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Fino all’ultima sillaba del tempo segnato?


Ne abbiamo approfittato anche per fare un’intervista a Sandro Mezzadra su alcuni spunti forniti dall’editoriale:

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1. Proposta dall’interno delle acampadas spagnole, la giornata del 15 ottobre si sta configurando come un importante appuntamento di lotta a livello europeo e globale. Ci prepariamo a viverlo mentre l’onda di indignazione sollevata dalla crisi economica è arrivata a investire Wall Street e dopo mesi di mobilitazioni che, per quel che ci riguarda più da vicino, hanno segnato in profondità l’area euro-mediterranea. Sia chiaro: al 15 ottobre è bene guardare con occhi scevri da ogni mitologia riguardo alla sua possibile natura di “evento decisivo”. Proprio la dinamica delle lotte degli ultimi mesi ha mostrato spesso una sconnessione tra i movimenti reali e la convocazione di scadenze che si volevano “ricompositive”, come ad esempio gli scioperi generali in Italia e in Grecia. Mentre altrettanto spesso veri e propri “eventi” si sono prodotti in modi imprevedibili, che si tratta di indagare e comprendere. Il 15 ottobre, colto nella sua dinamica transnazionale, costituisce anche un’occasione per approfondire la discussione su questi problemi, che sono stati al centro dei recenti meeting di Rio (24-26 agosto), di Barcellona (15-18 settembre) e in Tunisia (29 settembre – 2 ottobre). Tutte le forme e le esperienze organizzate che abbiamo conosciuto negli ultimi anni sembrano spiazzate di fronte a movimenti come quello spagnolo degli indignados, ai riots londinesi di quest’estate o alla campagna Occupy Wall Street, per limitarci a tre esempi. Al tempo stesso, l’insieme delle pratiche e delle lotte che si stanno producendo dentro la crisi è connotato da elementi di radicalità che rendono problematica la loro traduzione sul terreno dell’“opinione pubblica” e della “società civile”, secondo modalità che abbiamo ampiamente conosciuto nella stagione del movimento “no global”.

Ma leggere, preparare e vivere il 15 ottobre attraverso la sua dimensione transnazionale consente anche di criticare il peculiare strabismo che caratterizza la discussione sulla crisi in Italia. La sovrapposizione della lunga agonia del berlusconismo ai tempi incalzanti della crisi economica e finanziaria globale produce una serie di distorsioni e illusioni ottiche che è tempo di mettere a tema. Non si tratta soltanto di una confusione di piani per cui sembra spesso, leggendo Repubblica o ascoltando le dichiarazioni di esponenti della sinistra, che Berlusconi e il suo governo siano responsabili di una crisi che da quattro anni sta terremotando il pianeta. Il fatto è che la stessa dimensione “politica” della crisi viene diffusamente identificata con le contorsioni crepuscolari del berlusconismo, ponendo ai margini della discussione pubblica la profondità con cui la crisi stessa sta investendo le categorie e gli istituti fondamentali con cui la politica moderna è stata pensata e articolata. Su questo terreno, presidiato dai volti severi e “responsabili” di Bagnasco e Napolitano, Draghi e Marcegaglia, si preparano del resto “vie d’uscita” dal berlusconismo (e dunque dalla crisi) che rientrano a tutti gli effetti nel vero problema di fronte a cui si trovano, e sempre più si troveranno nei prossimi mesi, le lotte e le mobilitazioni: ovvero il tentativo di determinare una soluzione neo-liberale di una crisi che è anche crisi del neo-liberalismo; di garantire la continuità di un sistema in crisi, e dunque in ultima analisi la continuità della crisi. Vengono in mente le parole di Macbeth: “domani, e domani, e domani, s’inerpica col suo piccolo passo su su, un giorno dopo l’altro, fino all’ultima sillaba del tempo segnato”. A noi interessa ragionare su un altro tempo che le lotte dentro la crisi possono aprire. Il 15 ottobre sarà anche in Italia una giornata importante se contribuirà a fare avanzare e a esemplificare praticamente questo ragionamento.

2. Mentre lo spettro del “double dip”, dell’avvitarsi della crisi in una spirale recessiva, si aggira per le piazze finanziarie globali, è in particolare in Europa che alcune delle sue implicazioni vengono in primo piano. Tra crisi dei “debiti sovrani”, indebolimento dell’euro e minaccia di paralisi del sistema creditizio, un mutamento profondo nell’ordine del discorso delle grandi agenzie capitalistiche (dalla Banca centrale europea al Fondo monetario internazionale) appare evidente. Sotto il profilo storico, il capitalismo si è sempre legittimato sulla base della sua capacità di incrementare la ricchezza sociale e di allargare la scala della sua distribuzione. Si tratta di un dispositivo di legittimazione che ha conosciuto le forme più diverse, che ovviamente si possono e si debbono criticare. La critica dell’ideologia ha anzi avuto qui uno dei terreni privilegiati di esercizio. Ma resta il fatto che, dall’apologia della divisione del lavoro proposta da Adam Smith fino alle giustificazioni neo-liberali delle privatizzazioni come misure necessarie per minimizzare gli sprechi di risorse scarse e ottimizzarne la distribuzione, il capitalismo si è sempre legittimato attraverso un riferimento al “benessere”.

È la continuità di questa storia secolare che sembra essersi spezzata. Le misure di austerity, lo smantellamento dei sistemi contrattuali e dei sistemi di protezione sociale, le privatizzazioni che vengono oggi imposte a Paesi come la Grecia e l’Italia trovano la loro giustificazione, da parte sia di chi le “raccomanda” sia di chi le “implementa”, esclusivamente in criteri tecnici di contabilità a breve termine. I processi di finanziarizzazione del capitalismo, che abbiamo tante volte criticamente indagato, mostrano qui, nella crisi, la loro natura più sinistra. Quella che chiamavamo in precedenza un’uscita neo-liberale dalla crisi del neo-liberalismo ha come sua condizione fondamentale l’intensificazione della dinamica attraverso cui beni materiali e immateriali, la vita e il lavoro di intere popolazioni vengono “risucchiati” e quotati all’interno dei mercati finanziari globali. È questa la forma contemporanea della distruzione delle “forze produttive” come via d’uscita dalla crisi. Il fatto è, tuttavia, che essa si presenta altresì come caratteristica eminente dello stesso “sviluppo”, di processi di accumulazione e valorizzazione del capitale che tendono sempre più a separarsi dalle ragioni della vita e del “benessere” di intere popolazioni.

Chiunque abbia un minimo di familiarità con la storia del costituzionalismo e delle costituzioni moderne, o meglio chiunque ne incardini l’analisi sul terreno dei rapporti sociali corrispondenti al modo di produzione capitalistico, si rende agevolmente conto del fatto che la dinamica della crisi pone così problemi politici di enorme rilievo. Semplificando brutalmente, la storia del costituzionalismo è la storia delle mediazioni costruite prima attorno ai rapporti mercantili di scambio (costituzioni liberali) e poi attorno alla dialettica tra capitale e lavoro (costituzioni democratiche). Riesce davvero difficile immaginare quali mediazioni possano essere costruite attorno ai processi di finanziarizzazione che vivono al cuore del capitalismo contemporaneo. Non vogliamo affermare che sia impossibile, ci limitiamo a dire che è molto difficile. E soprattutto che di una riflessione su questi problemi non scorgiamo traccia da noi, nelle orazioni quotidianamente recitate a sinistra a sostegno di una Costituzione ormai ridotta a feticcio. D’altro canto, ogni realistica indagine sullo stato di categorie come sovranità, rappresentanza e democrazia non può che muovere oggi dal sobrio riconoscimento del fatto che i mercati finanziari globali sono divenuti sedi eminenti di produzione di autonoma politicità e legalità. Il comando esercitato dal capitale finanziario tende sempre più a saltare le mediazioni istituzionali delle moderne democrazie e a imporsi attraverso procedure di commissariamento (procedure che le dottrine politiche e giuridiche, da Jean Bodin a Carl Schmitt, associano da sempre non alla democrazia ma a una specifica forma di dittatura). Queste modalità di esercizio del comando finanziario, di cui la crisi ci mostra l’inusitata violenza, spaccano le costituzioni e decentrano radicalmente la rappresentanza politica. E si fonda sul ricatto reso possibile dal fatto che le garanzie in ultima istanza del godimento di diritti essenziali (dalla casa alla salute) e degli stessi salari dipendono in modo ormai irreversibile dalle dinamiche e dalle continue turbolenze dei mercati finanziari.

3. Ci si dirà che questi problemi, lungi dall’essere ignorati, sono ad esempio stati al centro della discussione che si è aperta a sinistra sulla lettera “segreta” di Trichet e Draghi al governo italiano. A noi pare tuttavia che continui a prevalere la tendenza a esecrare questi sviluppi, secondo modalità moraleggianti che non sono estranee a molti movimenti contemporanei, e a cercare rassicuranti soluzioni nel “ritorno” alle categorie del passato: la riconquista della sovranità nazionale (magari anche di quella monetaria) da giocare contro la finanza globale, un nuovo equilibrio tra economia “reale” ed economia finanziaria, la “stabilizzazione” dei precari, l’iniezione di qualche dose di “partecipazione” per rivitalizzare il corpo abulico della democrazia e delle sue istituzioni parlamentari. Contro questa tendenza, si tratta di operare una sorta di tabula rasa delle certezze che abbiamo ereditato dal passato. A partire dalla convinzione che le trasformazioni del capitalismo che abbiamo schematicamente richiamato abbiano caratteri strutturali ed esibiscano elementi di irreversibilità, abbiamo bisogno di spazi in cui una nuova forza-invenzione ri-orienti tanto le pratiche teoriche quanto le pratiche politiche. La consapevolezza della separazione crescente tra le ragioni del capitale e quella della vita e del benessere di intere popolazioni ci pare diffusa a livello di massa anche in Italia, dove si è ad esempio espressa nei referendum di giugno e continua a sostenere le lotte in Val di Susa. Questa consapevolezza va consolidata politicamente e perfino intelligentemente forzata, affinché l’indignazione che ne deriva sia svolta su un terreno direttamente costituente.

Porsi in una prospettiva costituente significa cominciare a pensare e ad agire oltre la costituzione vigente e i suoi criteri di legalità e legittimità. Elementi materiali di programma, attorno a quello che abbiamo chiamato un nuovo “welfare del comune”, devono cominciare a essere coniugati con l’immaginazione di nuovi dispositivi istituzionali e costituzionali, di una rete di contro-poteri capaci intanto di fissare un rapporto di forza con il capitale finanziario. Lo stesso spettro del default, strumento eminente del ricatto esercitato da quest’ultimo, deve cessare di fare paura. Come abbiamo detto più volte, quello spettro oggi garantisce un decorso della crisi e del suo management “fino all’ultima sillaba del tempo segnato”, per riprendere le parole di Macbeth. Parlare di “diritto all’insolvenza” ed “europeizzazione del default” significa rifiutare questa ineluttabilità, lavorare per costruire le condizioni di una soluzione di continuità nel decorso della crisi e per forzare in senso costituente la “ri-negoziazione” necessaria dopo ogni default. È dentro lo spazio europeo ed euro-mediterraneo che tutto ciò può cominciare a essere sperimentato. Il 15 ottobre può essere un momento importante in questo percorso, ma è nella quotidianità delle lotte che la tensione costituente deve vivere e crescere.

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