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La settimana rossa in Toscana

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La Settimana rossa fu un moto a carattere popolare, antimilitarista e insurrezionale che attraversò l’Italia dal 7 al 13 giugno 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, il Paese, allora, sembrò sull’orlo di una rivoluzione sociale.

Durante tutta l’età giolittiana l’agitazione antimilitarista fu al centro delle principali attività dei partiti e dei movimenti della estrema sinistra. L’antimilitarismo unì in un unico fronte quelle forze sovversive, dai repubblicani ai libertari, dai socialisti ai sindacalisti rivoluzionari, che all’epoca erano profondamente divise per contrasti ideologici e programmi politici. La critica al militarismo, insieme all’anticlericalismo e alla profonda avversione alla monarchia dei Savoia, fu alla base di una stagione unitaria ed eccezionale di lotte radicali nella storia della sinistra italiana. La monarchia dei Savoia aveva costruito la propria egemonia durante il processo di unificazione dell’Italia proprio utilizzando le forze armate. L’esercito si era distinto nella battaglia al banditismo nel Mezzogiorno d’Italia, nella repressione dei moti popolari in Sicilia e in Lunigiana nel 1893-1894 e in quelli per il “caro-pane” del 1898. Nei primi anni del Novecento l’esercito si era ancora reso protagonista, inoltre, per alcune efferate stragi di contadini e operai durante scioperi e proteste. Per tutte le forze della sinistra i militari rappresentavano uno dei maggiori ostacoli alla rivoluzione sociale e all’avvento di una nuova società. Ancora di più, le gerarchie militari si erano fatte conoscere all’epoca per i disastri delle imprese coloniali e per una serie di scandali finanziari e di corruzione che avevano fortemente minato la loro credibilità. La recente Guerra italo-turca del 1911-1912 aveva gettato benzina sul fuoco, non solo per la sua conduzione e l’altro numero di vittime – che aveva causato tra la popolazione e tra gli stessi soldati italiani – ma anche per la netta opposizione di una parte consistente delle forze popolari che vedevano in questa guerra l’ennesima riprova dell’aggressività e voracità del capitalismo italiano. In tutta Italia, da parte dei leader della sinistra rivoluzionaria e anarchica, si erano lanciate parole d’ordine di fuoco contro la guerra e si incitavano i militari alla diserzione e al boicottaggio. Il soldato Augusto Masetti, durante una rassegna militare sparò, in segno di ribellione contro l’impresa libica, ad un alto ufficiale ferendolo gravemente. Masetti fu subito preso dal fronte antimilitarista a simbolo ed eroe. Intorno al suo nome i libertari, le componenti repubblicane, socialiste e sindacaliste rivoluzionarie che avevano preso le distanze dagli esponenti politici che approvarono l’invasione della Libia – come il deputato socialista Leonida Bissolati –, avevano avviato una campagna di generale mobilitazione. La domenica del 7 giugno 1914 – festa dello Statuto, giorno caro all’Italia monarchica e liberale – in tutta Italia furono convocate congiuntamente dalle forze dell’estrema sinistra centinaia di manifestazioni antimilitariste. Le parole d’ordine erano semplici ed efficaci: libertà per Masetti , solidarietà alle vittime delle ingiustizie militari e la soppressione delle famigerate compagnie di disciplina. Il ministro Salandra, all’epoca capo gabinetto, vietò tutte le manifestazioni molte delle quali furono comunque svolte. Ad Ancona, al termine di un infuocato comizio in forma privata presso la sede del PRI, chiamata comunemente “Villa rossa”, i dimostranti tentarono di forzare i cordoni della polizia e di penetrare nell’attigua Piazza Roma, dove la banda militare stava intonando la “Marcia reale”. Seguirono dei violenti scontri tra le forze dell’ordine e i dimostranti nel corso dei quali alcuni carabinieri, presi dal panico, aprirono il fuoco indiscriminatamente sui manifestanti uccidendone tre, un libertario e due repubblicani e ferendone molti altri. La notizia dell’eccidio si propagò rapidamente in tutta Italia. Il giorno seguente in molte località fu proclamato lo sciopero generale e iniziarono i moti della cosiddetta Settimana rossa, che ben presto si allargano a tutta la Romagna e alle Marche. L’agitazione, in molte località, prenderà un aspetto d’insurrezione spontanea e popolare, coinvolgendo centri urbani importanti come Genova, Milano, Parma, Firenze, Napoli, Bari e Roma. In queste giornate vi furono assalti agli edifici pubblici, saccheggi, sabotaggi delle linee ferroviarie e ripetuti scontri con le forze dell’ordine. Complessivamente vi furono 13 morti, uno tra le forze dell’ordine, molte centinaia di feriti e diverse migliaia d’arresti tra i dimostranti. In Toscana lo sciopero si affermò a Firenze, Pisa, Livorno, Massa, Carrara, Viareggio, Pietrasanta e Pescia mentre altre province come Grosseto, Arezzo o città come Lucca furono toccate solo marginalmente dall’agitazione. Gli incidenti più gravi accaddero a Firenze dopo il comizio in Piazza Indipendenza quando un consistente gruppo di scioperanti si diresse verso il centro città. Nei pressi della Manifattura tabacchi i dimostranti venuti a contatto con alcuni agenti di Pubblica sicurezza tentarono di disarmarli e nel parapiglia venne ucciso dalle guardie un operaio mentre molti altri rimasero feriti. La città nelle ore successive vide moltiplicarsi gli incidenti causati dai continui scontri tra operai e forze dell’ordine che con la forza solo a tarda notte riportare la calma in città. Sotto la pressione della direzione del PSI, la Confederazione generale del lavoro (CGdL), il maggior sindacato italiano, proclamò uno sciopero generale di protesta per il 9 giugno, ottenendo però che modi e tempi dell’astensione dal lavoro rispondessero alle direttive approvate dal Consiglio nazionale nell’aprile 1913, le quali circoscrivevano ad un limite massimo di 48 ore la durata di un eventuale sciopero generale. Questo modo di condurre l’agitazione attirò sulla dirigenza riformista della Confederazione l’accusa di diserzione della causa proletaria da parte di molti esponenti della sinistra socialista, primo fra tutti Benito Mussolini, in quel frangente direttore dell’«Avanti!». Fu soprattutto in Romagna, e in particolare nel Ravennate, dove più forte era il radicamento delle organizzazioni politiche e sindacali popolari e dove maggiore era il grado di politicizzazione delle masse e maggiore, che lo sciopero prese i contorni di una vera e propria rivolta, al punto che il presidente del Consiglio Antonio Salandra, intervenendo il 12 giugno alla Camera, avrebbe addirittura sostenuto l’esistenza di un “concerto criminoso” all’origine delle sollevazioni popolari romagnole e marchigiane, un autentico piano rivoluzionario volto al sovvertimento delle istituzioni monarchiche e statali.

Le organizzazioni della sinistra dal PSI alla CGdL agli anarchici dell’USI non riuscirono però a dare un orientamento e uno sbocco politico alla protesta. La direzione del PSI, pur avendo lavorato per portare la CGdL alla decisione dello sciopero generale, che in molte località era già stato indetto dalle Camere del lavoro – soprattutto quelle a guida sindacalista rivoluzionaria –, non volle assumersi la responsabilità politica di guidare il moto di protesta. Il 10 giugno la CGdL tramite il suo segretario Rinaldo Rigola, diramò l’ordine di cessazione dell’agitazione mentre lo stesso giorno il Sindacato dei ferrovieri proclamava l’astensione generalizzata dal lavoro. Le manifestazioni terminarono tra il 12 e 14 giugno e il governo Salandra potette tirare un sospiro di sollievo. Le elezioni amministrative indette per la fine di giugno si tennero regolarmente e il PSI ottenne un importante successo conquistando la maggioranza in più di 300 comuni, tra i quali Milano e Bologna, e in quattro amministrazioni provinciali.

La Settimana rossa lasciò uno strascico di polemiche tra l’ala riformista e quella rivoluzionaria del PSI. La Settimana rossa, sicuramente, ebbe un ruolo nel determinare l’atteggiamento della Corona nella decisione di rinunciare ad entrare subito in guerra nell’agosto del 1914. L’opinione pubblica, le classi dirigenti e le forze popolari non erano ancora pronte ad affrontare la scelta drammatica della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale. Era assai diffuso il timore che la scelta di entrare in guerra potesse, in quel momento, scatenare forti reazioni delle masse popolari mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della corona e l’integrità dello Stato. Ci vollero più di dieci mesi, di acceso confronto e scontro tra interventisti e neutralisti, per portare l’Italia nel coacervo della Prima Guerra Mondiale.

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