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Passa la manovra di Tremonti e Napolitano


Il governo riesce nell’arduo lavoro di far approvare una manovra finanziaria più volte rivista e modificata per accontentare gli equilibri interni all’esecutivo e metterne d’accordo le varie componenti, obbligate a concedere qualcosa al proprio elettrorato di riferimento. Così Bossi “difende” le pensioni mentre Tremonti cerca di vendere i titoli di stato ai cinesi (i cattivi contro i quali ieri bisognava erigere dazi) e LaRussa fa la parte che gli compete di Colonnello del governo.
Intanto Berlusconi incontra Napolitano – vero benedicente della manovra-macelleria – e rientra verso la fine delle dichiarazioni di voto, giusto in tempo per le votazioni finali. Chi stupisce di più e però sempre il Partito Democratico, che gioca un’opposizione di forma dopo aver vantato responsabilità nella prima versione della manovra. Par quasi difficile dar torto al rappresentante del Pdl quando in aula ricorda ai Democratici le dichiarazioni d’intenti di poco più di due mesi fa. Un Pd  più lealista del re che sembra far da megafono alle insoddisfazioni sbraitate da Confindustria che demolisce – da destra – una manovra ritenuta troppo tassante e mancante di profondità strutturali di riforma (ovvero, un’ancora maggiore deregolamentazione del mercato del lavoro).

Alla confusione del Pd  fanno eco le posizioni della Cgil che critica la manovra  impopolare, salvo poi precisare che non commetterà mai il ‘peccato mortale’ di criticare sua santità il Presidente della Repubblica, impegnato in una quotidiana dichiarazione d’amore per l’Euro. In ottemperanza al proprio nume tutelare – e tanto per far capire tutta la distanza da quanto inizia a farsi senso comune in seno al popolo (ben oltre le strette cerchie militanti) – il sindacato di corso Italia precisa che il “Diritto al default” e il rifiuto di pagare il debito mai e poi mai potranno diventare parole d’ordine per una campagna d’autunno. La ricetta della Camusso sembrano essere quegli euro-bond che Trichet e Bce hanno già bocciato nel pomeriggio.

A fine dell’iter parlamentare, ci troviamo di fronte una manovra nella sostanza identica alla precedente, smussata in alcune suoi aspetti per accontentare la Lega. Anche a rischio di spiacere a Confindustria (ma la voce grossa di Marcegaglia è in realtà un gioco delle parti di chi già si appresta ad appoggiare un futuro governo d’austerità nazionale a firma Draghi-Napolitano) si conferma l’alleanza di fondo tra Berlusconi e Bossi.

Tra le principali misure del provvedimento, un nuovo giro di vite sulle spese dei ministeri e degli enti locali, l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, l’aumento dal 20% al 21% dell’Iva, il taglio delle agevolazioni fiscali, l’inasprimento della lotta all’evasione fiscale compreso il carcere per i grandi evasori, il contributo di solidarietà del 3% per i super ricchi e licenziamenti più facili.

Fuori dall’aula la protesta dei sindacati di base viene dispersa con cariche di alleggerimento. Ma quel che restituisce meglio l’immagine della discrasia tra casta politica e resto del paese e lo spettro, più volte evocato nelle dichiarazioni di voto di tutti gli schieramenti, di un finale in stile Grecia e del rischio di nuove insurrezioni popolari, con la relativa rabbia che potrebbe accompagnarle. Seppur ancora di là da venire, i nostri politici sembrano già sentirne i primi vagiti…

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