
Trump, o l’America in frantumi. Un voto contro la globalizzazione o contro il neoliberismo?
Provando ad abbozzare un rapidissimo scenario storico, ciò contro cui si batteva il movimento di Seattle era sostanzialmente l’assetto di potere consolidatosi dopo i cosiddetti “30 gloriosi”, ossia i decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale. La devastazione prodotta dal conflitto bellico aveva infatti consentito uno sviluppo senza precedenti grazie alla ricostruzione trainata da debito pubblico. A metà anni Settanta, esauritasi questa parentesi, l’intero assetto sistemico si è ridefinito, anche come risposta alle sempre più incalzanti istanze “dal basso” poste da operai, donne, neri, nuove composizioni giovanili e avvenuta decolonizzazione.
La nuova configurazione sistemica che ha costruito quella che chiamiamo globalizzazione è stata definita da una geografia di poteri che ha intrecciato: una ridefinizione degli Stati, guidati da esecutivi sempre più forti rispetto ai parlamenti e progressivamente denazionalizzati; banche centrali sempre più indipendenti e parzialmente coordinate dalla Banca Mondiale; una serie di istituti globali come l’IMF, il G7 e il più recente G20, l’OECD, le istituzioni UE e altri. A ciò ovviamente va aggiunto il crescente rilievo delle imprese multinazionali e del capitale finanziario nel dettare i programmi di sviluppo. Oggi il contesto è sostanzialmente immutato, con l’aggiunta del potere delle GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon), un approfondimento della conquista del potere statale da parte del capitale finanziario e una maggiore tensione geopolitica dovuta alla (inesorabile economicamente, a meno di nuove spinte imperialistiche – leggi guerre -) distribuzione della produzione su scala globale.
Ora, in che cosa il voto a Trump o la Brexit (o anche, volendo, il voto a Le Pen in Francia e simili) vanno contro questo impianto? Sono davvero “istanze di rottura”? Dovrebbe come minimo insospettire che la Brexit sia rimasta immediatamente senza rappresentanti politici diretti, così come la retorica anti-Wall Street di Trump che si risolvere nel mettere probabilmente alla guida del Tesoro uomini di Goldman Sachs o di JP Morgan. Il punto è che l’istanza di fondo di cui si fanno portatici queste opzioni politiche è quella di una “rinazionalizzazione” dello Stato. Anche “a sinistra” iniziano ad esservi svariati sostenitori di questa ipotesi.
Ma il nesso cruciale da indagare è il legame tra neoliberismo e globalizzazione, che ci accompagna dalla metà degli anni Settanta. Esso ha rappresentato una continua espansione delle frontiere del capitale su tutto il pianeta. Enormi masse di individui sono state forzosamente inglobate in un rapporto sociale di tipo capitalistico. Il retro-effetto è stato che nei paesi a più antico sviluppo capitalistico sono progressivamente aumentate le forme di impoverimento ed esclusione, come affermano ormai anche noti reazionari.
La cosiddetta “apertura dei mercati” ha da un lato parzialmente redistribuito su scala globale pezzi di produzione (e dunque di ricchezza), dall’altro ha prodotto un vortice di spossessamento e disorientamento che oggi si manifesta nelle migrazioni e nella proletarizzazione crescente nel cosiddetto Occidente.
Fatte queste considerazioni, la “risposta” che viene paventata dai fronti elettorali sopra menzionati è quella, come si diceva, di un “ritorno indietro”. Classica mossa del pensiero reazionario: tornare a un passato idealizzato di benessere, rispolverando la “purezza” di concetti come nazione e popolo. C’è dentro questo sommovimento che spira, spesso poco visibile, nelle nostre società, un potenziale di rottura e di inversione di tendenza? Indubbiamente sì. Ma l’approccio col quale guardiamo ad esso non è indifferente.
Una analisi non emozionale delle elezioni Usa può essere fatta non a partire da presunti blocchi omogenei che si starebbero scontrando in quel contesto. Esse ci parlano piuttosto di una proliferazione di linee di tensione e frattura che attraversa le classi sociali di quel subcontinente. Tra modelli di sviluppo più ancorati a una dimensione territoriale e altri più legati a una produzione mondiale, ad esempio. All’interno di questa dicotomia, a meno che non si vogliano sollevare dalla polvere le bandiere nazionali buttate nel fango tempo fa dalle borghesie, o non si voglia finire a fare i sostenitori delle élite finanziarie, c’è poco spazio per un pensiero antagonista. Questa dicotomia va dunque probabilmente spiazzata, aggredita da altri punti di ingresso. Forse, come si afferma qui, può avere senso cercare di analizzare la situazione per frammenti:
La gente vuole risposte. Sulle timeline dei social media, sui giornali e sui blog, nelle conversazioni in privato, tutti quelli che non riescono a capire come Donald Trump possa esser stato eletto Presidente degli Stati Uniti sono disperatamente alla ricerca di un senso per tutto ciò. Troppe persone stanno accettandolo facili risposte. E’ colpa del neoliberalismo. E’ stata la misoginia. E’ Colpa della supremazia bianca. E’ stata la paura. Oppure il tutto va attribuito a Hillary. O ancora: sono stati i media; è stata l’FBI; è colpa di Facebook.
In realtà, non è possibile ritenere “colpevole” una singola persona, un’ideologia, o un media. Ignorate le centinaia di opinionisti che ve lo raccontano. Nessuno ha “lasciato” che ciò avvenisse; né c’è una singola “causa”. Il desiderio di risposte chiare e dirette rivela semplicemente la profondità del rifiuto col quale ci rapportiamo agli Stati Uniti di oggi. Il dato è che la platea elettorale ha scelto così. Attraversando le linee di reddito, attraversando numerosi stati. Noi abbiamo scelto questo. E’ così che funziona la società democratica. Siamo tutti complici.
La gente si sta ponendo le domande sbagliate. “Com’è che Trump ha, seppur marginalmente, guadagnato più sostegno in quei tre specifici Stati?” “Perché i sondaggi erano sbagliati?” “I Democratici hanno scelto il candidato sbagliato?”. Ma la domanda che siamo tutti troppo impauriti dal farci è in realtà molto semplice: “Che tipo di società è quella nella quale viviamo, una dove Donald Trump può diventare Presidente?”: Ma è proprio questo il tema sul quale dobbiamo interrogarci, se intendiamo iniziare ad approntare una necessaria lotta e contrapposizione.
Le risposte, così come gli Stati Uniti d’America, possono essere comprese solo per frammenti.
I voti destabilizzanti di questa fase contengono una forte tensione contro il neoliberalismo e la sua economia politica, aprendo dunque una divaricazione del binomio globalizzazione-neoliberalismo. E questo è probabilmente l’aspetto su cui andrebbe indirizzato un lavoro politico. I movimenti più forti degli ultimi anni hanno infatti mostrato una decisa pulsione verso la riappropriazione del territorio, delle piazze, nonché dei nessi di un welfare in disfacimento. Ma questo non può essere considerato un discorso sul “locale”. Dalle lotte in Val di Susa alle Zad, dalle acampadas al Rojava, da piazza Tahrir alla Casbah di Tunisi, passando per Taksim, le piazze di Rio de Janeiro, il Bahrein e svariate esperienze in Asia, queste lotte hanno al loro interno un afflato anticapitalista che parla immediatamente di una dimensione globale. Locale e globale, nazionale, continentale. Tutte queste scale geografiche, oggi, non sono più simmetricamente e gerarchicamente allineate. E’ proprio sul loro attraversamento che bisogna puntare.
La globalizzazione non è infatti solo Wto e G8, multinazionali e finanza. E’ anche la sfera tecnologica che connette miliardi di persone, è anche circolazione globale sempre più veloce di immaginari, segni, modelli. E’ movimento continuo di persone e merci. E’ infrastruttura materiale e produttiva di un mondo in cui, come scrivevamo un anno fa, le metropoli del pianeta sono sempre più come i quartieri di un’unica città-mondo. Non si tratta qui né di rievocare il debole dibattito tra antiglobalismo e alterglobalismo, né di riprendere seccamente l’opposizione tra nazionalismo e internazionalismo di un secolo or sono. Urge piuttosto una pratica politica e un discorso che all’interno delle spinte contro il neoliberismo e contro la crisi come sistema di governo che il capitale usa per la sua sopravvivenza, possano articolare un progetto politico antagonista sul mondo globale.
Da questo punto di vista, per queste che sono solo prime bozze di riflessione, lo spazio politico del referendum italiano si dà come inedito campo di sperimentazione politica. Lungi dal parlare a una dimensione racchiusa nei confini nazionali, il Sì/No è immediatamente inserito nella catena di eventi elettorali che stanno caratterizzando questi mesi. Al contempo questo campo di possibilità si gioca come convergenza possibile e parzialmente in atto di diverse soggettività e lotte, esprime tentativi di un “populismo antagonista” immediatamente contrapposto però ai richiami nazionalisti di Salvini-Meloni.
Su tutto l’insieme costituito da questi temi abbiamo costruito come redazione di InfoAut uno speciale- da oggi in continuo aggiornamento – che prova ad indagare, procedendo appunto per frammenti di analisi, cause ed effetti, prospettive e retrovisioni esplose nell’evento-elezione di Trump. Interviste, traduzioni, approfondimenti e commenti che provano a delineare, nella loro complessità, quantomeno alcune linee di ragionamento politico con le quali approcciare il futuro prossimo, anche dal punto di vista dei movimenti. Buona lettura.
Analisi pre-voto:
USA2016, da Yes we can ad un doppio rifiuto: al voto un paese sempre più lacerato – Infoaut
Trump presidente? – editoriale Insurgent Notes
Analisi post-voto:
America Nazione – InfoAut
La vittoria di Trump parla di un ordine liberale che si sgretola – Jerome Roos per Roarmag
Interviste:
Negli USA di Trump: la paura, la rabbia e la lotta quotidiana. Intervista a Take Back the Bronx
Il rischio del “frontismo” e una svolta nella comunicazione politica – Intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
La necessità di un conflitto contro Trump e oltre Trump – Intervista a Felice Mometti sugli scenari post-voto USA
Verso una guerra civile a bassa intensità? Intervista a Loren Goldner – da Radio Blackout
Dal We can al We can’t. Intervista a Raffaele Sciortino – da Radio Blackout
Approfondimenti:
Kurdistan? La politica USA, Trump e i curdi – da ReteKurdistan
Scenari di movimento:
#DisruptJ20: Call to action! – appello per la contestazione dell’insediamento di Trump il prossimo 20 Gennaio
Traduzioni:
Donald Trump ha vinto con il risentimento dell’ Uomo Bianco, ma non confondete questo con la classe lavoratrice – traduzione Infoaut da TheNation
L’America Latina e il trionfo di Trump – di Raul Zibechi, traduzione del Comitato Carlos Fonseca
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