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In Catalogna non sta succedendo niente

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Alcune riflessioni sul processo d’indipendenza della Catalogna dai compagni di Pavia

Per comprendere l’entità e il potenziale del processo che si sta dando in Catalogna, può essere utile raccogliere suggestioni, derivanti da testimonianze ed esperienze, al fine di delineare e azzardare provvisoriamente alcune considerazioni che non pretendono di essere esaustive né definitive. La provvisorietà, d’altra parte, pare essere e, forse, necessariamente deve essere, in casi come questi, la cifra di chi agisce e la chiave di lettura di chi osserva e/o ricerca. I fatti sono sotto gli occhi di tutti: il governo che si insediò due anni fa, sostenuto da varie forze, fra cui la candidatura di unità popolare, aveva promesso al suo elettorato che avrebbe tenuto un referendum, dichiarato l’indipendenza dalla Spagna e proclamato la Repubblica. Così è stato. Il Govern ha sottovalutato la virulenza della reazione di Madrid? Forse sì, ma, probabilmente, nelle valutazioni di chi ha deciso di arrivare allo scontro istituzionale frontale ha prevalso la necessità di rispondere a un mandato popolare forte e inderogabile.

Madrid, tuttavia, sembra proprio non aver calcolato che tutta questa ondata repressiva è benzina sul fuoco indipendentista, così come lo fu, negli scorsi anni, il blocco operato dal Tribunale Costituzionale, nel 2010, del già misero statuto di autonomia approvato, nonostante l’opposizione delle forze indipendentiste, attraverso un referendum nel 2006. Altra benzina sul fuoco è stata gettata da parte dello stesso Tribunale Costituzionale con la sospensione di numerose norme, approvate dal Govern catalano, incluse quelle di carattere sociale.

Probabilmente anche a causa della risacca del movimento contro la crisi economica del 15M e del successivo blocco, in nome di una uguaglianza nella povertà, della legislazione sociale catalana da parte di Madrid, le aspettative di miglioramento delle condizioni materiali di vita di molti lavoratori, disoccupati e ceto medio impoverito si sono riversate nell’indipendentismo, con la speranza che dall’indipendenza da Madrid potessero discendere benefici sociali.

Dando per assodata la cronaca degli eventi succedutisi dal primo ottobre in poi, il conflitto insanabile, che ha visto e vede vede contrapporsi due opposti tragicamente antitetici, da una parte la ragione di stato, rappresentata da Rajoy, dall’altra il bisogno impellente di autoderminazione del popolo catalanao, è stato foriero di una repressione costante da parte dell’esecutivo di Madrid, che si scaglia sui militanti di base, messi sotto processo anche solo per opinioni espresse; che ha colpito in maniera eclatante gli uomini e le donne che hanno compiuto questo processo a livello istituzionale, metà in galera, l’altra metà in esilio; che arriva a minacciare l’illegalizzazione della CUP.

Tuttavia, la reazione spropositata di Rajoy sembra non interessare a nessuno nel vecchio continente, a parte i catalani e qualche raro popolo amico. In Europa si continua a fare come se niente fosse, ignorando la presenza di un grosso elefante a strisce gialle e rosse nel salotto, che tutti vedono, ma che fingono di non vedere, secondo la nota metafora anglosassone.

Ciò che è accaduto da fine settembre ad oggi in Catalogna ha dell’incredibile. Per come si è evoluta la situazione, si è finiti con l’andare ben al di là degli intendimenti degli stessi attori istituzionali, finendo col mettere in discussione l’ordine costituito, un ordine cristallizzato e ormai dato per assodato. Così la Catalogna, che Puigdemont e soci lo volessero o meno, e che lo si voglia ammettere o meno, ha messo in crisi non solo lo stato spagnolo postfranchista, ma anche la vacuità dei principi su cui, astrattamente, si fonda l’intera Europa. In discussione sono state messe anche, elemento su cui occorrerebbe una riflessione serrata, le certezze di chi si picca di voler cambiare lo stato di cose presente, ma non riesce ad avere la capacità di comprendere la portata del cambiamento in atto in Catalogna. Eppure, un cambiamento in atto c’è, è patente, e, forse, irreversibile. Per questo in tanti hanno un estremo bisogno di ignorare la questione catalana, poiché riconoscerla significherebbe mettere in discussione troppe certezze: da quella di una Spagna unita e monarchica, a quella di un’Europa indivisibile e forte col suo euro e la sua austerity, a quella che le rivoluzioni sono degli eventi che si danno in modo preordinato, chiaro, limpido e privo di contraddizioni. Nonostante dalla narrazione dei media possa apparire come eterodiretto dall’alto e giocato solo a livello istituzionale, il vero protagonista di questo processo è il popolo catalano, al cui inseguimento si è trovato quel ceto politico che più volte ha cercato di sfilarsi, ma che ha dovuto, alla fine, essere conseguente e arrivare al punto di rischiare fino a 30 anni di galera, forse non per una forte spinta ideale, ma di sicuro per obbedire a un mandato popolare sempre più pressante. Forse, questi prigionieri politici appaiono troppo altolocati per poter scuotere le coscienze stradaiole italiane, ma questo è lo stato dell’arte.

Perchè il popolo catalano è l’unico protagonista di questo processo? Dietro una coltre di apparente normalità, se si discute con la gente e si gira nei quartieri, tutto parla del processo in atto. Dal palazzo della Municipalitat da cui pende un enorme striscione che chiede la liberazione dei presos politics, cui fa da contraltare il palazzo della Generalitat, muto, perché su di esso pende il 155, fino ai quartieri popolari dove dai palazzi pendono le bandiere della Repubblica catalana e i cartelli con i volti dei due Jordis. Quella catalana è attualmente una società polarizzata, le conversazioni che si sentono per le strade, in metro e nei bar riflettono il grado di partecipazione popolare agli eventi in corso. In questa polarizzazione è ben chiaro il ruolo del fascismo, tanto quello repressivo di stato, quanto quello di strada, compiuto dalle organizzazioni neofasciste che provocano ai cortei, attaccano le sedi di organizzazioni indipendentiste e aggrediscono singoli militanti: quello di disgregare, bloccare la partecipazione, reimporre lo status quo ante o, più verosimilmente, ridurre ulteriormente gli spazi di dibattito e confronto.

Tra gli spazi di aggregazione, dibattito e confronto giocano un ruolo di primo piano casals e ateneus, le strutture di quartiere in cui ci si organizza per fare fronte alla crisi economica crescente, con lo scopo di offrire ai cittadini quei servizi sociali tagliati da stato e generalitat: i bambini possono andare a fare il dopo scuola, le donne riunirsi per parlare di sé, e insieme si cercano strategie e soluzioni condivise per far fronte ai problemi della quotidianità nell’austerity a Barcellona. Alcuni sono occupati, in altri si paga l’affitto. In questi ultimi mesi, alcuni di questi sono diventati il luogo in cui si riunivano i Comitati in Difesa del Referendum, trasformati, dopo la proclamazione, in Comitati in Difesa della Repubblica. Senza cambiare neanche una lettera. I Comitati di Difesa della Repubblica appena nata raccolgono cittadini di orientamenti politici diversi, ma accomunati dalla lotta per l’indipendenza e per la Repubblica. All’interno di questi comitati si può trovare la signora borghese di 60 anni che pretende di bloccare l’autostrada come il militante che, pazientemente, cerca di infilare contenuti e idee più avanzate. Di fatto, non sarebbe stato possibile, senza questo tipo di strutture, organizzare due scioperi generali oceanici in neanche due mesi, dove, se il primo ha spiccato per adesioni, essendo stato fatto immediatamente dopo le violenze del 1O, il secondo ha spiccato per organizzazione, essendo riuscito a paralizzare il paese coi blocchi che si sono dati in tutta la Catalogna. A Barcellona c’è un CDR per ogni quartiere, nel resto della regione uno per ogni paese, e altri se ne stanno costituendo. Sono tutti connessi tra di loro e organizzano azioni di ogni genere, dagli attacchinaggi, ai blocchi autostradali che si sono visti durante l’ultimo sciopero generale. I CDR sono, devono e dovranno essere la colonna portante di questa resistenza e di questa lotta.

Rrappresentano, nella fase attuale, le strutture democratiche di un non più e di un non ancora: oggi incarnano la potenza destituente che si contrappone, in uno scontro tra alto e basso, alle istituzioni spagnole, e proprio con questo obiettivo alcune realtà organizzate di quartiere, non strettamente indipendentiste, hanno deciso di confluirvi. Per alcuni militanti di base dei CDR questi organismi vanno intesi sulla falsariga del confederalismo democratico del Rojava, e in tal senso possono divenire gli organi costituenti della repubblica. Sicuramente all’interno dei CDR è confluita quell’eccedenza che si è vista a partire dalla difesa dei seggi il 1O, inimmaginabile per capillarità, determinazione e organizzazione, se tale compito non avesse coinvolto i cittadini, ma fosse stato demandato alle istituzioni locali, ai partiti o alle organizzazioni associative indipendentiste tradizionali. Anzi, proprio i CDR, in questa fase, hanno tolto ad Asamblea Nacional Catalana e Omnium Cultural il pallino dell’iniziativa, scavalcandole, insistendo sulla mobilitazione popolare continua e rifiutandosi di demandare tutto al voto e ai partiti. Ironia della sorte i due Jordi sono attualmente incarcerati per una manifestazione che cercavano di smobilitare e che stava invece continuando per la determinazione popolare.

L’apparente stallo che precede le elezioni imposte da Madrid per il 21 dicembre racchiude in sé una attività costante e indefessa e una mobilitazione permanente che, come accade in tutte le lotte, vede momenti di espansione, momenti di ripiegamento, momenti di riflessione, critica e autocritica, momenti di stasi e anche di convivialità. Ciò che i catalani non vogliono fare è uscire da un determinato perimetro, quello della via pacifica, ma nessuno si sente di escludere che gli eventi possano prendere delle direzioni inaspettate, che si discostino, cioè, dallo stigmata della “rivoluzione dei sorrisi” voluto da Puigdemont, magari in virtù di meccanismi innescati da qualche ulteriore mossa dissennata di Madrid. Del resto, potremmo dire, senza tema di smentita, altri perimetri e argini sono stati abbondantemente oltrepassati, sempre come reazione alla rigidità della controparte, molto mal tollerata dal popolo catalano. Pur con tutte le ambiguità che il Processo porta con sé, esso ci lascia intravedere alcune possibilità che stanno prendendo forma e a cui dobbiamo guardare con interesse, dimostrare vicinanza e dare supporto. D’altro canto non si può essere osservatori imparziali ed equidistanti, poiché i tempi impongono una scelta: gli embrioni di un nuovo autogoverno dal basso o il regime postfranchista sostenuto dall’Europa della troika.

Le prospettive future sono incerte. La partita è ancora da giocare. Molto è stato fatto. Molto, resta da fare. Da fare rimane una Repubblica tutta da costruire, che in queste settimane si sta reggendo solo dal basso in una situazione di vuoto istituzionale. D’altra parte, tra i migliori auspici, c’è quello che la nuova Repubblica non sarà figlia di queste istituzioni e di questa Europa.

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