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Il tessile in lockdown. Intervista al S.I. COBAS di Prato

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Pubblichiamo di seguito una intervista con un compagno del sicobas di Prato. Un territorio denso di contraddizioni che è stato investito preventivamente dalla fase pandemica con anticipo rispetto alle altre regioni italiane, auto-imponendo alla comunità imprenditoriale cinese un lockdown che ne ha effettivamente limitato i contagi. Ma Prato è anche la città in cui negli ultimi due anni c’è stata una sindacalizzazione conflittuale del tessuto operaio migrante contro gli storici regimi di sfruttamento governati dalla classe imprenditoriale locale con la compiacenza storica dei corpi intermedi tradizionali e del mondo istituzionale. Nella crisi covid19 emergono fratture e trasformazioni su più livelli dell’organizzazione delle zone produttive. Emerge il ruolo di vero e proprio soggetto politico trainante della locale (e non solo) confidustria, ma anche le violente “svalorizzazioni” del lavoro operaio causato dalle disoccupazione forzate. I costi del lockdown non sono né possono essere redistribuiti per lo Stato, che non è interessato a “salvare” né coprire i bisogni della forza lavoro integrata nel processo produttivo del distretto del tessile. La discriminazione sociale posta dai regimi razzisti si evidenzia con tutta la sua durezza nell’esclusione dal welfare. La contraddizione tra salute e lavoro, tra territorio e inquinamento, che vive nel ricatto del salario e del permesso di soggiorno, affonda i propri artigli in questa fase di crisi per non correre il rischio della distruzione di quell’“interesse comune” che lega il destino operaio alle esigenze della produttività. Nodi e contraddizioni che ci interessa approfondire, seguire per metterci a lavoro su ipotesi di lotta e di costruzione di una effettiva alternatività all’infezione sociale degli interessi industriali.

 

Premessa

ci interessava parlare con voi compagni rispetto ai discorsi più legati al lavoro produttivo, nello specifico del settore tessile pratese, rispetto alla vostra militanza che in questi anni avete fatto, impegnati nel si cobas in questa particolare fase qui di pandemia.

 

Come prima cosa ti volevo chiedere se a Prato ci sia stato il rispetto della chiusura forzata, o se come nel nord Italia, tante aziende siano andate in deroga al lock down e abbiano continuato a produrre.

Prima di tutto faccio una premessa, nel senso che ovviamente quello che io ti posso raccontare rientra nella parzialità del nostro sguardo, faccio riferimento ai luoghi che sono coinvolti e ai luoghi che fanno parte della sindacalizzazione col SI COBAS e dove comunque ci sono contatti con i lavoratori, con l’autorganizzazione, con le lotte etc… e poi magari su altre domande come quella di questo tipo posso dare risposte rispetto alla percezione che si può avere ma che ovviamente non è un dato di fatto oggettivo.Innanzi tutto volevo fare una precisazione, provando un attimo a dividere tutti i discorsi tra il distretto tessile e la logistica. Probabilmente seguiranno due filoni diversi in questa storia qui. Quali sono intanto i luoghi di lavoro coinvolti, quelli di cui abbiamo fatto esperienza diretta e sappiamo perché c’è un’internità delle lotte. Quando parliamo di distretto tessile parliamo anche qui di una parzialità che è fondamentalmente più che altro il mondo delle tintorie, e della parte del distretto a conduzione cinese, che lavora e produce capi di abbigliamento di media bassa qualità. Quindi rimane fuori da questo discorso tutta la parte “dell’alta moda/abbigliamento di qualità”, che è un’altra parte del distretto tessile che non è coinvolta nei processi di lotta e di cui quindi io non ho conoscenza. Su questo settore dunque il lockdown è stato rispettato, e c’è da dire questo, tutte le tintorie (superlativa, fata, dl, tinto group etc..) sono state coinvolte dalla crisi e quindi anche dalla sospensione delle attività o dalla riduzione, prima dei decreti ministeriali, che hanno disposto la chiusura delle attività non essenziali per un connubio di due elementi che si intrecciano tra di loro: il primo è che essendoci la conduzione cinese di questa parte della filiera dei pronto moda che sono il pezzo committente delle tintorie, c’è stata comunque una sensibilità e una comprensione di quanto stava accadendo maggiore, portandole a decidere di chiudere prima. Producendo quindi una mancanza di lavoro già da prima. L’altro è un fattore oggettivo per queste industrie, ovvero la difficoltà e/o l’interruzione dei flussi con la Cina, di materie prime etc.. che è iniziata con l’inizio della crisi in Cina. Quindi prima dell’arrivo del virus in Italia.
Quindi questi due fattori hanno portato di fatto la stagione del tessile, di questa parte specifica, cioè della maglieria e di capi leggeri, a non partire mai con la produzione stagionale. Sarebbero dovuti partire a fine dicembre/gennaio, però non è mai iniziata. Quindi molte aziende di questo comparto hanno scelto di non tenere gli impianti aperti. Non c’è stato quindi un interesse a forzare da parte operaia le misure di chiusura per questi motivi.
Un discorso diverso invece vale per un’altra parte del distretto che è quella che ha fatto notizia, diciamo così, che è quella dell’imprenditoria italiana che è collegata anche alla filiera internazionale che non è per forza dei grandi marchi, ma che è di buona qualità ed è collegata all’export del made in italy, che invece è stata quella parte di padronato che ha pressato per le riaperture, e ci sono stati anche vari escamotage dei vari protocolli sui beni essenziali, facendo appiglio alla produzione del tessuto non tessuto, e che quindi ha permesso ad una piccola parte di rimanere sempre aperta. Questa filiera di imprese, grazie all’aggregazione a confindustria, ad aprile hanno anche tentato la riapertura di 200 aziende di questo pezzo di distretto, come forma di disobbedienza civile, e che è arrivata poi a strappare la riapertura in deroga del distretto al 27 aprile, invece che al 4 maggio.
Mentre invece il distretto cinese riaprirà il 4, se riaprirà… una parte ancora non ha riaperto e molti hanno annunciato che non riapriranno a breve.

 

 

I lavoratori impiegati in questo pezzo di filiera, rispetto alle condizioni contrattuali che tendenzialmente vengono adoperati, che situazione vivono e di che tutele godono?

Lì dentro la condizione economico sociale è di bassissimo livello e la norma è quella del lavoro nero e ancor di più “grigio”, soprattutto grigio: quindi contratti part-time, tra le 2 e le 4 ore al giorno, per un lavoro effettivo di 12 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. Un prodotto delle lotte che ci sono state è il giorno settimanale di pausa, che anche dove poi le lotte non ci sono state comunque sia ha prodotto questo risultato a cascata sulla generalità delle aziende di questo tipo. È una goccia nel mare, ma pur sempre una goccia.
Alla luce di ciò, quindi, tutele zero! Ci sono migliaia di lavoratori, più o meno questi sono i numeri del distretto cinese, che avranno casse integrazioni ridicole, 150/200 euro al mese, ed ovviamente in tutta la filiera non ci sono anticipi di cassa integrazione anche perché comunque è tutto un discorso di grandi filiere, composte da medie imprese.
La situazione dunque è drammatica, cioè che c’è qualche migliaio di lavoratori messi in condizione di povertà assoluta in questo momento.
Il piccolo spaccato delle lotte ha prodotto comunque che quei lavoratori che hanno fatto gli scioperi nell’ultimo anno e mezzo contro il lavoro “grigio” abbiano invece la cassa integrazione piena a 8 ore, perché fondamentalmente hanno conquistato regolari contratti da 8 ore… che però comunque non viene anticipata.
Un altro aspetto ha a che fare con la provenienza della manodopera, che sia in questo pezzo di filiera a conduzione cinese, che in quell’altro della filiera “italiana”, è di origini cinesi, pakistane e africane. Gli italiani sono nelle posizioni tecniche qualificate o di direzione. Molto spesso gli italiani sono ex imprenditori, che diventano consulenti salariati per le loro competenze tecniche e gestionali dalla filiera cinese. Sulla condizione dei lavoratori cinesi sappiamo dire poco, perché purtroppo resta un mondo con cui i rapporti restano non dico nulli, ma davvero pochi. Quindi sia la questione permesso di soggiorno che le dinamiche contrattuali restano per il sindacato ad oggi “oscure”, anche ovviamente a causa della chiusura della comunità che ovviamente fa da “controllore” di questa parte di forza lavoro. Per il resto in grande parte sono maestranze con lo status di “richiedente asilo” di nazionalità pakistana, bengalese e africana. Questa cosa è importante in questo momento perché sono praticamente tutti, il 95% potrei dire, che non hanno nemmeno la residenza anagrafica in Italia, e questo produce che in questo momento anche tutte le misure di welfare, come ad esempio i famosi buoni spesa, il contributo affitto, loro non possano usufruirne, quindi una esclusione totale dal welfare di questo settore del lavoro produttivo.
Riepilogando: niente cassa integrazione, cassa integrazione ridicola (a parte per chi ha lottato regolarizzando i contratti) ed esclusione da tutte le misure sociali ordinarie e straordinarie. L’unica possibilità di “sussistenza” istituzionale rimane quindi il banco della solidarietà della caritas.

 

Dove vivono tutti questi operai? A Prato oppure vengono da fuori?

Vivono quasi tutti a Prato, una piccola parte abita a Pistoia che è ancora più economica sul mercato degli affitti, e si spostano con la bicicletta da casa a lavoro, che non è lontanissimo ma nemmeno vicino da raggiungere con la bicicletta. Quasi tutti vivono in case in affitto con tante altre persone, tra le 5 e le 6, anche 8 a volte.
Tanti di questi sono pakistani che richiedono la protezione umanitaria per avere un documento di soggiorno regolare, ma che per come è strutturato il sistema nel nostro paese vengono poi respinti praticamente tutti. La filiera infatti vive di questa condizione di ricatto, in quanto tutte queste persone rappresentano forza lavoro che ha bisogno di un contratto di lavoro per poter richiedere un permesso di soggiorno.

 

Un’altra questione a nostro avviso rilevante, ascoltando anche un’intervista che il presidente della regione Rossi ha fatto, che stimava il 30% del PIL toscano si produca nell’industria tessile. Ovviamente come ci dicevi l’industria tessile toscana ha più filiere diverse che compongono l’intero settore. Però in questa stima della Regione una parte è occupata anche dalla parte a conduzione cinese “della maglieria” che sul territorio pratese rappresenta una quota rilevante dell’economia cittadina. Alla luce di ciò dunque la chiusura ormai prolungata di questo settore che fratture riporta nell’assetto economico/politico della città? E quale scenario si prospetta in un prossimo futuro?

La riapertura e la ripresa produttiva della filiera non sembrano in discussione in un prossimo futuro, nel senso che nonostante le difficoltà e il possibile fallimento magari di qualche impresa la filiera sta ripartendo e ripartirà quando ci saranno le condizioni per farlo. Non so dirti io che scenari futuri ci saranno però dovremmo seguire con attenzione dei discorsi che dalla loro parte si stanno già facendo, di cui però vediamo solo una traduzione mediatica, per cui si parla di verticalizzare la filiera, costruire nuovi consorzi, ci sarà dunque in questi termini una ristrutturazione.
È comunque una crisi che però non saprei dirti ora su che livello e quanto profonda: sicuramente di tutta quella fascia di piccole imprese una parte morirà, come verrà rimpiazzata nella filiera produttiva dipende dalle linee della ristrutturazione e degli investimenti, se e come ci saranno. Ad oggi le èlite che hanno in mano questi processi ne stanno sicuramente discutendo ma ovviamente non è chiaro come sarà fatto. Sarà decisivo per le lotte seguire questo processo, per piegarlo in altre direzioni.

 

Sul tema delle prescrizioni rispetto alla salute e alla sicurezza (i DPI, le mascherine, la misurazione della temperatura e in generale le nuove procedure) avete già avuto dei riscontri, magari da qualche delegato, sull’applicazione nelle fabbriche?

Dalla ripresa di quelle poche che hanno aperto ieri (4 maggio), hanno per ora riaperto solo per rimettere in moto i macchinari, fare le revisioni, quindi ecco ancora è presto per dire se ci sarà un’ applicazione efficace di queste procedure. In generale comunque nel distretto cinese si può dire che le mascherine e i guanti c’erano quando ancora non le usava nessuno e quando ancora a nessuno sarebbe venuto in mente di doversi mettere una mascherina o un guanto. Diciamo che può sembrare paradossale, ma su un livello standard di sicurezza da questo punto di vista (del virus) c’è un attenzione maggiore rispetto anche a multinazionali occidentali della logistica come GLS, BRT o altre. Diciamo che loro sono più preparati all’adozione di queste misure specifiche.

 

Qual è più nello specifico il ruolo operaio in questo tipo di processo industriale? C’è una certa artigianalità\ manualità e come si combina con i mezzi industriali?

 Fondamentalmente la figura dell’operaio tessile che lotta, che ha lottato in questo ultimo anno, si divide in 2 categorie: l’operaio che carica e scarica la macchina che quindi fa un lavoro di fatica più o meno semplice e ripetitivo con un macchinario. Carica, programma e scarica. Tessuti bagnati, quindi molto pesanti, un lavoro molto faticoso. L’altra figura è il magazziniere.
Poi ci sono i lavoratori qualificati, per cui in molte tintorie, non in tutte, figure produttive come esempio il “pesatore” o addirittura i “chimici” – laddove non sono cinesi o non sono italiani ma sono pakistani o sono africani – possono essere allo stesso livello contrattuale retributivo e di trattamento dell’operaio e del magazziniere. E quindi in quei casi lì infatti anche loro hanno partecipato alla lotta, sono stati i soggetti della lotta. Però di base il lavoro di massa è quello del carico/scarico macchina.

 

Questa chiusura che tipo di incidenza ha avuto sul territorio?

Sicuramente il lockdown un impatto ce l’ha avuto come riduzione dell’inquinamento, nel senso che le tintorie sono una di quelle produzioni più impattanti. Hanno proprio le ciminiere e anche se non è proprio puzza quella che senti però comunque è inquinamento forte infatti per dire ci sono Comitati, che si sono battuti in questo senso. Ad esempio una tintoria che è stata coinvolta anche dagli scioperi, la Gm, una tintoria Italiana, una delle più grandi e storiche che aveva anche una piccola succursale, aveva la Sede Centrale Storica proprio dentro il tessuto residenziale come ce ne sono tantissime altre a Prato. Cioè tutto un tessuto strano e particolare perché la fabbrica è dentro la città proprio. Lì dove è cosi c’è anche diciamo un fenomeno di cittadinismo o comunque proteste dei residenti contro l’inquinamento per richiedere le chiusure o comunque più controlli o cose di queste tipo. Anche su alcune stamperie. A volte anche dei controlli che poi arrivano a scoprire il lavoro nero, lavoro grigio, problemi di sicurezza etc. nascono da segnalazioni di cittadini che segnalano per diciamo l’effetto che hanno sull’aria, attraverso raccolte firme o aggrappandosi al politico di turno.

 

Volevamo chiederti anche alcune cose relative ad un altro ambito, quello relativo al consumo, tu prima ci raccontavi una situazione drammatica, di migliaia di nuovi poveri a causa di questa situazione qui. Quando parlo di ambito di consumo mi riferisco ad affitto, bollette, cibo etc.. Infatti abbiamo visto che anche voi state facendo la raccolta alimentare. Rispetto a questo dunque che tipo di approccio avete? Che tipo di nuovi bisogni emergono tra chi fino d ora lottava nell’ambito salariale soprattutto?

Diciamo che questa è la parte più complessa, nel senso che comunque tutta questa situazione, secondo noi, per questa composizione dell’operaio immigrato che lavora nel comparto tessile di cui si parlava, sconvolge tante cose. Perché anche in virtù di questa esclusione dal welfare che raccontavo prima, che rappresenta una norma accettata per queste persone, e che quindi non crea nemmeno un’aspettativa di potervici partecipare. Quindi mette in crisi una logica con cui hanno vissuto fino ad oggi per cui con il lavoro, anche se in condizioni tremende, a Prato, in questa filiera e non solo, ti garantisce la possibilità di pagare la stanza, perché comunque per questa logica accetti di vivere in tanti in una stanza, e riesci comunque a mandare dei soldi al paese e di sopravvivere. Adesso invece, questo vale anche per il pratese o il cinese, questa mentalità lavorista, storicamente insita al tessuto sociale pratese, è messa in crisi: questa logica non funziona più ma non ce n’è nemmeno un’altra capace di sostituirla. Questa composizione non si è nemmeno mai affidata al sistema welfaristico per il suo percorso di integrazione, mentre invece questo bisogno adesso emerge, il buono spesa lo vorrebbero, ne hanno bisogno estremo, perché anche la loro disponibilità allo sfruttamento in cambio di un salario lavorando 12 ore ora non lo possono fare più.
Quindi c’è questo dato nuovo molto rilevante sull’aspetto del welfare in generale e sull’esclusione dettata dalla questione permessi e quindi residenza. Ovviamente non è tutto uniformato a questa condizione, c’è una stratificazione, ma diciamo che è una condizione maggioritaria.
Ad esempio invece nel settore della logistica ritroviamo la stessa composizione, ma ad un livello di “integrazione” lavorativa di un gradino superiore, per cui nonostante ci sia lo stesso livello di sfruttamento etc. ha, con le lotte del mondo della logistica negli anni in Italia, guadagnato condizioni salariali e contrattuali migliori degli operai tessili della filiera cinese, che in parte adesso li tutelano maggiormente. Sulla questione degli affitti invece, vivendo in 5-6-7 persone in un alloggio comporta il pagamento spesso di cifre irrisorie rispetto al mercato degli affitti standard, 120-150 euro, mentre per chi ha una famiglia a Prato e quindi vive insieme ad essa ha un intero affitto da pagare, e adesso è portato ad essere tra coloro che non pagano più il proprietario, ed è una condizione nuova comunque, per la mentalità di cui parlavamo prima.
Questo ovviamente rappresenta un campo di possibilità, infatti stiamo cercando di far funzionare la sede del sindacato, che è nel quartiere “soccorso”, uno dei più popolati da tanti di questi operai che poi si sono sindacalizzati col SI COBAS. C’è una componente anche italiana, soprattutto di anziani, non sono case popolari ma più un quartiere dormitorio.
Ecco in questo contesto far funzionare la sede per aprire un intervento anche su questi altri campi legati al reddito, al welfare e alla casa. Oggi siamo in una fase preliminare a questo orizzonte. In questo senso la raccolta alimentare è stato un modo per iniziare a far porre a questa collettività questi bisogni in un ottica di comunità di lotta che se fino ad ora non ha mai pensato a portare la lotta su questo terreno diciamo della riproduzione, nonostante sull’ambito lavorativo abbia comunque nell’ultimo anno e mezzo capovolto una situazione per lo meno d’invisibilità. Sta quindi maturando con loro quindi questo bisogno collettivo e non individuale, un bisogno di lottare per questo. La nostra presenza insieme a quella degli altri lavoratori, organizzata intorno alla raccolta alimentare, ci ha permesso di costruire una sorta di sportello informale, facendo i conti sull’assenza di una domanda di lotta esplicita ed immediata su questi temi qui, ma più un bisogno di condividere, di informarsi, di riconoscersi in questi nuovi problemi con una collettività.
Noi dal canto nostro stiamo facendo lo sforzo di non bruciare questo passaggio di crescita collettiva in una proposta organizzativa immediata, piuttosto di agevolarne il processo.

 

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