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Appunti libanesi

La storia di Downtown [il centro-città] sembra slegata da quella del resto della città: Downtown venne infatti inserita nel processo di ricostruzione post-guerra civile immaginato dall’allora primo ministro Rafiq Hariri. La manna finanziaria dei petro-dollari sauditi e degli stati del Golfo servì allo stato libanese, tramite la società fondiaria “Solidere”, a trasformare [stuprare] completamente il centro storico della capitale: l’abbattimento di oltre novecento edifici storici, portatori di quella miscela architettonica arabo-ottomana-franco-italiana, fece spazio alla costruzione di una città-vetrina, che indebitò fino al collo il Libano (il debito pubblico crebbe a dismisura negli anni ’90 e 2000, sotto i vari governi Hariri), politica ben conosciuta, ahinoi, anche in Italia [vedi la Torino olimpica di Chiamparino, ma anche Milano expo 2015]1. Anche oggi sembra che la bolla immobiliare non si sia ancora fermata: alzi gli occhi al cielo e quello che vedi sono gru immense e grattacieli/palazzoni in costruzione ovunque. La presenza di SUV e macchinoni americani è un altro aspetto della vita libanese, del centro ma non solo: l’ostentazione della ricchezza, accumulata dalle rendite del lavoro libanese nei paesi petroliferi del Golfo e/o con operazioni speculative, e l’“apparire ricchi” sembrano essere centrali nell’immaginario di molti libanesi, educati nelle migliori scuole americane/occidentali e portatori dei valori del capitalismo occidentale. Figura principe di questa pratica fu lo stesso Rafiq Hariri, il Berlusconi libanese, il self-made man che accumulò una ricchezza sproporzionata fuggendo in Arabia Saudita durante la guerra civile, e che divenne poi mediatore per gli interessi sauditi durante gli Accordi di Ta’if del 1989: lui stesso, per conto saudita, promosse fondazioni per assegnare migliaia di borse di studio per studiare all’estero, col preciso scopo di allontanare i giovani delle comunità mussulmane dall’orbita dei partiti laici e panarabi [ma anche per fargli recuperare il divario educativo che li separava dai figli della borghesia cristiana], facendo loro conoscere i benefici dello sviluppo capitalista occidentale.

Uscendo però dal centro quello vero, la Downtown di Beirut, sede dei palazzi governativi, ci s’imbatte in una miriade di quartieri portatori di una storia che non sembra avere niente a che vedere con la modernità posticcia del centro. Attaccato ad esso, passati al di là del ponte Fouad Chehab, ci si trova immersi in una parte di città che, per simbolismo ed urbanistica, differisce completamente da Downtown: si entra nei quartieri a maggioranza sciita di Basta, Bachoura e Moussaitbeh. Qui l’immaginario miliziano di Amal è molto presente: bandiere verdi della milizia di Berri sventolano ovunque, ma anche foto di martiri Hezbollah morti durante il conflitto del 2006 contro Israele. Non è Dahye, il quartiere-roccaforte di Hezbollah nella periferia sud di Beirut, ma le immagini di Nasrallah sono ovunque, insieme con quelle di Musa Sadr [fondatore Amal] e di Nabih Berri [attuale segretario di Amal]. I baracchini che vendono il caffè agli angoli delle strade, residui dei checkpoint miliziani della guerra civile, sono affiancati da bandiere nere con scritta rossa recitante “Ya Hussein” [Oh Hussein!], primo martire dello sciismo, morto combattendo nella battaglia di Kerbala contro le truppe del califfo ommayade, considerato usurpatore.

Anche l’estetica urbana è totalmente differente: là in centro-città grattacieli luccicanti e vetrine di alta moda, qui muri maciullati dalla storia e intonaci disfatti, là l’ostentazione della ricchezza e la plasticità dei viali, qui palazzi sbiaditi e serrande abbassate, arrugginite, perforate. La vita di questi quartieri sembra quella dei piccoli centri cittadini meridionali italiani: dall’artigiano che impaglia le sedie a quello del grossista di vestiti, passando per il caffé a quello che vende felafel e manouche, tutti sembrano conoscersi. Gli stessi abitanti di questi quartieri hanno un non-so-che di diverso da quelli che si vedono in giro per Downtown: i capelli leccati dalla brillantina e la barba fatta lasciano spazio a uomini barbuti e dalla pelle olivastra sullo stile iraniano, le donne in tailleur agghindate di tutto punto con il labbro appena rifatto sono sostituite da bellezze col capo velato con chador e hijab, che non ne nascondono i bellissimi tratti (a me sembrano sempre più iraniane che libanesi ma sarà la mia forma-mentis etnocentrica che mi fa associare la donna che incontro nel quartiere sciita all’Iran, e anche l’uomo, più che al Libano).

 

La presenza di più di un milione di rifugiati siriani che sono fuggiti dal conflitto è un altro aspetto di Beirut: se per anni il ruolo siriano rivestito in Libano fu quello di un padre che accudisce e controlla il figlio più piccolo, a volte punendolo, oggi i rapporti di forza generati dalla guerra sembrano aver capovolto questa dinamica. È sempre più la Siria che ha bisogno del Libano, e non più il contrario.

Non si tratta solo dell’accoglienza dei rifugiati ma anche dell’inserimento all’interno del mercato del lavoro (in nero e senza diritti) e del razzismo che questa guerra tra poveri scatena: basta vedere i tantissimi siriani seduti in attesa di un lavoro, dei camion che cercano braccia per costruire nuovi palazzoni, delle centinaia di ragazzini lustra-scarpe sul lungomare, delle donne che fanno l’elemosina ai semafori portando in braccio i loro figli neonati…

 

Ma la Siria, e il suo regime, necessitano ancor di più dell’apporto fondamentale libanese nel combattere la guerra: infatti l’entrata sul suolo siriano dell’Hezbollah, il Partito di Dio, sembra aver capovolto le sorti del conflitto, spostando l’ago della bilancia a favore dell’Esercito Arabo Siriano [ASA] nei confronti dell’autoproclamatosi Free Syrian Army [FSA]. Dalla battaglia di Qusayr nell’aprile del 2013 l’apporto del movimento libanese è stato sempre più decisivo nel favorire le vittorie dell’ASA. Questo ha generato molte critiche, sia interne al movimento, che sembra aver preso questa decisione sotto pressione iraniana nonostante la non-unanimità, sia interne al Libano stesso, dove la firma della dichiarazione di Baabda, una sorta di patto libanese di neutralità negli affari/conflitti siriani firmato nel 2012 da tutti i partiti libanesi, pare aver de-legittimato agli occhi di molti il Partito di Dio: nonostante a seguito del conflitto con Israele nel 2006 l’Hezbollah acquistò un consenso trasversale nella società libanese [c’è addirittura chi parla dell’80% di appoggio della popolazione libanese2] oggi quel consenso sembra eroso, e/o comunque venuto meno.

 

Qui la contraddizione tra sostenitori della decisione del Partito e non si riflette nelle amicizie che ho costruito in questo mese e poco più in cui mi trovo qui: da una parte amici siriani, dall’altra libanesi, ognuno ha la sua opinione sul conflitto in Siria e sull’intervento dell’Hezbollah a fianco di Assad, che riflette anche la storia personale e famigliare di ognuno di loro. I siriani, quelli più direttamente coinvolti (emotivamente, visto che le loro famiglie si trovano ancora in Siria), sostengono duramente le ragioni della rivolta, e di quella che loro vedono ancora come una processo rivoluzionario da inserire all’interno del quadro delle primavere arabe: per loro la presenza di elementi di al-Qaeda sarebbe marginale (parlano del 10% dei ribelli siriani), ma soprattutto sarebbe il risultato di una strategia a lungo termine del regime per delegittimare ed infiltrare la legittima rivolta. Ai loro occhi, e secondo alcuni report che mi hanno fatto leggere, il regime di Assad sarebbe alleato di questo fantomatico ISIS [Esercito Islamico dell’Iraq e del Levante, che loro chiamano DAESH, acronimo di ad-Dawla al-Islāmiyya fi al-‘Irāq wa-sh-Shām): l’alleanza Assad-ISIS sarebbe stata costruita negli anni dell’invasione americana dell’Iraq del 2003, in chiave destabilizzatrice della presenza statunitense in Medio Oriente. Dunque Assad intratterrebbe rapporti con questa formazione e la userebbe come “chiave di legittimazione” della repressione agli occhi del mondo, delegittimando così la presenza di una rivoluzione e ponendola su un piano di “lotta al terrorismo”3. Benché mi risulti difficile comprendere queste dinamiche di realpolitik, e nonostante io abbia sempre considerato il regime di Assad un arcinemico dell’islamismo radicale (vedi rivolta a guida dei Fratelli Mussulmani di Hama nel 1982 repressa nel sangue4), i miei amici siriani ne sono talmente convinti che cercare di contraddirli su questo punto risulta offensivo nei confronti della loro intelligenza: prova di questa alleanza sarebbe il disconoscimento dell’Al-Qaeda ufficiale di al-Zawahiri, che ha nominato il fronte Nusra quale legittimo rappresentante di Qaeda in Siria, e la mancanza di bombardamenti da parte del regime nelle zone controllate dall’ISIS, nonché la conclusione di accordi “commerciali” per la vendita di petrolio5. Anche qui la mia ignoranza nel comprendere una (presunta) politica “realista” [in poche parole la massimizzazione del proprio interesse] di Assad6 nei confronti dei qaedisti mi rende dubbioso sul fatto che estremisti sunniti, come appunto ISIS, possano “accordarsi” con coloro che chiamano “rafida” ovvero i disertori dell’Islam, gli sciiti di cui Assad è un esponente (sciismo alawita): ma poi accordarsi a che pro? Lo scopo finale di ISIS sarebbe garantirsi questo fantomatico “Stato Islamico del Levante e dell’Iraq” in una possibile(?) futura divisione della Siria su basi etnico-confessionali, e quello di Assad, come già detto, sarebbe quello di indebolire l’opposizione laico moderata, presentandosi come il baluardo della “lotta al terrorismo”. I miei dubbi permangono, e le continue domande agli amici siriani rimangono senza una chiara risposta, benché essi continuino a rimanere sulle loro posizioni: essi sono arrivati a citarmi situazioni sul campo vissute da amici e/o conoscenti in cui si palesava questo rapporto di alleanza tra ISIS-ASA. Benché tutto questo mi rimembri fandonie tipiche da serie televisiva (come in Homeland con l’alleanza Hezbollah-Qaeda, robe mai viste!), le interviste rilasciate da Mohammed Habasch, professore di scienze islamiche all’università di Damasco ed ex membro del parlamento siriano, sembrano avvalorare la loro tesi: mentre lui svolgeva il ruolo di responsabile di un progetto teso a reintegrare gli estremisti tornati dall’Iraq e detenuti a Saydnaya, a maggio 2011 il regime liberò, nell’ambito di un’amnistia, personaggi divenuti poi i leader dei principali gruppi estremisti sunniti7 (vedi Zahran Alloush8). Tralasciando ancora una volta i dubbi su queste fonti, io considero che in una guerra il nemico del tuo nemico è tuo amico, ma non per questo un alleato da finanziare e proteggere: nella loro visione invece Assad, insieme col fedele alleato Iran, sarebbero i manovratori di ISIS, semplici pupazzi&burattini.

photolib3Per quanto riguarda gli amici libanesi, essi hanno una posizione più chiara e comprensibile dal punto di vista dei “giochi delle alleanze” e dei rapporti di forza: di fede sciita, essi riconoscono, chi più chi meno, la legittimità dell’intervento Hezbollah in Siria. Pur non essendo difensori del regime di Assad, la mancanza di un’opposizione chiara e la paura per una deriva islamista della Siria (vedi i gruppi qaedisti che si combattono tra loro) gli fa posizionare verso quella che definiscono una difesa dall’infiltrazione jihadista in Libano. Questo sarebbe il vero motivo dietro l’intervento dell’Hezbollah, e non la paura di perdere un alleato fondamentale come Assad, e quindi le vie di transito siriane per i loro arsenali. Per loro Nasrallah e i suoi starebbero difendendo il paese dei cedri da un bagno di sangue perpetrato e orchestrato dalle potenze avverse all’Iran e quindi all’Hezbollah, che avrebbe lo scopo di indebolire l’asse Iran-Siria-Hezbollah, e di conseguenza il Libano9. Cosi come starebbero difendendo la Siria, diventata campo di battaglia della jihad globale: quando te lo dicono ti sottolineano come la Siria sia intervenuta negli affari interni in Libano dagli anni ’70, e di come ora siano i libanesi a “dare una mano” ai vicini siriani, che dovrebbero esserne grati, e non invece continuare a lamentarsi di ciò.

Alla domanda “ma se il Partito si fosse fatto i fatti propri evitando di andare in Siria si sarebbero forse evitate le autobombe di nuovo a Beirut?” la risposta è stata chiara e concisa: “indipendentemente dall’intervento i ribelli siriani l’avevano “promessa” a Nasrallah&Co., prima Assad poi Hezbollah e poi cadrà l’Iran10”. Quello che ho notato nelle loro riflessioni è stata la mancanza di ideologismo e retorica nelle loro risposte, nonostante in qualcuno possa essere trasparita: la giustificazione dell’intervento starebbe, nella loro opinione, anche nella difesa della posizione di forza acquisita dal Partito, che ha permesso al Libano, ai loro occhi, una stabilità che forse, senza la potenza militare e politica di Hezbollah, non ci sarebbe stata. Mi hanno fatto più volte notare come la posizione di Hezbollah sulle primavere arabe fosse stata di apertura, e di come anche nel caso di quella siriana Nasrallah abbia espresso, inizialmente, un’opinione favorevole (sempre che le aperture fossero avvenute sotto l’ombrello di Assad gli ho fatto notare io…)11: nel perseguire anch’esso, il Partito di Dio, una politica “realista” ha deciso dunque di intervenire quando la situazione sembrava essere sfuggita di mano, giustificando l’intervento come la difesa della Siria da un complotto sionista-americano-saudita, e di prevenzione dall’infiltrazione di jihadisti in Libano12.

 

Se venendo in Libano pensavo che mi si sarebbero potute chiarire le idee sulle dinamiche del conflitto siriano e sulle relazioni internazionali dell’Hezbollah, ho invece capito come sia difficile sbrogliare, come si dice in gergo, il bandolo della matassa.

Sicuramente la decisione del Partito di Dio di combattere al fianco del regime siriano può essere spiegata ricorrendo al livello sistemico: l’interpretazione della rivolta siriana come un tentativo pilotato da potenze esterne (Arabia Saudita) di indebolimento della posizione iraniana (e dunque di Hezbollah), che avrebbe perduto un alleato fondamentale come Assad, ha fatto propendere il partito per la decisione di intervenire a difesa dell’Asse della Resistenza. Nonostante le divergenze interne, la forte leadership di Nasrallah ha canalizzato su di sé tutte le critiche, continuando a far sentire il proprio peso all’interno delle relazioni internazionali dell’area e rimanendone un attore fondamentale.

Quel che è certo è che, ancora oggi, nelle conduzione del conflitto siriano, tutte le parti, al di là delle implicazioni ideologiche, cerchino di massimizzare il proprio interesse, prendendo a volte decisioni impopolari col solo scopo di ribaltare i rapporti di forza sul campo in un tipico atteggiamento machiavellico di realpolitik.

 

l. c.

(un ringraziamento a IA e agli amici sopracitati per gli spunti di riflessioni)

 

Note

1Sul Libano vedi “Il Libano Contemporaneo. Storia e Società”, Georges Corm, 2006

4Vedi “Pity The Nation. Lebanon at war” di Robert Fisk, la parte dedicata alla repressione ad Hama, dove Fisk era uno dei pochi reporter presenti sul campo, vedi anche http://www.theguardian.com/theguardian/from-the-archive-blog/2011/aug/01/hama-syria-massacre-1982-archive

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