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Landini tra i taxisti, Monti in fonderia

È bene non sottovalutare la “fase due” del governo dei banchieri, e del presidente, già battezzata Crescitalia. Siamo di fronte a un tentativo dagli esiti incerti, visto il precipitare della crisi globale che l’avvertimento via downgrading di Wall Street a Berlino sembra annunciare.1 Nondimeno esso indica un percorso che ha dietro di sé una logica ferrea.

Se la riduzione del debito pubblico scaricata sui soliti noti resta conditio sine qua non di ogni possibile exit strategy dalla crisi o anche solo di un suo tamponamento – per il rilancio del sistema è necessario reinvestire sul lavoro. Un peculiare reinvestimento che nel cuore dei “paesi avanzati” ripropone modalità dirette di espropriazione e proletarizzazione, una sorta di “accumulazione originaria” rinnovata da spalmare su uno spettro il più ampio possibile di attività umane già inserite nel circuito della merce ma non ancora del tutto o direttamente sussunte dal capitale finanziario. La finanza è economia “reale”, appunto.

La liberalizzazione della licenza dei taxisti – ma più in generale le misure contro edicolanti, benzinai, piccoli esercenti, ambulanti, le stesse “libere professioni” ecc. – cosa deve produrre infatti nelle intenzioni del governo? Due cose. Primo, un’espropriazione secca di reddito da liberare verso grande distribuzione, grandi studi professionali e finanziarie. Parte del salario “autoprodotto” dai padroncini che diventa profitto per nuove e vecchie corporations che possiedono il capitale utile a rastrellare licenze, concessioni e quant’altro. Secondo, deve produrre manodopera a costi nettamente inferiori di oggi eliminando garanzie e diritti anche ad ampie fasce di lavoro autonomo, conservandone magari l’”indipendenza” ma solo come paravento per lo scarico dei rischi sugli individui.

Costringere il 99% a vendersi a meno, a vendersi tutto: l’1% non conosce altro modo per rendere di nuovo interessante l’investimento produttivo ovvero la “crescita”. È un caso che tra le misure del governo ci sia di nuovo uno strisciante attacco all’articolo 18 della “casta” degli operai? Dopo pensionati e fruitori di prime case, le attenzioni sono davvero per tutti in attesa che si escogiti il modo di attingere direttamente ai risparmi da sacrificare sull’altare dello spread… E non è finita, il cuore del governo batte anche e soprattutto per il pacchetto di privatizzazioni dei servizi pubblici locali da trasformare in terreni di caccia per il profitto. Santa finanza!

Il brutto è che il governo lavorando su un terreno già ampiamente dissodato dal Berluska (vedi la campagna sui “fannulloni” del pubblico impiego) può ora raccogliere rivolgendo sobriamente l’indice contro i nuovi “privilegiati” tirandosi dietro, era scontato, non solo il centro-sinistra dell’integerrimo lider maximo Scalfari ma purtroppo anche parte del sentire comune del lavoro dipendente ridotto nelle vesti del “cliente” (ma se si spera in un calo di prezzi e tariffe dei servizi basta guardare a quanto di analogo già avvenuto all’estero) e comprensibilmente acido sul punto evasione fiscale. Le differenze tra settori e condizioni sono reali, corporativismi e professionalismi non scompaiono certo di colpo, ma il risultato è la classica guerra tra poveri resa ancor più aspra dalla percezione che siamo in caduta libera. Del resto, non insospettisce che alla campagna anti-evasione si siano convertiti in un battibaleno la Confindustria dalle mille elusioni, le banche delle grandi evasioni, il centro cattolico dei palazzinari, le facce da culo berlusconiane ecc. ecc.?! A pensar male…

La “lotta anti-evasione” di questo governo è per un verso uno specchietto per le allodole che punta a minare alla radice la possibilità di ogni politica di “alleanze” tra lavoro dipendente, precari e la massa crescente di lavoro autonomo di prima e di seconda generazione (ovviamente non si sta parlando di professionisti ricchi, faccendieri, consulenti ammanicati con la politica, palazzinari ecc.) che si muove spesso al limite della sopravvivenza, tra fidi bancari e assenza di ammortizzatori sociali, tra rancore individuale e però anche qualche segnale di disillusione verso il berlusconismo (sul leghismo il discorso è più complesso). Per altro verso, è nelle attuali disperate condizioni del capitalismo italico reale l’esigenza di tagliare un po’ le unghie ad una lumpenborghesia che per i poteri forti nazionali e internazionali è oramai una pesantissima palla al piede.

Ma il punto è che in ogni caso continuerà a pagare, e sempre più salato, chi sta in basso mentre qualunque recupero dovesse esserci andrà esclusivamente a salvare banche e grandi imprese. E allora se invece di cascare nella trappola iniziassimo finalmente una discussione seria e comune su welfare e beni comuni sottratti effettivamente al mercato e su come non pagare il conto alla finanza? Se invece di fissarci sulle differenze -minime oggi alla scala della finanza globale e soprattutto della messa a rischio del futuro per la stragrande maggioranza- cercassimo di creare ponti tra lavoratori tutti in un modo o nell’altro precarizzati?

All’immediato può sembrare ed è probabilmente irrealistico vedere… i comitati dell’acqua tra i lavoratori licenziati dei vagoni letto o Landini tra i taxisti e i precari a fare “tesseramento sociale” per la Fiom. Ma fino a qualche mese fa nessuno si aspettava che i Notav si occupassero di debito. Il governo a tutt’oggi ha consenso, inutile negarlo, ma un consenso basato sulla paura che paralizza, la paura della bancarotta, trasversale a tutti i ceti. Un consenso passivo, che oggi pare quasi obbligato, ma in una situazione che corre sul filo del rasoio e riserverà molte sorprese…

 

Ascolta l’intervista con Nicola Casale:

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