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La razza al lavoro, gratuito

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La notizia recente degli “Ecomori” in Vanchiglia ha fatto parlare di sé, per lo meno a Torino. Un gruppo di richiedenti asilo, con tanto di pettorine gialle di riconoscimento, “recuperano frutta e verdura a Porta Palazzo per offrirla a chi ha bisogno, il sabato raccolgono i libri a terra a Canale Molassi, la domenica smistano gli abiti per Humana al Barattolo e controllano la piscina Colletta dopo le devastazioni dei vandali. E ora rendono sicura la strada su cui escono i bambini della scuola Fontana”.

In realtà, la sola – relativa – novità è che l’immediata e aperta connotazione razzista emerge fin dal nome del progetto (sì, moro si riferisce proprio al colore della pelle dei volontari). Per il resto, purtroppo, non c’è nulla di nuovo. Il ricorso al lavoro gratuito delle persone richiedenti asilo nasce infatti almeno tre anni fa, e da allora conosce un’espansione costante in decine di città e paesi, a nord come a sud. Il 27 novembre 2014 Mario Morcone, braccio destro di Minniti, firma una circolare in cui invita le prefetture a predisporre attività socialmente utili per i e le richiedenti protezione internazionale. Il problema principale che tali attività volontarie e gratuite dovrebbero risolvere è quello dell’“inattività” dei-lle migranti nei centri detti di accoglienza. Ovviamente, l’inattività è un problema soprattutto per il buon cittadino bianco, che li vede nullafacenti e con i famosi 35 euro al giorno in tasca – famosi quanto inesistenti : se va bene sono 2,50 euro.
Il volontariato si presenta fin da subito come un modo per placare le ire di questo cittadino medio, mettendo in scena l’“integrazione” e la riconoscenza del richiedente asilo. E’ il contesto degli scontri di Tor Sapienza a Roma e lo Stato, oggi come allora, vuole usare il lavoro gratuito come strumento per “prevenire le tensioni” (la citazione è del solito Morcone) con la popolazione locale. In pratica : renditi utile e lavora gratis, che magari non verrai aggredito.

Questa manovra non cambia (e non ha alcuna intenzione di farlo) la condizione strutturale prodotta dall’accoglienza, che determina per sua stessa natura precarietà, ansia, dipendenza, segregazione e noia. Questa condizione è legata all’attesa della commissione d’asilo che deciderà o meno se si merita uno straccio di documento dopo la traversata del Mediterraneo. Come se non bastasse, una volta entrate nel circuito dell’accoglienza i “migranti” non possono scegliere dove e come vivere e spostarsi, hanno orari di rientro e spessissimo non hanno diritto a cucinare autonomamente, non possono assentarsi senza chiedere il permesso e comunque non per più di tre giorni, pena la cacciata dalla struttura. Subiscono insomma un controllo e un’infantilizzazione costanti, che all’esterno vengono però zuccherate grazie al linguaggio umanitario tipico della sinistra “democratica e antirazzista”.
Non stiamo parlando solo nei grandi centri dove vengono ammassate centinaia di persone, sperduti in mezzo al nulla, a cui viene rifilato cibo marcio e trattenuto regolarmente il pocket money. Parliamo qui dell’intera filiera dell’accoglienza: per quanto possa essere “buona” e “diffusa”, resta un sistema disciplinare. Il volontariato ha proprio la funzione di rendere più sopportabile tutto ciò, più sopportabile soprattutto per chi non lo subisce e lo vede da fuori, con la sua carta d’identità in tasca.

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Accettare di lavorare gratuitamente, pulendo strade e aiuole, raccogliendo spazzatura, imbiancando e cucinando, è presentato di solito ai e alle richiedenti asilo come un modo per ottenere, un giorno, un lavoro vero. Vi ricorda qualcosa? È la tipica promessa neoliberale in stile Expo 2015.
Però qui il ricatto è molto più subdolo e potente, non solo per la posizione di classe dei e delle migranti, ma anche per il loro status giuridico, per definizione appeso a un filo. “Se fai il volontariato è più facile avere i documenti”. Un’offerta che non puoi rifiutare.
Come tutte le promesse fatte da chi chi comanda, è impossibile sapere se verranno rispettate. Ogni tanto, la commissione o il tribunale ne tiene conto (il che pone qualche questione di ordine giuridica: è un permesso di soggiorno per docilità?); ogni tanto no. Nel mentre, possiamo goderci articoli di giornale e belle foto dei neri con le pettorine fluorescenti che ci puliscono i marciapiedi. Neoliberismo in salsa coloniale.

Il volontariato della scopa è senz’altro quello che va per la maggiore, soprattutto in questa epoca in cui pulizia is the new polizia. Ha il pregio di selezionare chi, tra i corpi sospetti, indecorosi o socialmente pericolosi, può essere considerato “integrabile”, ovvero sembra accettare la propria posizione subordinata. Per gli altri e le altre, c’è il Daspo urbano. O pulisci, o vieni spazzato via.
Ma ci sono altre forme di messa al lavoro non remunerato, meno mediatizzate ma comunque presenti. Per esempio, talvolta vengono affidate a “volontari” richiedenti asilo alcune attività all’interno degli stessi centri di accoglienza: un modo piuttosto brillante per tagliare i costi dell’accoglienza, usando alcuni “ospiti” come personale non pagato.
O ancora, e questo accade (non a caso) soprattutto con le donne richiedenti asilo, il volontariato proposto è lavoro di cura o di settori quali l’assistenza ad anziani, bambini o persone disabili. Sì sì, sempre tutto gratis. Hanno ragione i promotori del volontariato: queste iniziative hanno una funzione pedagogica. Servono a educare alla posizione che viene assegnata nel mercato del lavoro ai e alle migranti, in base alla razza e al genere.

Ma chi sono i promotori di questa meraviglia? Forse la Lega? Niente affatto. È la galassia del terzo settore, dell’associazionismo e delle cooperative, sotto lo sguardo benevolo di Pd e Ministero degli interni. Sono le stesse persone che fanno affari d’oro con l’accoglienza, che “condannano le violenze” dopo l’omicidio di Idy Dienea Firenze, che vorrebbero rendere la logistica dell’accoglienza e il sistema delle frontiere ancora più perfetti, fluidi e selettivi, che si dicono antirazziste ma in stile all colors are beautiful, perché di rimettere in questione privilegi e rapporti di potere non se ne parla proprio.

Sono loro che portano avanti discorsi umanitari che, in fondo, sono coloniali.

Per praticare un antirazzismo che non sia di facciata, è anche contro di loro che bisogna lottare.

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