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L’emergenza come norma. Intervista a Silvia Pitzalis sulle politiche di gestione post-sisma (parte 1)

Superato lo shock dovuto all’emergenza, inizia il vero ambito della ricostruzione e quindi delle politiche statali imposte alla popolazione terremotata. Si afferma nei fatti uno stato di eccezionalità che tende ad un affermarsi permanente, costruendo soggettività sulla popolazione terremotata che è finalizzata all’ottenimento di risultati specifici di disciplinamento e profitto. Di contro, all’emergere di comportamenti di rifiuto delle popolazioni alle politiche emergenziali si affianca la crescita di solidarietà e assistenza dal basso, come stiamo vedendo in questi giorni rispetto a quanto avviene tra Amatrice,Accumuli e Arquata.

Pubblichiamo qui la prima parte dell’intervista, nei prossimi giorni faremo seguire le altre. Buona lettura

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INFOAUT: E’ stato nominato Vasco Errani come commissario governativo per la ricostruzione del terremoto in Centro Italia; secondo Renzi ciò è avvenuto sulla base dei risultati ottenuti nell’ambito della ricostruzione in Emilia. In che cosa è consistito, a grandi linee, il modello Errani applicato a quegli avvenimenti? Quali punti critici necessitano di essere sottolineati?

 

Bisogna distinguere 3 fasi durante le quali le diverse forze politiche in gioco hanno interagito nel post-sisma: emergenza, rilocazione e ricostruzione.

Nella fase dell’emergenza la gestione istituzionale del post-sisma ha seguito la procedura standard: dichiarare lo stato di emergenza, sospendere la norma vigente in nome della sicurezza e riversare tutto il potere decisionale sulla mani della Protezione civile. Dal gruppo che compone questo apparato, tanto a livello di protocollo quanto di pratiche e procedure discorsive, è stata messa in atto una progressiva standardizzazione, imposta alla popolazione sulla base dei principi dell’urgenza e della sicurezza. L’intervento è stato il motore del paradigma emergenziale, composto da una rete procedurale di azioni e discorsi che rientrano nelle logiche istituzionalizzanti della “cultura dell’emergenza” (Pandolfi 2005; Ciccozzi 2013): un dispositivo di modelli rappresentazionali del disastro di tipo tecno-centrico e ingegneristico, che comprendono l’evento unicamente nei suoi effetti fisici e immediati.

Istituito da subito il controllo della Di.Coma.C., il 2 agosto 2012 – con ordinanza n. 15 del 1 agosto 2012 del capo della P.C. – le funzioni e le attività di questo organo decadono, attuando così il passaggio di consegne nella gestione dell’emergenza ai Presidenti delle regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, nominati “Commissari delegati”. Il Presidente dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, viene nominato dal Consiglio dei Ministri “Commissario straordinario”, con responsabilità del controllo sociale e politico nel post-disastro.

Conclusasi la fase della “campizzazione” a fine ottobre 2012, è seguita quella della rilocazione con l’attivazione di procedure improntate a disporre per i terremotati possibilità di temporanea sistemazione: il “programma Casa”, redatto dal Commissario straordinario Vasco Errani e la sua Giunta, viene presentato per la prima volta con l’ordinanza n. 23 del 14 agosto 2012 ed è rivolto ai terremotati residenti o domiciliati prima del sisma nella zona del cratere, privi di una sistemazione abitativa agibile.
Le soluzioni residenziali temporanee offerte dall’apparato istituzionale sono state di tre tipologie. La prima prevedeva la richiesta del Cas il “Contributo per l’autonoma sistemazione” rilasciato dai Comuni e normato da una sequela di ordinanze che ha reso sempre più incerta la quotidianità delle persone, disorientate dai numerosi e confusionari cambiamenti in itinere. 

 

Una seconda opzione circa la sistemazione temporanea prevedeva soluzioni abitative provvisorie composte da moduli prefabbricati divisi in due tipologie: la prima prevedeva i PMRR (prefabbricati modulari rurali rimovibili), messi a disposizione di agricoltori e allevatori, installati nei pressi delle aziende rurali in modo da assicurare la continuità residenziale vicino alla ditta (scelta dal quattro per cento della popolazione); la seconda offriva la possibilità di alloggiare nei PMAR (prefabbricati modulari abitativi rimovibili), comunemente chiamati Map: una soluzione abitativa in territorio urbano, pensata per le persone che volessero rimanere all’interno del territorio comunale in mancanza di alternative abitative. Una terza soluzione è stata quella di alloggiare intere famiglie in alberghi lontano dal luogo di residenza. Questa soluzione è stata scelta da un bassissimo numero di terremotati in quanto la maggioranza era decisa a rimanere nel luogo del disastro.

Condizione indispensabile per poter usufruire delle agevolazioni del “programma Casa” era la rilevazione dell’inagibilità delle abitazioni, operata e certificata da parte di tecnici ed esperti incaricati dalle istituzioni dei sopralluoghi e della compilazione delle schede AeDeS atte alla classificazione di “Agibilità e Danno nell’emergenza Sismica”, finalizzate alla classificazione dei danni subiti dalle abitazioni in base alla scala A/F, che seguiva una graduazione dei danni da lievi a gravi.
Le richieste di finanziamento per la ricostruzione delle abitazioni danneggiate dal sisma sono state rese possibili tramite l’uso di due strumenti. Il primo è il sistema Mude (Modello unico digitale per l’edilizia), atto alla ricomposizione dei processi edilizi (in capo al Comune) e catastale (in capo all’Agenzia del territorio), istituito con la legge 80/2006. Vi è poi il sistema “Sfinge”, attivato per raccogliere le richieste di contributo da parte delle imprese danneggiate dal sisma per danni a immobili, beni strumentali, scorte, e per la delocalizzazione.

A livello operativo il post-sisma ha imposto una tempistica ben precisa con l’obiettivo di risolvere in tempi relativamente brevi e con mezzi tecnologici ritenuti all’avanguardia i problemi riguardanti l’alloggio (per i residenti), l’occupazione lavorativa e il diritto allo studio. Malgrado questi intenti, i programmi di ricostruzione avviati dalle istituzioni non solo sono stati governati da tempistiche dilatate, ma, soprattutto, sono state inficiate da una pesante macchina burocratica dai tratti impersonali che si è frapposta tra i cittadini e chi li amministra mediandone il rapporto.

In assenza (a tutt’oggi) di una legge quadro nazionale che regolamenti le modalità di azione e di intervento in occasione di calamità naturali, le norme sulla ricostruzione delle zone terremotate sono state promulgate da Governo, parlamento e Assemblea regionale. Da giugno 2012 a dicembre 2015 sono state emanate 405 ordinanze (l’ultima è quella dell’attuale presidente della regione Bonaccini del 30 dicembre 2015), raggruppabili in diverse aree di azione: assistenza alla popolazione, opere di pronto intervento provvisionali e urgenti, ricostruzione degli edifici residenziali e delle attività produttive, ambiente (smaltimento macerie, messa in sicurezza del territorio).

Parafrasando Foucault, le tecniche di governo emerse nel post-sisma emiliano, finalizzate alla conduzione e alla direzione della fase della ricostruzione, presentano dunque tre caratteristiche principali: la derogabilità delle leggi, che ha congelato la normativa vigente per imporne di nuove; la continua e mutevole sequela di ordinanze emesse, che ha indotto nei terremotati uno stato di assillo, confusione, incertezza e paura di non rientrare nella normativa; il rischio di infiltrazioni mafiose e di interessi privati che hanno inficiano, tardato, e influenzato le misure interventiste nel post-disastro. Al di là del giudizio sulle intenzioni e la legittimità di queste norme, il dato che mi pare rilevante è che la gestione del post-sisma emiliano è stata caratterizzata durante questi quattro anni (2012-2016) dal susseguirsi di ordinanze, le quali rettificano, modificano, integrano, cancellano decisioni precedenti, contraddicendosi le une con le altre. Questa elaborazione esasperata e continua di norme particolari, che costruiscono i limiti del diritto di poter ricostruire, ha due ripercussioni sulla scena sociale: da un lato sclerotizza il sistema con un apparato burocratico che ostacola il processo di ricostruzione; dall’altro sospinge i terremotati in uno stato di precarietà, ossessione, paura di non rientrare nella norma, ma anche di dipendenza da esse.

Questa modalità di gestione del terremoto ha prodotto un effetto di continuità dello stato di emergenza – promulgato nelle zone terremotate fino a dicembre 2015 – il quale, assumendo caratteristiche di normalità, si è insinuato e sedimentato nel vivere quotidiano dei terremotati. L’intensificazione spaziale e temporale della mutevolezza della norma ha così creato uno stato di “definitiva temporalità” (Agamben 2003; Rahola 2003), che ha alimentato i sentimenti di precarietà e incertezza della popolazione colpita. Il governo di emergenza così costruito si è perpetrato grazie a un lungo processo di commissariamento del territorio colpito, che ha estromesso i terremotati dai percorsi decisionali concernenti la tempistica e le modalità della ricostruzione.

 

INFOAUT: In cosa si è distinto e in cosa può essere accomunato il suo operato rispetto a quello tenuto da Bertolaso all’Aquila? C’è stata grossa differenza o si può dire che esistano in generale una serie di procedure che delineano nel corso degli anni un modello istituzionale condiviso di gestione di questo tipo di emergenze, ad esempio su aspetti come la relazione tra istituzioni e cittadini, sull’assoluto potere di controllo della protezione civile etc?

 

Fin dalle prime dichiarazioni le istituzioni emiliane hanno espresso la loro volontà di rifiutare il paradigma utilizzato dalla P.C. gestita da Guido Bertolaso durante l’emergenza aquilana. Considerato fallimentare e in alcuni casi ancor più invalidante, con una forte militarizzazione umana e del territorio e un estremo controllo coercitivo dei singoli dentro e fuori i campi, il caso aquilano è stato spesso utilizzato dalle autorità emiliane come esempio negativo della gestione dell’emergenza del post-terremoto dal quale distanziarsi in termini migliorativi. Questa differenza con l’Aquila nelle procedure emergenziali può essere interpretata come una strategia politica da parte delle istituzioni locali, afferenti al Partico Democratico: distanziandosi da un modello emergenziale palesatosi fallimentare e inefficace, gestito sotto il governo di centro-destra di Berlusconi, si evince la volontà di (ri) costruire localmente la propria identità politica e la propria legittimità elettorale. Proprio per via dei trascorsi aquilani il passaggio di consegna della gestione post-sisma sarebbe scaturito da uno scontro tra il Partito democratico, rappresentato nella regione Emilia-Romagna da Errani, e la Protezione civile. L’ex Commissario sarebbe riuscito a negoziare la gestione non solo della restante fase dell’emergenza, ma del complessivo ordine sociale e politico nella successiva fase della ricostruzione.

Dalle testimonianze raccolte la gestione dell’emergenza in Emilia è parsa, comunque, meno militarizzata e centralizzata rispetto a quella dell’Aquila o meglio secondo alcuni interlocutori in Emilia vi sono state modalità finalizzate al controllo sociale del territorio diverse da quelle applicate al caso aquilano.

Dalle testimonianze emerge un altro dato interessante: le critiche elaborate dai terremotati intervistati alle procedure messe in atto dalla P.C. non si pongono solo in termini di imposizione e controllo, ma si estrinsecano anche secondo il rifiuto dell’accudimento e della protezione. Emergono così forme di minimizzazione e paternalismo emergenziale, le quali costringono i terremotati ad adeguarsi a quanto viene imposto in deroga alle libertà individuali e ai diritti civili. Si assiste alla messa in atto di una complessa azione assistenziale gestita solo da esterni, escludente qualsiasi iniziativa di collaborazione o autogestione proveniente dalla popolazione. Tramite l’assistenzialismo emergenziale e la pratica di un paternalismo inferiorizzante i soggetti vengono trasformati in corpi passivi da salvare, inibendo così il loro pensiero critico e la capacità di auto-determinarsi.

Se è ero che il campo politico contemporaneo risulta sempre più sovrastato dall’incertezza, dai dubbi sul futuro, dalla preoccupazione per la sopravvivenza (Abélès 2005), esacerbando l’assillo riguardo alla sicurezza e vero anche che quest’ultima è diventata oggi parola chiave della “politica del fare”, interessata al soddisfacimento dei bisogni immediati in merito alla protezione dei soggetti e che attiva in essi, con discorsi politici e mediatici, un forte e opprimente senso di vulnerabilità. All’interno di questo contesto le azioni dei governi devono necessariamente rispondere a presupposti di tempestività ed efficienza, perché con esse dimostrano la loro presenza e la padronanza di capacità risolutive adeguate.

Si preferisce, allora, una presunta efficienza al raggiungimento di una sentita efficacia (Clemente 2013); si impongono cioè pratiche e strategie atte alla colonizzazione culturale dei soggetti in nome della sicurezza, supportate da paura e incertezza; le quali spesso, grazie alla complicità del sistema dell’assistenzialismo, producono una diffusa narcolessia sociale. Inoltre, citando Calhoun (2010), l’intervento umanitario in contesti di crisi viene attuato tramite la costruzione dell’emergenza, prima di tutto definendo quest’ultima come causata da un evento improvviso e imprevedibile; in secondo luogo si legittima l’urgenza dell’intervento stesso sulla base della necessità di una risposta elaborata secondo un senso comune di umanità. Grazie al principio di ingerenza, le azioni emergenziali superano le basi del diritto, realizzando una forma di sovranità arbitraria, senza alcuna mediazione, fondata sul potere di sospendere la validità della legge avvalendosi del principio secondo cui necessitas legem non habet (Agamben 2003).

Se dessimo per assodato che lo Stato riconosce pieni diritti ai suoi cittadini, quando questa categoria viene meno si crea uno “stato di eccezione”, in nome del quale si disapplica la normativa vigente con il riconoscimento dei diritti alla vita umana intesa come “nuda vita” (Agamben 2005). Essa diventa un “nuovo feticcio” e la sua esistenza è ridotta alla sua espressione fisica, riconoscendo l’essere umano come mero organismo biologico. Questo meccanismo trasforma i cittadini in “corpi da salvare” (Fassin 2004), la cui azione viene giudicata dalle autorità come guidata da stati di paura, smarrimento e impotenza, favorendo una bio-cittadinanza i cui diritti sono riferibili all’azione umanitaria. È proprio questa considerazione dell’umano che legittima l’esecuzione del potere tramite l’imposizione. Così, per poter usufruire di quanto la macchina securitaria ha da offrire, il terremotato deve rinunciare ad alcuni diritti riguardanti la sua libertà di azione.

Dunque, è attraverso il concetto di “nuda vita” (Agamben 2005) che si materializzano nuove forme di sovranità, che determinano però un appiattimento del senso alto dell’essere umano (Fassin 2000; 2004). Avviando una standardizzazione delle procedure messe in atto, dei protocolli da seguire, della tecnologia di pratiche, approvate da esperti qualificati e supportanti l’ideologia di un agire necessario e salvifico, non si tengono in considerazione le esigenze particolari dei singoli (Clemente 2013). Se il cittadino non rispetta la procedura e non addomestica la sua condotta ai parametri della regola non può pretendere di rientrare nel diritto di assistenza imposto dall’inclusione emergenziale.

Queste strategie di azione istituzionale sembrano tese alla creazione di una categoria dell’emergenza intesa come una procedura che da un lato “sottrae immediatamente i programmi di cambiamento pianificato alla sostenibilità e alla partecipazione così come al confronto con i risultati” (Malighetti 2011, 42); dall’altro configura la propria azione, utilizzando procedure standardizzate, prontamente trasferibili da un luogo critico all’altro qualora le strategie politiche lo richiedano. Infine, essa si basa sulla congiunzione fra “l’approccio verticistico they-have-the-problem-we-have-the-solution-approach (Arnfred 1998, 77) con modelli organizzativi basati sulla performatività e sull’efficacia in maniera totalizzante” (Ibidem). 

Queste procedure e strategie politiche, che ho inteso come esempi di “tecniche di governo” (Foucault 2005), hanno l’obiettivo di consolidare e rinnovare la sovranità del potere dominate tramite l’utilizzo del dispositivo emergenziale.

La sovranità ha così la possibilità di rinascere con una nuova legittimità, rinforzata dall’urgenza, che emerge come un nuovo “stato di eccezione” (Agamben 2003). In nome della sicurezza, viene legittimato un controllo esente da leggi che crea un concentrato di potere assoluto, sciolto da ogni vincolo democratico. Entro questo paradigma di prassi politica sembrerebbero convergere strategie politico-economiche miranti all’eliminazione di tutti gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del programma neoliberista (Malighetti 2011). Intendo neoliberalismo non unicamente come ideologia o politica economica, ma come una forma specifica di governamentalità (Foucault 2005): una tecnica di governo delle condotte, sospinto dalla norma imposta. In questo modo esso supporta la produzione di dispositivi di governo (ibidem), di specifiche forme di vita, di soggettività che a loro volta promuovono forme di dominazione atta a sostenere il potere dei mercati, definendo in questo modo un nuovo umanesimo in cui, al centro, non vi è più il cittadino, ma la norma.

Questo complesso fenomeno a mio avviso si è presentato all’Aquila, in Emilia e si sta presentando nell’ultimo post-terremoto.

 

(continua…)

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