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Questa destra “di guerra”

Riprendiamo da Volere La Luna questo articolo di Marco Revelli, come sempre acuto nell’analisi della contemporaneità. Revelli si concentra su due nodi: l’inevitabile traiettoria di collisione tra democrazia (persino nella sua forma borghese) e neoliberismo e sulla, in parte conseguente, riemersione della guerra in Europa. Proprio questo nodo, della guerra, e dell’opposizione ad essa, ci pare inaggirabile, perchè questo conflitto sarà destinato a plasmare il futuro tanto nel macro quanto nella nostra quotidianità. E se la destra tutta, compresa quella liberal-democratica si trova a suo agio nell’idea di una guerra come “sola igiene del mondo” per il resto regna la confusione e la “timidezza”. Lo diciamo convintamente, di qua si passa, volenti o nolenti, e forse è, come ci pare suggerire Revelli, proprio l’opposizione alla guerra la fucina per trovare nuovi paradigmi politici all’altezza dei tempi. Buona lettura!

‘Tis the times’ plague, when madmen lead the blind – È la piaga dei tempi, quando i pazzi guidano i ciechi”. Lo fa dire Shakespeare al Conte di Gloucester nella prima Scena del IV atto del Re Lear. La frase mi è tornata in mente in questi giorni in cui tira un brutto vento, denso d’umori maligni. Un vento di destra da società malata. Non è vero che “l’onda nera si è fermata” come si era creduto e detto al primo turno delle amministrative. Ha continuato a tracimare, invadendo spazi, tirando fuori da sotto fango e liquami.

Il secondo turno delle amministrative ha inferto un doppio vulnus alla nostra democrazia. Da una parte, con una astensione al di sopra del 50%, mai così alta in forma diffusa, ha privato il termine del suo suffisso, “demo” – ovvero il popolo -: la nostra si è rivelata definitivamente una “democrazia senza popolo”. Con questi numeri, chiunque vinca non rappresenta che un quarto dell’elettorato o giù di lì. Dall’altra parte, premiando questa destra aggressiva a traino meloniano, ha offerto la palma del trionfo a una classe politica che porta nel proprio dna un’ostilità profonda, originaria direi, nei confronti del modello di democrazia inscritto nella nostra Costituzione. E che ogni giorno ne dà conferma nel fastidio ostentato per il pluralismo, la critica e il contraddittorio, nella volontà di occupazione dei centri di formazione dell’opinione pubblica con l’ esplicita intenzione di “non fare prigionieri”, nel programmatico intento di scardinare l’attuale ordinamento dei poteri dello Stato in senso presidenzialista.

Certo, se si scava dentro ai numeri con l’acribia dello scienziato politico, l’immagine univoca della Giorgia trionfante con i suoi fratelli (d’Italia) offerta dalle prime pagine dei giornali rivela in realtà un’infinità di fratture e veri e propri buchi. Il suo non è praticamente mai il primo partito, e in media dimezza i voti delle politiche: a Vicenza, dove perde, non va oltre il 10% (4.439 voti, alle politiche ne aveva presi 13.361 pari al 25%). Ad Ancona, dove vince, non arriva al 20% (18,6%, pari a 7.608 voti, alle politiche era al 25% con 11.619). A Massa, Pisa, Siena è regolarmente dietro al Pd (rispettivamente 11% a 16,5%, 17,4% a 23,5%, 15% a 20%). Questo vuol dire che l’”espugnazione” della Toscana da parte dei post-fascisti è un’illusione ottica? Certo che no, evidentemente qui il renzismo è passato come un rullo compressore sui territori, estirpando tutto quello che il Pci aveva radicato per decenni e restituendo la regione a un secolo fa, quando fu il terreno di coltura del fascismo agrario. Ma quello che emerge dai dati non è tanto il conquistato dominio di un partito sul modello novecentesco, quanto piuttosto un generale sfarinamento dei partiti, trasversalmente, e il diffondersi quasi senz’argini di un altrettanto informe, o deforme, degradato senso comune, intrinsecamente di destra.

In questo senso era stato esemplare il caso di Imperia dove al primo turno, questo è noto, aveva vinto a mani basse uno come l’ex ministro Scajola (quello dell’”a mia insaputa”, che non si sa bene se sia un essere umano o una barzelletta, scelto come proprio campione dal 63% dei sui concittadini), ma quello che forse non è stato considerato a sufficienza è che nessuna delle liste che lo appoggiavano era “di partito” (si chiamavano “Avanti con Scajola sindaco”, “Insieme con Scajola sindaco” e “Prima Imperia”). Discorso analogo si può fare per Terni dove al primo turno era arrivato in testa il candidato di FdI, Lega e FI con il 36% e secondo il “civico” Bandecchi con il 28% ma al secondo turno la partita si è rovesciata e il secondo è diventato primo staccando il candidato della destra “ufficiale” di quasi 10 punti (54,6% a 45,4%). Lì il partito della Meloni aveva preso al primo turco il 18% (FI il 4,5% e la Lega poco più del 3%) ma nulla hanno potuto contro l’anomalia selvaggia del Presidente della Ternana calcio (la cui lista personale portava i colori della “terza maglia” della squadra) e patron dell’Università telematica Niccolò Cusano (in merito alla quale risulta indagato per frode fiscale”), ex parà, “vulcanico” imprenditore (così è definito sulla stampa locale). Uno che di sé dice “Sono un uomo di centro, ma non sono un prete. Sono un templare. Ha presente? Sono monaci, ma hanno la spada”, e che ha promesso agli elettori “più sicurezza”, istruzione, e un piglio da combattente, evidentemente convincendoli. D’altra parte quasi ovunque le liste civiche hanno contato molto, facendo spesso la differenza a favore della destra, con la loro radicale personalizzazione del voto, la diffidenza per tutto quanto sa di “cultura politica”, il culto delle “piccole patrie” coniugato con una sorta di “familismo amorale”. Sono in fondo il sintomo della deriva assunta da quella tendenziale trasformazione del “popolare” in un habitus sostanzialmente reazionario in senso pre-politico, in buona misura prodromico alle peggiori regressioni fascistoidi, una roba da anni ’20 del Novecento, per intenderci, ovvero da morte dell’homo democraticus, per dirla con Hans Kelsen, e da rinascita dell’homo hierarchicus, quello del “me ne frego” e del “quando c’era Lui”…

Questo il quadro, desolante, emerso dalle urne. Ma sarebbe un grave errore fermarsi al solo contesto italiano, e alle solite chiacchiere sterili che se ne alimentano, irrimediabilmente ferme alle giaculatorie su quello che si sarebbe dovuto fare, quello che non si è saputo evitare, o sulle responsabilità di questo e di quella… Intendiamoci, ragioni a favore di critica e auto-critica ce ne sarebbero a iosa: se gli avversari della “peggior destra di sempre” non si fossero disuniti in forme così palesemente autodistruttive… Se nel corpo sformato del Pd non prevalesse il solito vizio di sparare sul proprio vicino, e la voglia idiota di rivincita su una Segretaria appena eletta… Se per una volta nella galassia delle infinite sinistre impotenti e loquaci che popolano i social si attenuassero le acide passioni tristi del risentimento e della critica corrosiva di tutte e di tutti tranne che dei nemici veri, che stanno al governo e occupano ogni giorno di più il potere… Se chi sta su rinsavisse e chi sta giù aprisse gli occhi…

Ma si tratta appunto di “se”… Ipotetiche dell’irrealtà, focalizzate su un “locale-nazionale” in buona misura irrilevante nel grande gioco del riallineamento dei poteri. Il dato che invece dovrebbe balzare agli occhi è che il “caso italiano” si inserisce in un quadro internazionale che ce ne riflette, come in un caleidoscopio, l’immagine d’insieme. La prevalenza delle destre nel nostro Paese sta dentro un contesto generale che presenta le stesse linee di tendenza e gli stessi punti di caduta a livello continentale europeo e, più ampiamente, in quello che chiamiamo Occidente. Nello stesso giorno, tutt’al più nella stessa settimana, abbiamo avuto l’uno-due di Grecia e Spagna dove le sconfitte delle diverse sinistre non possono trovare spiegazione negli stessi “errori” italiani. Sanchez col suo governo non può essere accusato di non aver fatto “la sinistra” allo stesso modo in cui si possono accusare i trascorsi governanti del Pd. Tzipras non può essere accusato di non saper fare l’opposizione alla cleptocrazia del suo paese e alla tecnocrazia europea. Ada Colau è stata la miglior sindaca di Barcellona che si potesse immaginare, eppure è stata travolta anche lei dall’onda anomala che spazza il continente. Processi analoghi hanno riguardato i Paesi del Nord Europa un tempo identificati con una social-democrazia stabilizzata e oggi mutati di segno e colore, per non parlare della Turchia di Erdogan, del gruppo di Visegrad, dell’Austria infelix… Cosa è successo? Cosa sta succedendo, a modificare il codice genetico di un’Europa che ci sta cambiando sotto i piedi a tappe forzate?

Mi limito a due spunti, per tentare di avviare una riflessione fuori dagli schemi. Giusto due accenni alla possibili radici dell’attuale male oscuro. La prima si chiama, mi rendo conto della banalizzazione, neo-liberismo. La torsione che l’unica ideologia sopravvissuta al passaggio di secolo sta subendo in senso regressivo e autoritario. Che il capitalismo stesse entrando in linea di collisione con la democrazia così come era emersa alla fine della Seconda guerra mondiale – o meglio, che il capitalismo avesse incominciato a considerare la sostanza del modello democratico potenzialmente incompatibile con le proprie “leggi ferree” – lo si era capito da un pezzo (per lo meno dagli anni Novanta). L’aveva sollevato, il tema inquietante, già Bobbio (che di democrazia se ne intendeva e, non essendo economista, non considerava il capitalismo come un totem sacro). L’aveva confermato, col rigore assoluto del sociologo di vaglia, Luciano Gallino con la sua riflessione sul Finanz-capitalismo come forma parossistica di depredazione globale e sul neo-liberismo come “ideologia totalitaria”. Come ci ricorda oggi in un bel libro dedicato alla Salus Mundi Michelangelo Bovero, quando scrive che “l’ideologia neoliberale ha posto l’obiettivo strategico di abolire limiti e vincoli all’agire economico capitalistico, e in Europa di espungere la garanzia dei diritti sociali dall’agenda politica”, per il semplice fatto che “la mercatocrazia totalitaria non può evidentemente tollerare diritti sottratti al mercato”. Il riferimento è, naturalmente, a un documento considerabile ormai “antico”, quel Rapporto alla commissione trilaterale addirittura del ’77 in cui si consigliava, senza pudore, sicuri di parlare tra amici, “di snaturare la democrazia, togliendo potere agli organi rappresentativi – i parlamenti – per impedire che rispondano alle richieste dei cittadini con promesse di spesa, e per questo imponendo agli Stati il vincolo dell’equilibrio di bilancio, e rafforzando invece i poteri di vertice – gli esecutivi –, da affidare in sapienti mani tecnocratiche, rigorose nell’obbedire agli imperativi del capitalismo globale” (cito ancora da Bovero). Concetti ribaditi da un’altra autorità globale come J.P.Morgan che, questa volta nel 2013, nel celebre Rapporto sulla crisi dell’Euro del 28 maggio lamentava il permanere nel Sud Europa delle Costituzioni emerse dalla guerra antifascista per caldeggiarne il superamento.

Oggi, quel ciclo antidemocratico del neo-liberismo è giunto al dunque e l’avvento di classi dirigenti illiberali e autoritarie, di tradizione post-fascista, ne sembra il naturale approdo, esattamente come fu, un secolo fa, col passaggio di testimone dall’esausta classe politica liberale al rampante mussolinismo, secondo l’idea (sciagurata) che la vitalistica forza fascista avrebbe restituito energia all’esangue corpo dello Stato liberale. Chi abbia ancora dei dubbi su questo passaggio ereditario tra ceti politici diversi nello stile ma affini negli interessi di riferimento, si vada a risentire le mielate parole di apprezzamento del campione di liberismo Mario Monti a favore del Governo di Giorgia Meloni. O si riveda il sorrisetto compiaciuto con cui a Palazzo Chigi l’uscente inquilino Mario Draghi ha ceduto il campanello all’entrante Meloni, come farebbe un bravo padre con la figlioletta prediletta. Ecco, nella convergenza dei due Mario è possibile leggere, con la chiarezza delle icone, la traiettoria in fondo naturale dell’ideologia neoliberale in nome di quella libertà dei forti a danno dei deboli che anima la sua concezione di fondo.

Il secondo elemento che suggerisco per spiegare questa tendenza sistemica dell’Europa e dell’Occidente stesso verso il dominio delle destre (delle peggiori tra le destre), è la Guerra. La guerra che è entrata di prepotenza nel nostro orizzonte mentale e l’ha in buona parte, con poche, virtuose eccezioni, occupato o sur-determinato. La guerra come prassi quotidiana, non (ancora) sofferta dai corpi di chi sta qua, lontano dal campo di battaglia, ma vissuta mentalmente attraverso la saturazione della comunicazione e la cannibalizzazione dell’immaginario. La Guerra è per sua natura connaturata con un’identità politica di destra, e per questo destinata a trainare, quando si pone da padrona al centro dell’universo politico e sociale, soluzioni autoritarie, culture prevaricanti, derive comportamentali inumane. In quanto rottura ufficiale del tabù del “non uccidere”, anzi contesto in cui questo divieto diventa al contrario dovere, segna il passaggio dalla civiltà alla barbarie, con quanto ne consegue in termini di rovesciamento di valori e di rapporto tra vita e morte, giusto e ingiusto, lecito e illecito, buono e cattivo. Non può, per questo, non incidere sugli orientamenti politici delle masse e delle élites. Così è stato per la lunga “guerra civile europea” – quel continuum che si è aperto nel 1914 e si è chiuso nel ’45, con un intervallo nel mezzo in cui tutti i peggiori fantasmi dell’umanità si sono materializzati e il male assoluto ha lasciato il proprio segno. Così è stato per le guerre balcaniche degli anni ’90 e oltre. Così è per questa orrenda guerra in Ucraina, solo formalmente iniziata con l’invasione del 24 febbraio dello scorso anno, in realtà lunga già almeno un decennio. Tutte hanno generato politicamente mostri, nella forma velenosa dei nazionalismi: la forma per eccellenza dell’umana follia nella separazione del proprio gruppo etnico dal resto dell’umanità, e materia prima di cui sono fabbricati i variegati fascismi di ogni tempo e luogo. Tutte hanno plasmato il linguaggio, trasformandolo da forma del comunicare cooperante in strumento di offesa e degradazione dell’altro. Tutte generano paure diffuse che, senza il contrappeso di solide culture cooperative, spingono i popoli alla ricerca della protezione muscolare di un Capo e a obblighi di disciplina che cancellano le tracce stesse degli antichi diritti in nome di un primum vivere trasformato nel feroce mors tua vita mea. Sono questi, appunto, gli ingredienti primari di ogni identità di destra estrema, quale quella che bussa oggi alla porta di un Occidente inconsapevole del proprio giocare col fuoco.

Lo scrivo perché, in tutto questo parlare a vuoto su quanto “la sinistra” dovrebbe fare per tentare di tornare in campo, forse un tema, uno solo, potrebbe essere riscoperto, e cioè quello della Pace. Non so se rimedierebbe alla debolezza accumulata, non dico se permetterebbe di tornare a vincere ma quantomeno di tornare a competere. Ma almeno permetterebbe di introdurre nel vuoto di proposta e di protesta di questi tempi un tema nobile. Universale. Umano (nel senso della cura degli uomini e della loro vita). Mi rendo perfettamente conto che oggi toccare il tema della guerra e della sua necessaria fine è pericoloso. Come toccare i fili dell’alta tensione: si muore. Credo che Elly Schlein lo sappia e per questo se ne astenga. Ma non è fuggendo che si accumula forza, la si disperde. E oggi contrapporre alla plague da madman della guerra un atteggiamento ribelle e opposto aiuterebbe almeno a uscire dalla cecità che ci cancella.

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