha aggiunto ai proprio fattorini un’ulteriore mansione ovvero quella di andare in ufficio a ritirare le birre con cui omaggiare i clienti. Senza essere pagati per questo compito aggiuntivo. Non tutti i lavoratori svolgevano quest’attività per la quale non avevano nemmeno ricevuto una comunicazione ufficiale; il messaggio era passato dalla solita chat aziendale. Questo ha creato malumori tra la dirigenza e i lavoratori culminate nello sfogo di uno dei responsabili: «Ragazzi io più di così non so cosa fare, voi dovete farlo perché è un obbligo: voi non è che potete venire a prendere le birre, dovete. Ora mi sono incazzato, se devo fare lo stronzo lo faccio! Se voi non lo fate non prendetevi la briga di mettervi nei turni tanto non ve li diamo». A quel punto uno dei lavoratori ha scritto che per svolgere quell’ulteriore mansione avrebbero dovuto essere pagati e da quel momento è stato estromesso dalla chat e gli sono stati tolti tutti i turni per non essergli più assegnati. «Noi da subito lì abbiamo capito qual era il loro potere. Non licenziare e bloccarti il lavoro. Così te ne vai te. Cosa che è successa».
Di nuovo, in queste forme di lavoro nell’ambito dell’economy on-demand, della gig-economy o della sharing economy, non ci vediamo molto. Le modalità sembrano fin troppo conosciute e i costi vengono ancora sempre scaricati sui lavoratori e sulle lavoratrici in un modo ancora più sottile e pericoloso perché c’è tutto un lavoro di comunicazione volto a far credere che questi lavoratori non siano dipendenti dell’azienda ma…collaboratori autonomi (!) e che quel che si offre non è un vero e proprio impiego bensì un lavoretto; come se questo fosse automaticamente sinonimo di sottopagato e di assenza di garanzie. Le richieste da esaudire nell’immediato e in modo efficiente sono quelle del cliente, quelle dei dipendenti, come da testimonianze dirette, possono attendere mesi e non venire mai non solo esaudite ma neanche ascoltate.

Se il tuo tempo non ha alcun valore… Dal salario legato al tempo, al salario legato al risultato

«Lo dico a nome mio però credo sia un po’ comune a tutti… Quando uno dà la disponibilità, e in genere né da tante, non è che si prende altri impegni quindi diciamo che Foodora si piglia anche quel tempo in cui tu hai dato la disponibilità perché ovviamente non vai al cinema, non fai altri lavori. Magari se uno fa il traduttore o il correttore di bozze all’ultimo si mette al computer però tendenzialmente se uno dà la disponibilità poi appunto si tiene quel tempo libero».
L’azienda conferma i turni con 2 massimo 3 giorni di anticipo ai propri dipendenti che in questo modo non hanno possibilità di organizzarsi come meglio credono. Esiste l’opportunità di effettuare un cambio turno ma come racconta uno dei rider: «c’è stato tutto un periodo in cui loro pretendevano che noi ci trovassimo il sostituto. Ora questa cosa è scemata perché siamo davvero così tanti a voler lavorare che la gente si candida in automatico in blocco però in ogni caso sei vincolato al fatto che loro manualmente lo accettino. Finché non lo accettano tu resti in turno e se non ti presenti sei tu che non ti sei presentato al turno».
Il ricatto delle continue assunzioni è onnipresente in Foodora e la retorica è differente rispetto ad altre imprese più tradizionali che spingono i propri lavoratori ai sacrifici e alla continua disponibilità con l’alibi della crisi, della concorrenza in fatto di manodopera ecc ecc In Foodora, invece, i contratti peggiorativi sono stati imposti in una fase di crescita del fatturato e della popolarità dell’azienda. Il lavoratore deve essere sempre disponibile e dimostrare «attaccamento alla maglia» altrimenti c’è tutto un esercito di riserva che tanto non costa nulla assumere perché,  con un contratto a 0 ore, l’assunzione nei fatti non ha alcun valore.

Strumenti di comunicazione virtuale per un’organizzazione reale

I lavoratori e le lavoratrici però hanno alzato la testa e hanno iniziato una mobilitazione. Hanno saputo piegare rapidamente a loro favore alcuni elementi di novità rispetto ai luoghi di lavoro tradizionali. Bisogna anche sottolineare che, come emerge dalle interviste, molti di loro non hanno mai fatto alcuna esperienza di lavoro inquadrata in un senso che potremmo definire più tradizionale, mai avuto ferie pagate, malattia, straordinari, permessi, festivi retribuiti…
Inseriti direttamente in un mercato del lavoro senza alcuna tutela, sanno che devono diffidare dei responsabili e che, a differenza della forte retorica amicale di cui ci raccontano, c’è una forte asimmetria di potere. In mancanza di mezzi di comunicazioni ufficiali hanno rapidamente imparato a conservare gli screenshot delle conversazioni per tutelarsi come si evince da questo estratto: «Io ho fatto una bella raccolta di screen shot» e paragonano la chat ufficiale ad una sorta di piazza: «Quando c’era la chat ufficiale sono venute fuori delle dinamiche spiacevoli per cui visto che non c’era un’azienda fisica o dei momenti fisici dove potersi incontrare noi rider con i superiori, a un certo ha cominciato a diventare una sorta di piattaforma individuale, una piazza, dove poter esprimere i propri malcontenti o le proprie obiezioni su determinate scelte e determinate dinamiche […] Era l’unico momento in cui diciamo poterci parlare collettivamente e virtualmente. Lì potevi parlare con l’ultimo stronzo in ufficio fino al general manager di Foodora Italia, più tutti i dispatcher che erano a Milano».
Dopodiché hanno creato un loro gruppo Whatsapp per poter discutere senza presenza sgradite e per coordinarsi. L’esigenza è nata da una rivendicazione molto semplice: chiedere all’azienda di farsi carico delle manutenzioni delle biciclette. Da lì, ci raccontano, è iniziato tutto. Si sono incontrati, dopo essersi conosciuti prima virtualmente e, solo in un secondo tempo, di persona; altro elemento di rottura rispetto alla maggior parte dei luoghi di lavoro. Hanno rotto l’isolamento della propria condizione e hanno iniziato ad organizzare le prime assemblee, a rifiutare di parlare con i capi face to face e senza la presenza del sindacato. Sono andati a conoscere i loro colleghi di Milano per coordinarsi. Il resto è storia nota.
Ora la sfida è quella di riuscire ad allargare il fronte della mobilitazione – sia tra i nuovi rider di Foodora, sia ad altri lavoratori e lavoratrici che vivono quotidianamente sulla propria pelle condizioni di lavoro così svalutanti – e per noi militanti di saper guardare a questi soggetti con lenti adatte per riuscire a muoverci fianco a fianco nei modi più efficaci, e lottare insieme.

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