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La necessità di un conflitto contro Trump e oltre Trump. Intervista a Felice Mometti sugli scenari post-voto USA

Infoaut: Molti commentatori hanno parlato di un voto di classe riguardo a queste elezioni: il ragionamento sulla working class bianca che ha votato in massa Trump, il discorso sulla Clinton vista come esponente di un establishment lontano dai bisogni del cittadino comune, del ceto medio…c’è chi come ad esempio Bifo ha parlato di un Trump utilizzato come un’arma da parte di quegli strati sociali impoveriti che altre armi non ne hanno, che non hanno la possibilità di avere un riferimento politico adeguato, né di movimento né partitico.  Si sarebbe votato Trump come modo per esprimere la propria frustrazione, dal basso verso l’alto, verso un establishment non più tollerato. Che ne pensi di questa descrizione? Va a nostro avviso sottolineato che, andando a vedere numeri ed analisi del voto, in realtà Trump è stato appoggiato anche da gran parte di quel mondo ricco contro cui ha giocato la sua campagna elettorale.

Trump raccoglie un insieme di paure sociali, rabbia politica ed angoscia per il futuro che a mio avviso è molto articolata. Trump ha preso più di 60 milioni di voti, che non sono tutti della componente bianca che è stata segnalata come decisiva nell’affermazione del tycoon. C’è sicuramente una parte di America molto profonda, razzista e sessista che ha visto Trump come momento di rivincita nei confronti di Obama; c’è anche un settore di classe operaia bianca, collocata soprattutto in zone ben precise del paese – sto parlando del Michigan, del Wisconsin e della Pennsylvania – che ha votato Trump in questa tornata elettorale quando in quella precedente aveva votato Obama.

In un’intervista al quotidiano locale Detroit News, un lavoratore affermava: “La volta scorsa ho votato Obama, ma questa volta Trump perché era il male minore.” Con questo intendeva che Trump è contro i trattati commerciali a vari livelli dal TTIP al TPP al Nafta, ecc. che in questi ultimi 15 anni hanno fatto sparire 40000 posti di lavoro. E’ un Trump che catalizza attorno a sé tutta una miriade di insoddisfazioni, paure, rabbie – che diventa simbolo contro l’establishment. Trump non è un uomo antisistema, questo mi pare chiaro e condiviso. D’altra parte, c’è anche da dire che si inserisce all’interno di una profonda crisi della rappresentanza politica americana.

Infoaut: Molti hanno parlato di un voto che segna un cambio di fase enorme, storico, che attacca frontalmente il percorso vittorioso della globalizzazione iniziato con l’ascesa di Reagan e della Thatcher e proseguito con la visione più moderata ma comunque sfrontata della “terza via” blairiana e clintoniana. Si può parlare di un voto unicamente contro la globalizzazione o si può anche descriverlo come un voto anche contro il neoliberalismo, “permesso” da Trump come protesta verso le forme che questo ha adottato negli ultimi trent’anni?

Trump è stato considerato da molti elettori impoveriti della società americana in questi ultimi anni come il mezzo o lo strumento per far sentire la propria voce. Ciò che avevano a disposizione in questo momento, e come tale è stato utilizzato. Dopodiché ho molti dubbi sul fatto che Trump riuscirà veramente a rappresentare questi settori, anzi sono certo del contrario; nonostante questo i suoi elettori lo hanno visto come l’unico strumento possibile per far sentire la propria voce. Questo non vuol dire che Trump rappresenti il futuro della rappresentanza politica di quel paese: davanti a sé ha moltissimi problemi, ad esempio un partito repubblicano in profonda crisi.

Come verrà ricostruito quest’ultimo? Se verrà ricostruito in linea con il suo passato sarà uno degli elementi a cui guardare. Probabilmente, in questo momento la cosa che Trump teme di più dopo aver vinto le elezioni è di diventare il rappresentante di coloro i quali si battono contro l’austerità e i tagli al welfare. Credo anche che dall’altra parte ci sia un Partito Democratico che invece sta tentando di tutto per addomesticare Trump, a cominciare dall’incontro con Obama.  La struttura dell’establishment americano è rigidamente bipartisan e se viene meno uno dei pilastri ne risente anche l’altro. Per questo ho moltissimi dubbi, per usare un eufemismo, su Trump visto come strumento, come mezzo, in grado di rappresentare il disagio, la paura, la rabbia sociale.

Infoaut: Apriamo il ragionamento su una categoria molto utilizzata in questo periodo di turbolenze della rappresentanza politiva, quella della stabilità: la Clinton si presentava come la “continuità”, tutta la sua campagna elettorale è stata giocata su questo tema da opporre all’irrazionalità di Trump. Abbiamo scritto che la vera sconfitta della Clinton è stata quella di impostare la sua campagna identificandosi in una fase di crisi come il potere, la stabilità, lo status quo, come in parte avvenuto per la Brexit. Al punto che quelle che dovevano essere le ragioni di un suo quasi sicuro successo – il voto delle minoranze, il dibattito sul sessismo, appunto l’irrazionalità di un’uscita come quella di Trump – non sono state in grado di battere quella che oggi è la paura della stabilità. Forse l’idea stessa di continuità, il riprodursi della tenuta sistemica sono ormai diventate i primi nemici da parte di chi non ha voce?

Hillary Clinton ha rappresentato le scelte e gli esiti della governance. E’ stata vista come il potere che si stava riproducendo, cercando il modo di riuscire a mantenere una continuità con il passato, anche se nel caso di una vittoria avrebbe introdotto alcuni cambiamenti rispetto alla presidenza Obama.

Quindi quest’aspirazione, questo sentimento di ribellione all’interno della società americana nei confronti dell’establishment c’è; un altro aspetto da capire meglio è che l’intera architettura istituzionale americana è in profonda crisi,ad esempio all’interno degli stessi meccanismi di funzionamento dello Stato federale, e soprattutto a livello di rapporto di questo con i singoli stati. Naturalmente questo ha favorito, per certi versi, Trump – che si è inserito all’interno di questa crisi attaccando frontalmente l’establishment e conducendo una campagna elettorale definita “politicamente non corretta”, come se la campagna elettorale della Clinton fosse stata “politicamente corretta”!

C’è quindi, soprattutto all’interno di alcuni settori una forma di ribellione dovuta ad una mancanza di prospettiva politica e di un futuro sociale davanti. Più sottotraccia credo che ci sia una crisi profonda della società americana che riguarda che cosa si intenda per politica, partecipazione e capacità di incidere all’interno di un sistema istituzionale completamente refrattario. Il voto a Trump esprime quindi aspetti che vanno in questa direzione. Il problema vero è che in questa fase così difficile ma in movimento risulta difficile capire che tipo di prospettiva ci sia davanti, quali siano gli elementi che danno forma a una composizione di classe e quali siano i percorsi della soggettivazione politica.

Infoaut: In rapporto a questo molti hanno sottolineato l’incapacità dei media e degli istituti di sondaggio di comprendere quello che stava succedendo, anche se molti dicono che tutto ciò sia stato studiato per costruire una narrazione in cui la Clinton fosse presentata come vincente proprio per cercare di demoralizzare quanto altro stesse avvenendo. Probabilmente c’è anche un cambiamento profondo oltre che nella pancia della società americana anche nel rapporto con i media, nel senso che una comunicazione politica completamente blindata, con tutti i principali giornali e testate televisive che erano a fianco della Clinton, non ha avuto effetto. Secondo te ciò dipende anche da un nuovo modo di costruire la propria immagine politica, nell’utilizzo del social network, nella questione del complottismo? Trump ha giocato molto sulla ripresa di tutti quegli stereotipi classici, dalla non-americanità di Obama alla questione del riscaldamento globale..quanto ha inciso questa dimensione di diverso atteggiamento tra media e società?

Credo che abbia inciso molto. C’è attualmente negli USA una discussione sui ruolo dei media mainstream, sul perché i principali siti che si occupano di sondaggi abbiano sbagliato completamente previsioni. C’è chi teorizza in modo esplicito e non da oggi che i sondaggi siano una profezia che si autoavvera, che il loro uso massiccio sia più orientato a costruire l’opinione pubblica e non, semplicemente, a misurarla.

Questo preciso uso dei sondaggi è stata una parte della strategia elettorale dello staff di Hillary Clinton. Dall’altra parte c’è una profonda diffidenza nei confronti dei sondaggisti negli USA,  anche per i modelli che usano per costruire i campioni da intervistare. Spesso  ci si limita ad intervistare quasi esclusivamente gli elettori delle grandi città – di New York, San Francisco, Los Angeles – sulle due coste, che sono anche quelli più disponibili a parlare con i media. Cosa che invece non accade in moltissime altre zone come il Michigan ed il Wisconsin o altrove, dove Trump ha vinto.

C’è quindi questa forma di contrapposizione tra le due coste democratiche e la parte centrale, che spesso sembra un altro paese; sembra una banalità ma esprime la dimensione degli USA come un continente, come un insieme di tanti paesi e non invece come una nazione. Dal punto di vista comunicativo questo è abbastanza vero. I media mainstream democratici hanno fatto un gioco molto sporco durante l’ultimo mese di campagna elettorale, se si pensa a quello che hanno fatto in successione il New York Times da una parte ed il Washington Post dall’altra.

 

Venti giorni fa i due tentativi di affondare definitivamente Trump sono stati coordinati, e ciò è stato palese per tutti: prima il Times, con lo scandalo del fisco, delle tasse che Trump non aveva pagato e dall’altra parte il video del Washington Post che circolava da anni e che è stato buttato in pasto all’opinione pubblica 10 giorni prima del voto. E l’intervento pilotato del direttore del FBI contro la Clinton, negli ultimi giorni della campagna, è stata la risposta repubblicana. Oltre a tutto ciò bisogna registrare, ovviamente,  anche una distanza tra il media mainstream e gli elettori che non hanno dichiarato pubblicamente il voto a Trump ma che poi si sono espressi sostenendolo.

Infoaut: In queste ore vediamo che si sono scatenate in tutto il paese le prime proteste contro Trump o quello che promette essere la sua presidenza. Tu hai seguito in questi anni l’evolversi dei movimenti da Occupy Wall Street fino a Black Lives Matter negli USA; quali sono secondo te le prospettive e gli scenari?

Quello che vedo in questi giorni è un attivismo da parte di tutto un settore giovanile che si era impegnato in prima persona nella campagna di Bernie Sanders e che non ha assolutamente condiviso il suo atteggiamento a luglio quando ha praticamente accordato il sostegno ad Hillary Clinton durante la convention democratica. Questo settore si aspettava da Sanders invece una proposta politica, cosa che alla fine invece egli non ha fatto – o meglio ne ha raffazzonata una che ha poche prospettive. Questo, che in questi giorni si è mosso nelle grandi città e nelle grandi metropoli americane, è un settore giovanile ma quasi esclusivamente bianco, che ha partecipato al percorso delle primarie di Bernie Sanders in modo convinto, vedendolo anche come un’alternativa al sistema bipartisan americano.

In questi giorni si sono mossi coloro i quali sono ancora rimasti organizzati dai tempi di Occupy Wall Street. Ad esempio in alcuni alcuni territori come Oakland mettendo in campo proteste molto radicali. Il panorama è abbastanza frammentato, come alcuni settori che si riconoscono come Black Lives Matter in alcune città, penso a quanto successo a Chicago, a New York o anche a Filadelfia. Siamo in una fase di risposta molto emotiva, che cerca anche di costruire un percorso per il futuro. Bisogna capire se nelle prossime settimane riuscirà realmente ad affermarsi, se avrà una capacità di mettere in campo un conflitto sociale che vada oltre la contestazione a Trump. Nel senso che va benissimo che nei primi giorni ci siano i cartelli “Trump non è il mio presidente”, ma è chiaro che o questo tipo di atteggiamento viene sostanziato a livello sociale o c’è il rischio che rimanga una fiammata.

C’è anche un altro fenomeno molto più rivolto al settore liberal americano che esprime la propria protesta in questi giorni attaccando post-it nella metropolitana perché non sa più cosa fare.Dando per certa una vittoria di Clinton non ha più davanti una prospettiva politica, e vede davanti a sé una profonda crisi del Partito Democratico. Bisogna aspettare qualche settimana per vedere se la connessione tra queste due risposte potrà riuscire a saldarsi con una serie di conflitti che sono tutt’oggi presenti nella società americana – ad esempio la lotta sul salario minimo o la lotta dei nativi Standing Rock, o ancora una serie di lotte aperte in alcune università sul debito degli studenti nei confronti delle banche. Se c’è questa connessione, credo che ci sia un futuro; altrimenti qualche problema di tenuta del conflitto ci sarà.

Infoaut: All’interno di un contesto già molto polarizzato, dove le disuguaglianze sociali sono aumentate tantissimo negli ultimi anni anche durante la presidenza Obama, si può prospettare uno scenario -durante la presidenza Trump – contraddistinto da una sorta di unità tra elite contro l’elemento dal basso che in modo differente ha sostenuto Sanders e Trump?

Mometti: Le potenzialità già esistono all’interno di una serie di settori sociali. Il problema riguarda la capacità di riuscire a costruire delle forme di condivisione di questo conflitto, delle forme di riconoscimento reciproco. I giovani che ho visto a New York durante le primarie di Sanders esprimevano una volontà di conflitto che era decisamente superiore rispetto anche ad alcuni momenti di Occupy Wall Street. Un conflitto che però non era organizzato, c’era una grande voglia di fare e mettere in discussione una serie di capisaldi di quella società, ma non si vedeva lo strumento.

Hanno visto come ha perso Sanders, ma egli – per questioni oggettive-  non poteva certo rappresentare un utile strumento di politicizzazione, al di là del giudizio sulla sua persona. Se in questa situazione c’è una potenzialità dall’altra parte mancano gli strumenti affinché questa si esprima anche a livello sociale e produca conflitto, soggettivazione politica, capacità di mettere in connessione le esperienze che in alcune città sta facendo Black Lives Matter. Questo stesso movimento non va concepito come movimento omogeneo, è molto più un grande contenitore con un’articolazione molto ampia di posizioni riguardo alla radicalità dei comportamenti.

Se si danno delle occasioni, delle forme di condivisione, associazione, allora veramente si può far paura alla presidenza Trump. Perché questo è quanto temono di più in assoluto negli USA: la capacità di connettere i vari conflitti sociali  in modo da produrre comportamenti politici. E’ quello che cercano in tutti i modi di scongiurare. E’ l’impostazione che sistematicamente adotta la polizia in tutte le grandi metropoli americane con la creazione di temporanei “stati di eccezione” nelle aree territoriali a maggior intensità conflittuale. Ed è sistematicamente  la posizione che assume dal punto di vista politico il Partito Democratico: rompere ogni volta un possibile fronte che si apre dal punto di vista politico e possa essere contrapposto ad esso. Non è un caso che il Partito democratico, da anni, sia definito come “il cimitero dei movimenti”.

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