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Rivolta nel CPR di Torino dopo la morte di Faisal Hossai

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Un uomo di origine bengalese, Faisal Hossai, di 32 anni, è deceduto ieri presso il CPR di Torino. Arrestato perché senza documenti, violentato nel centro, lasciato morire in isolamento dai secondini nonostante la denuncia degli altri detenuti.

Nella giornata era emersa l’ipotesi che il ragazzo fosse stato violentato alla fine di giugno da altri due ospiti della struttura, anche se la polizia si era affrettata a smentire. Pare confermato da più fonti che l’uomo fosse stato posto in isolamento per 22 giorni, che soffriva di disturbi e che non fosse seguito adeguatamente. E’ evidente che si trattava di un soggetto che non avrebbe dovuto trovarsi all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio, così come nessun altro dovrebbe essere sottoposto a tutto ciò .

Si tratta invece dell’ennesima e assurda vittima (a inizio giugno si è tolto la vita un giovane nigeriano al CPR di Brindisi) di un sistema di detenzione dove vengono reclusi i cittadini non comunitari che hanno commesso il “reato” di non essere in possesso del permesso di soggiorno. Per questa sola ragione, i migranti vengono “trattenuti” in un luogo infernale, una macchina repressiva e di controllo che macina milioni di euro per la sua gestione e in cui la violazione dei diritti umani più elementari è la norma, con la complicità di chi li gestisce e degli organi di polizia. Un sistema che con il decreto legge Minniti-Orlando e con il decreto Salvini ha posto le basi normative per estendersi in tutte le regioni italiane e che ha visto aumentare il periodo di “trattenimento” fino a 180 giorni. 

Appena dentro il CPR torinese si è sparsa la voce del decesso, gli altri detenuti hanno fatto esplodere la protesta. «Tensioni» dicono le grandi testate, sminuendo il fatto. Peccato che le stesse testate giornalistiche avrebbero dovuto essere al corrente di un caso riconducibile alla persona di Faisal, un uomo che prima di essere spostato in isolamento aveva raccontato la storia dello stupro subito a un altro detenuto che era riuscito ad inviare una mail alla Procura, nonché a vari giornali, in cui denunciava la preoccupazioni per le condizioni dell’amico. La mail rimarcava inoltre la situazione di trattamento disumana all’interno della struttura di Corso Brunelleschi, nonché le perenni vessazioni a cui il personale sottopone i reclusi. Non si fa fatica a credere alla veridicità del contenuto di questa mail; la stessa fonte ha in seguito descritto, in un’intervista per Fanpage, una situazione bestiale, in cui anche la richiesta di beni essenziali, atti a preservare la salute fisica e mentale degli individui, rischia di vedersi sotterrare da una spirale di violenza punitiva. Una testimonianza perfettamente coerente con quella che, pochi mesi prima, Tomi, altro detenuto del CPR torinese, aveva espresso attraverso le frequenze di Radio Black Out, scegliendo di portare avanti uno sciopero della fame che aveva fatto talmente arrabbiare medici, polizia e istituzioni, da farlo trasferire al CPR di Bari.

Poche settimane prima dell’accaduto, l’assemblea Ah Squeerto, insieme ad altre realtà solidali di Torino, aveva organizzato un presidio sotto il CPR di Torino mettendo in rilievo il ruolo di queste strutture nella marginalizzazione delle identità e dei corpi, ai quali viene impedito, tramite la reclusione coatta, di autodeterminarsi. Questo è ciò che pertiene alla folle logica dei centri di internamento. Poi vi è una dimensione tale per cui l’individuo forzatamente passivizzato non è nemmeno tutelato nella sua conservazione: questa violenza incarnata da figure di servizio e servizi d’ordine paragonabili a kapò si porta dietro l’ombra sinistra dello Stato e delle politiche internazionali che concertano il controllo dell’immigrazione, lavandosene poi le mani col sangue. Alle testate di regime spetta poi il compito di etichettare come «morti naturali» ciò che in quelle condizioni detentive è realisticamente omicidio. «Mi stupisce che mezzo mondo si mobiliti per Carola Rackete e nessuno dica una parola o decida di compiere un gesto riguardo alla morte di un uomo che avviene a due passi dalle nostre case» dice una solidale che si trovava al presidio di solidarietà ai migranti, avvenuto ieri nei pressi del CPR. La presenza del presidio è stata avvertita dai migranti dentro il centro, da dove si è iniziato a sentire rumore di oggetti spaccati e si sono viste alzarsi colonne di fumo. L’istante successivo la polizia, presente in antisommossa fin dal mattino, sparava lacrimogeni e idranti dentro la struttura. Fuori, il presidio stanziato in via Monginevro ha subito numerose cariche da parte della polizia, di cui una particolarmente violenta che ha colpito due ragazze in testa e un ragazzo al braccio. Un giornalista ha successivamente pubblicato un video in cui i poliziotti manganellano gente al muro con le braccia alzate e, non appena si accorgono di essere ripresi, minacciano e picchiano anche il fotoreporter, intimandogli di sparire. Faisal deve morire due volte, stavolta attraverso un violento insabbiamento.

Ma la storia appunto non è nuova, come dimenticare in uno dei primi Cie italiani, nella notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999, a Trapani, sei ragazzi tunisini che rimasero uccisi in un incendio. Alcune persone detenute nel centro avevano tentato di fuggire e le forze dell’ordine avevano rinchiuso dodici ragazzi in una piccola cella. Uno di loro aveva dato fuoco a un materasso causando un incendio. Tre di quei ragazzi morirono nella notte, altri tre pochi giorni dopo in ospedale a causa delle ustioni riportate. Si chiamavano Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim. Da allora sono state registrate numerose violenze, rivolte, atti di autolesionismo, suicidi e morti all’interno dei Cie italiani. L’inchiesta Morti di Cie ha denunciato più di venti casi di persone che hanno perso la vita nei centri. Cosa sono i Cpr Istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco Napolitano, i Centri di Permanenza Temporanea, poi denominati CIE (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi Fini, e infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla legge Minniti-Orlando, sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri che appunto sono sprovvisti di regolare permesso di soggiorno. Le persone si trovano all’interno dei CPR con lo status di trattenuti o ospiti ma la loro permanenza è una vera e propria detenzione, in quanto sono privati della libertà personale e sono sottoposti ad un regime di coercizione che, tra le altre cose, impedisce loro di ricevere visite e di far valere il fondamentale diritto alla difesa legale. E’ veramente difficile entrare in un Cpr, in particolare nei Cie di Torino e di Ponte Galeria. Tutto ciò pare assurdo ma la verità è che tenere aperti questi centri è un’attività redditizia la gestione dei centri viene affidata ad aziende private. Negli ultimi trent’anni i paesi europei hanno speso importanti somme di denaro per impedire ai migranti di entrare nel territorio dell’Unione europea: dopo l’abolizione delle frontiere interne (Schengen) negli anni novanta, si è investito sul rafforzamento di quelle esterne dell’Unione europea e sulla loro militarizzazione. Tra il 2003 e il 2013 l’Unione europea e l’Agenzia spaziale europea hanno finanziato 39 progetti di ricerca e sviluppo sulla messa in sicurezza delle frontiere per un totale di 225 milioni di euro.

A beneficiare di questi finanziamenti sono state in particolare tre aziende: Thales group, Finmeccanica e Airbus. Uno studio del Transnational institute, pubblicato nel luglio del 2016, stima che entro il 2022 la militarizzazione delle frontiere potrebbe creare un giro d’affari di 29 miliardi di euro all’anno. In diversi stati dell’Unione europea la detenzione nei centri per immigrati irregolari è diffusa e può durare fino a 18 mesi. E a marzo 2017 la Commissione europea ha raccomandato agli stati dell’Unione di applicare più severamente la direttiva rimpatri per i migranti irregolari e di estendere la detenzione anche ai minorenni!

In Italia i centri dipendono dal ministero dell’interno, la loro gestione è affidata a cooperative sociali e, da qualche anno, anche ad aziende private. Gli appalti sono assegnati in base a bandi di gara il cui principale criterio di selezione è il risparmio. Tra il 2005 e il 2011 il sistema di detenzione degli stranieri è costato un miliardo di euro, spesi in buona parte per la gestione dei Cie. Nel dicembre del 2012, il gruppo Gepsa-Acuarinto ha ottenuto la gestione del Cie di Roma per una cifra di 28,8 euro al giorno per persona. Nel 2014 lo stesso gruppo si è inserito anche nella gestione del Cie di Torino proponendo tariffe del 20–30 per cento inferiori a quelle offerte dalla Croce rossa anch’essa complice di questa assurda storia. La Gepsa appartiene alla multinazionale dell’energia Gdf Suez e in Francia gestisce 16 carceri e dieci centri di detenzione in tutto il paese. In Germania sono diverse le aziende private coinvolte nella gestione dei centri. Le principali sono: l’European homecare, la Boss security, la Kötter e la Service Gmbh. L’European homecare è presente anche in una cinquantina di centri di accoglienza e le è stata ritirata la gestione di Siegerland Buchbach nel 2014, quando è emerso che alcuni sorveglianti dell’azienda avevano commesso abusi e torture sui richiedenti asilo.

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