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Giustizia climatica e lotte operaie nella pandemia

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Note a supporto di una convergenza possibile

di Emanuele Leonardi

[Per la rubrica Ecologie della trasformazione, pubblichiamo l’intervento che Emanuele Leonardi tiene oggi (ieri ndr) al Campeggio di Ecologia Politica in Val Susa, nell’ambito delle iniziative per il Luglio NO TAV].

Già lo scorso anno, in questa rubrica, si era posta l’attenzione su una duplice necessità: che il movimento sindacale si auto-percepisse come soggetto decisivo nel contrasto al riscaldamento globale; che gli attori della giustizia climatica – Fridays for Future, Extinction Rebellion, Comitati territoriali contro le grandi opere inutili e dannose – prendessero coscienza dell’importanza strategica di un coinvolgimento di lavoratrici e lavoratori all’interno dei propri percorsi di mobilitazione. Mi pare che la pandemia abbia reso assai più urgente la riflessione su questa convergenza, e l’abbia pure resa assai più concreta di quanto non fosse ancora a gennaio 2020 – quando ci si preparava a quella che avrebbe dovuto essere una primavera di piazze traboccanti. Se fino a pochi mesi fa la necessità di tale incontro si dava a un livello per così dire teorico, oggi le condizioni sono mature per indicare su un piano immediatamente pratico gli elementi di prossimità politica tra lotte operaie e giustizia climatica.

Tre rapide precisazioni, che meriterebbero più spazio ma sono qui abbozzate al solo scopo di contestualizzare correttamente l’argomento centrale:

a) quando ci si riferisce al conflitto agito da parte della classe operaia non si intende evocare una massa uniforme di tute blu accalcata dietro i cancelli della Fabbrica: ormai da anni si riflette su una versione estesa della composizione di classe, in grado di dar conto da un lato dell’inedita centralità della riproduzione sociale nei meccanismi di creazione del valore (in un processo di progressiva formalizzazione delle attività informali) e, dall’altro, del protagonismo di soggettività politiche irriducibili alla figura classica del salariato (si pensi all’esplosione dei movimenti femministi, anti-razzisti, ecologisti – ma anche alla presa di parola dei braccianti);1

b) a livello internazionale, il movimento per la giustizia climatica – e in particolare i suoi volti più noti: Greta Thunberg sul piano globale, Luca Mercalli alle nostre latitudini – ha impiegato un po’ troppo tempo per cogliere il nesso profondo che lega il riscaldamento globale al Covid-19. In più di un’occasione sono stati considerati come entità distinte, suscettibili di una gestione in due tempi: “prima usciamo dall’emergenza sanitaria, poi torniamo a occuparci di quella climatica”. Fortunatamente un gran numero di nodi locali di FFF e XR non hanno atteso ravvedimenti per proporre una lettura alternativa e assai più proficua, secondo la quale i due fenomeni sarebbero espressioni diverse di una medesima causa scatenante, vale a dire la crisi ecologica indotta da un’organizzazione della produzione fortemente squilibrata;

c) chi va ripetendo che la pandemia rappresenta un’opportunità positiva molto probabilmente non conosce per nulla né l’attivismo climatico né la realtà sindacale. Il Covid-19, per chi frequenta questi mondi, è stato un disastro: la prospettiva di un quinto sciopero climatico ancor più straordinario dei precedenti – indetto per il 24 aprile – si è disciolta, così come l’aspettativa di un reddito per le tantissime persone che si sono ritrovate disoccupate, in taluni casi da un giorno all’altro. In questo contesto, non c’è nulla di cui rallegrarsi nel prendere atto che lotte operaie e giustizia climatica devono convergere, e devono farlo in fretta; c’è piuttosto da accelerare una dinamica che era in parte già in atto ma che non ha potuto beneficiare di quel tempo di sedimentazione che sembrava a portata di mano e che avrebbe certo giovato.

In questo contesto, vorrei sostenere la seguente tesi: nella congiuntura pandemica le rivendicazioni operaie centrate sulla non-negoziabilità del diritto alla salute si pongono immediatamente come istanze di giustizia climatica.

Perché? In primo luogo perché l’analisi politico-ecologica ha mostrato in modo convincente che l’emergenza sanitaria non può in alcun modo considerarsi uno shock esogeno rispetto alla dinamica economica. Il Covid-19 non si comprende se non all’interno della forma organizzativa che il capitalismo contemporaneo ha impresso al rapporto tra società e natura tanto nella sfera della produzione quanto in quella della riproduzione. In questo senso, la pandemia è uno shock completamente endogeno. Il punto su cui vale la pena insistere è il seguente: sebbene sia scorretto affermare che il capitalismo abbia ‘creato’ l’emergenza o addirittura il virus, è invece del tutto giustificato sostenere che i processi produttivi del capitalismo contemporaneo abbiano accelerato la circolazione di patogeni che in circostanze non capitalistiche si sarebbero mossi assai più lentamente. Da questo punto di vista l’ecologia politica fa emergere con grande chiarezza l’irrimediabile antitesi tra razionalità del profitto e ragionevolezza del benessere. Laddove la prima tende a omogeneizzare le colture genetiche in un’ottica di abbattimento dei costi (approntando così condizioni congeniali alla circolazione accelerata dei patogeni e dunque al salto di specie), la seconda suggerisce di innalzare il livello di biodiversità in ogni comparto in un’ottica di minimizzazione dei rischi. Si tratta ormai di una lacerazione insanabile: si consideri per esempio che, dal punto di vista delle grandi multinazionali, è perfettamente sensato assumersi il rischio di scatenare un’epidemia (o peggio) dal momento che in circostanze favorevoli i guadagni vengono internalizzati e nulla viene redistribuito, mentre in circostanze avverse i costi vengono esternalizzati da un lato sulle società – abbiamo potuto registrare la pressione cui è stato sottoposto il servizio sanitario in Italia e ovunque nel mondo (dove c’è) – e dall’altro lato sull’ambiente naturale.

C’è però una seconda ragione che supporta la tesi esposta. Si tratta del fatto che le rivendicazioni operaie divengono momenti essenziali di quella transizione ecologica la cui urgenza nessuno pare ormai intenzionato a mettere in discussione. Il motivo è semplice: la polarizzazione del campo politico lungo l’asse profitto vs salute si sovrappone quasi senza scarti a quella che abbiamo visto all’opera nel corso del 2019 e che divideva lo spazio del conflitto lungo l’asse negazionismo vs giustizia climatica. Che un avvicinamento oggettivo tra il fronte negazionista e quello neoliberale del profitto a ogni costo sia in atto mi pare evidente – porterò comunque un esempio in chiusura. Che un movimento uguale e contrario possa prendere forma dalla nostra parte: ecco a mio avviso la posta in gioco della seconda metà del 2020, espressa nel modo più crudo.

Affinché la riflessione teorica possa dare il suo contributo a questo obiettivo, credo valga la pena considerare tre elementi che riguardano il cosiddetto ‘ricatto occupazionale’, vale a dire la violenta ingiunzione a dover scegliere tra salario e salute:

a) elemento di continuità. Il Covid-19 ha in primo luogo esacerbato contraddizioni già esistenti. Si pensi a cosa penserebbe un operaio dell’ex-Ilva o un’abitante del quartiere Tamburi di Taranto se le si dicesse che la pandemia ha portato alla luce la contraddizione tra lavoro e vita… Ciò non toglie, tuttavia, che la generalizzazione dell’esperienza del ricatto occupazionale virtualmente alla totalità della forza-lavoro abbia da un lato espresso con la massima trasparenza la brutalità dell’ingiunzione e, dall’altro, ne abbia comportato la temporanea sospensione. Si badi bene: tale sospensione è dipesa interamente dall’intensità conflitto di classe agito dal basso: tra marzo e aprile le lotte si moltiplicano fino a raggiungere l’apice con lo sciopero generale del 25 marzo (a livello regionale lombardo per quanto riguarda i confederali, sul piano nazionale per quanto riguarda invece i sindacati di base). I risultati ottenuti dalle mobilitazioni sono stati parziali, certo, ma tangibili: il Protocollo Sicurezza del 14 marzo (invero minimalista) e, soprattutto, la riduzione delle attività essenziali prevista dal decreto-legge del 25 marzo (depotenziata però dal ricorso alle autocertificazioni da parte delle aziende). Infine – ma non meno importante – l’apertura di un campo di contesa tra la voracità confindustriale del ‘tutto aperto’ e il senso comune legato al primato della salute;

b) elemento di discontinuità. L’emergenza sanitaria evidenzia un rapporto tra condizione operaia e diffusione dei patogeni assai diverso e per certi versi opposto a quello riscontrato nella stagione delle lotte contro la nocività – anni Sessanta e Settanta del Novecento. Allora l’origine della nocività stava nel processo produttivo, perlopiù localizzato: l’ambiente di lavoro si poneva quindi come teatro-chiave del conflitto e la posizione operaia risultava strategica in quanto ‘filtro’ tra produzione dell’inquinante e sua circolazione. Nella situazione attuale, invece, è evidente che non sia all’interno dell’ambiente di lavoro che si crea il patogeno. Come vedremo, fabbriche e magazzini fungono in effetti da incubatori del virus, ma più in virtù delle scarse o nulle precauzioni che non delle specificità produttive. Ciò modifica anche la posizione operaia, che risulta socialmente strategica, in loco, nel rallentare il contagio, ma necessita di costruire coalizioni politiche ampie al fine di incidere sulla causa profonda della pandemia – cioè la crisi ecologica globale.

c) elemento di radicalità. Tanto dal mondo sindacale quanto da quello accademico sono state avanzate analisi puntuali sul carattere ‘totalitario’ della crisi da Covid-19. Essa tocca ogni aspetto della dinamica socio-economica e rende un ‘ritorno alla normalità’ tanto impossibile quanto indesiderabile. Un esempio fra i tanti circolati in questi mesi: se dopo il 1929 o il 2008 non c’erano dubbi che trovare un impiego per la forza-lavoro disoccupata sarebbe stata la via maestra per risolvere i problemi, dopo il 2020 questa operazione diviene problematica. È noto infatti che la crisi ecologica richieda, per essere prima gestita e poi (forse) risolta, di lavorare sia meno sia (soprattutto) altrimenti. Come procedere, dunque, sapendo pure che è dalla messa a lavoro di donne e uomini in quantità e a ritmi sempre maggiori che il sistema capitalistico deriva la sua linfa, cioè il plusvalore? A me pare che la pandemia riduca ulteriormente i margini di manovra per un riformismo green di stampo social-democratico. La radicalità della crisi investe infatti i due pilastri organizzativi – irrinunciabili – del capitalismo neoliberale: il just-in-time (che in nome dell’efficienza di mercato ha fragilizzato i sistemi produttivi) e l’estensione ampia delle catene del valore (che in nome della specializzazione e della delocalizzazione hanno reso indisponibili beni di primissima necessità e accentuato la vulnerabilità dei sistemi sociali). Insomma: benché la quasi totalità dei soggetti della trasformazione mostri segni sconfortanti di disorganizzazione, il problema del superamento del capitalismo è tornato di grande attualità.

Un esempio plastico dell’inedita concretezza della tesi enunciata sopra è la significativa sovrapponibilità delle mappe del contagio a quelle dello sfruttamento: quanto più profondo il primo tanto più rapida la diffusione del secondo. Benché si tratti di problematiche globali legate in particolare al comparto logistico e al settore della macellazione delle carni – sulle situazioni tedesca e statunitense si è discusso anche in Italia, specialmente sui media di movimento – mi focalizzerò in queste righe conclusive sulla regione in cui vivo e lavoro, l’Emilia-Romagna. Dopo la tragedia della provincia di Piacenza – centro nevralgico della logistica – tra marzo e maggio (drammatiche le testimonianze provenienti dai magazzini, impressionante il numero delle vittime e dei contagi) i focolai si sono spostati a est nel mese di luglio, estendendosi a due aziende di trasporti nel bolognese (BRT e TNT) e al prosciuttificio Maccaferri nel modenese. Non stiamo parlando di illazioni o di ipotesi ardite: la scorsa settimana l’assessore alla sanità Raffaele Donini si esprimeva così, dalle colonne dell’inserto regionale de La Repubblica: “I dati confermano quello che da alcuni giorni sta accadendo in Emilia-Romagna, in Italia e in Europa: il contagio da Covid si sta diffondendo soprattutto nelle realtà produttive legate ai settori della logistica e della lavorazione delle carni”.

Ma perché questi luoghi di lavoro diventano incubatori del virus? Lo spiegano bene i sindacalisti, che pure faticano a trovare spazio mediatico: la ragione è che la giungla degli inquadramenti contrattuali (appalti al massimo ribasso, subappalti, esternalizzazioni, cooperative più che sospette, agenzie) non solo impatta negativamente sui salari, ma impedisce un’efficace opera di messa in sicurezza di chi lavora, con conseguenze nefaste – e talvolta tragiche – sulla salute loro e su quella dei famigliari. Di contro, le rivendicazioni sindacali paiono semplicemente ragionevoli: tamponi per tutti e sanificazioni frequenti (e approfondite), pause più lunghe, maggiore disponibilità di DPI. Insomma, un rallentamento e una minore esposizione al rischio.

Dovrebbe dunque essere chiaro che affermare il primato della salute di chi lavora rispetto al profitto di chi mette a lavoro significa imporre ritmi produttivi più compatibili con una vita degna, nonché un accorciamento delle filiere (nella manifattura come nei trasporti) da cui dipende la “verità effettuale” della giustizia climatica. Sta qui, dunque, la necessità della convergenza più volte evocata. Rispetto all’urgenza, la questione si sdoppia: da un lato la finestra temporale segnalata dall’IPCC si riduce di rapporto in rapporto; se di anni a disposizione ne restino dieci, venti o trenta si discute animatamente – ma nessuno dubita che di tempo ne sia rimasto poco. Dall’altro lato si registra con preoccupazione l’accostamento sempre più organico tra negazionismo climatico e violenza neoliberale. Rispetto al quadro sopra descritto, negli Stati Uniti figure di spicco del Partito Repubblicano come Alex Azar – segretario di Health & Human Services – e Kristi Noem – governatrice del South Dakota – già da maggio hanno cercato di scaricare il peso della responsabilità dall’organizzazione del processo produttivo e dalla mancanza di diritti alle abitudini dei lavoratori, spesso migranti e, quindi, portatori di stili di vita insalubri. In Italia si è dovuto attendere fino a luglio, ma in compenso la stoccata è arrivata diretta e senza infingimenti: François Tomei, direttore di Assocarni, ha dichiarato a Il Resto del Carlino di non essere tanto preoccupato dai focolai, quanto “dai risvolti mediatici che si stanno dando alla pandemia. Il vero problema non è l’industria della carne, ma le abitudini di vita di lavoratori di provenienza spesso estera che creano fuori dall’azienda condizioni che facilitano il contagio”.

La battaglia è già iniziata, non possono sussistere dubbi: da un lato un negazionismo neoliberale e sempre più esplicitamente razzista, dall’altro la possibilità di rinnovare la tradizione della solidarietà di classe attraverso la giustizia climatica.

Note

1Si porrebbe poi, su questo piano, l’annoso problema del rapporto tra sindacati (sia tra quelli confederali e quelli di base, sia all’interno dei due raggruppamenti). Non è possibile occuparsene qui, ma va da sé che si tratti di una questione di grande importanza.

Da Le parole e le cose

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