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Le riforme costituzionali tra pretesto e realtà

letta_enricoUnico tra diciassette, tra poco tempo diciotto, paesi dell’eurozona l’Italia ha una Confindustria che evoca scenari di rivolta di piazza. Per bocca del suo principale rappresentante. Non solo, i giovani di Confindustria, recentemente riunitisi in Liguria, hanno sia paventato scenari di rivolta sociale che parlato di forme di reddito di cittadinanza nell’intervallo tra lavoro e lavoro. E se il primo giorno delle loro assise i giovani confindustriali hanno parlato di rivolta quello successivo è stato il turno della parola “rivoluzione”. La loro organizzazione è al tramonto, forse irreversibile, ma si permette un uso dei concetti impensabile a sinistra. Dove, al massimo, è concesso impiccarsi onorevolmente ai concetti legati alle rifome e ai diritti e alla ormai, immancabile, notte in cui tutti i gatti sono neri detta classificazione dei beni comuni. Squinzi e Morelli, presidente di Confindustria giovani, usano così un linguaggio più radicale della Camusso e di Landini. I quali non solo non evocano scenari di rivolta sociale, una volta non esaudite le loro (blande) richieste, ma hanno dismesso qualsiasi ipotesi di calendario di lotte realmente incisivo da oggi all’autunno (quasi metà anno, cosa vuoi che sia in una crisi epocale). Per non parlare di realistiche rivendicazioni di una qualsiasi forma di reddito di cittadinanza. E qui viene spontaneo chiedersi: Camusso e Landini quando prevedono la piena occupazione? Stiamo parlando dell’unica forma sociale di redistribuzione complessiva del reddito in assenza di forme di salario di cittadinanza. La loro organizzazione, la Cgil, stima che i posti di lavoro persi nel quinquennio 2007-2012 potranno essere recuperati tra tre quarti di secolo. Seguendo queste proiezioni possiamo affermare che, continuando con questo modello di sviluppo, la piena occupazione sarà raggiunta nello stesso spazio storico che passa tra l’unità d’Italia e le celebrazioni di Napolitano per i 150 anni dell’evento. Si tratta di numeri mostruosi, prima ancora che grotteschi, che dimostrano il certificato fallimento di un modello di sviluppo. Del resto è l’Istat, non l’internazionale situazionista, ad aver certificato che l’Italia rimarrà presumibilmente inchiodata all’un per cento annuo di tasso di crescita fino almeno al 2050.

Detto questo, anche da studi della stessa Cgil, cosa fa il maggiore sindacato italiano? Lascia il testimone delle previsioni di rivolta sociale all’associazione dei padroni. Specie dal palco dei giovani confindustriali il cui presidente ha un carisma oratorio che sembra preso dalla parodia degli imprenditori presente in tanti episodi della commedia all’italiana degli anni ’70. Per essere il cupio dissolvi del lavoro organizzato in Italia, da parte sindacale come padronale, non riesce neanche ad essere serio. In questo scenario, il lavoro prodotto nei prossimi anni poco avrà quindi a che vedere con lo scambio mercantile forza lavoro-mezzi di sussistenza, e molto, a causa dell’aumento della divaricazione tra salario e finanziamento della riproduzione del sè, con forme spurie di riproduzione sociale (su cui Wallerstein aveva scritto pagine interessanti ne “Il capitalismo storico”). Ed è proprio a causa di questo genere di mutazioni del lavoro, che è l’architrave della costituzione, che si ripete il mantra delle riforme istituzionali italiane. Qui è bene essere chiari: in parte si tratta di un pretesto per tenere assieme la maggioranza Pd-Pdl il più a lungo possibile, per esigenze assieme europee e bancarie, in parte di un fenomeno ormai maturo.

La crisi del lavoro, fondamento della costituzione, è reale anzi epocale e non si può pensare che a livello costituzionale non accada niente. Solo che sta accadendo da destra. Ma andiamo per gradi. Che i 35 saggi nominati da Napolitano somiglino anche al pretesto per tenere più in vita possibile un governo, utile al mainstream Bce e Ue, è qualcosa di palese. Letta e Saccomanni non sono esattamente teste d’ariete nei confronti della politica, ancora dettata dai paesi della tripla A, a livello continentale. Hanno accettato l’assenza di fondi, quelli sbloccati dalla fine della procedura di infrazione sul deficit per l’Italia, almeno per tutto il 2014. Mentre Francia e Spagna hanno rallentato le procedure per il rientro dal deficit, la direzione contraria a quella italiana. Tutto questo significa che il governo, al di là della propaganda, non punta alla “crescita”, impossibile con questi livelli di austerità dell’intervento pubblico. Ma a garantire un equilibrio politico in Europa che serva a salvare le banche italiane piuttosto che l’economia nazionale. Non a caso Saccomanni è espressione diretta del mondo bancario ed è visibilmente più attento ai conti che alle politiche, basta sfogliare il giornale. Teorizzare la riduzione del cuneo fiscale, le tasse sull’impresa, tagliando la spesa sociale è lavorare per le politiche di bilancio non per lo sviluppo (ammesso e non concesso che oggi sia chiaro cos’è lo sviluppo). La crisi del lavoro, malgrado lui e l’incapacità cronica di porre un’alternativa credibile a questo modello di sviluppo, comportano la frammentazione, e la velenosa autonomizzazione, del rapporto tra lavoro e moneta. Un fenomeno tutto interno alle mutazioni del capitalismo nazionale e non. Un fenomeno che non lascia indifferente la dimensione costituzionale.

2. Riforme costituzionali, pretesto e realtà

Per tenere in vita questo governo, in un contesto in cui la cui contraddizione tra moneta e lavoro (non solo sindacale ma anche padronale, basta vedere i bilanci) si sta facendo palese non c’è niente di meglio del pretesto di un percorso di riforme istituzionali. Pretesto in grado di guadagnare tempo per tenere in piedi la maggioranza Pd-Pdl per esigenze europee e continentali e di governare il comportamento sia del sindacato che di Confindustria (che promette già oggi le “riforme” per bocca di Squinzi. La Cgil, come l’intendenza di De Gaulle, seguirà). I quali, visti nel loro assieme, non sono in grado di pensare, tantomeno di imporre, politiche differenti del lavoro. L’egemonia velenosa della moneta sul lavoro, non che si rimpianga il contrario, è tale che quest’ultimo non potrà che scalciare un pò. Il pretesto delle riforme costituzionali servirà a tenere insieme il governo, almeno fino a che non saranno chiare (in qualsiasi senso) le esigenze tedesche, e gli stati maggiori di Confindustria e del sindacato. Poi qualcosa accadrà. E a quel punto non sarà neanche tanto importante che le riforme istituzionali, e anche quella elettorale, si siano fatte davvero. Sopravviverà, nelle istituzioni e tra le parti sociali, chi sarà agganciato con “l’Europa”. Per il resto, forse una buona metà della società italiana, ci sarà sempre il pensiero di papa Francesco. Da un altro punto di vista però, come si intuisce dalla crisi del lavoro inteso come cardine della costituzione, le riforme costituzionali sono ormai mature. E il fatto che le nomine dei 35 saggi “per le riforme” siano state fatte tutte tra aree convenzionali e compatibili, con le politiche degli ultimi vent’anni, la dice lunga sul tasso di blindatura presente in questi processi di riforma. Qui però il credit crunch bancario italiano, vero problema che fa da collante alla maggioranza Pd-Pdl (specie se saranno necessari nuovi salvataggi genere Mps come temuto dal Sole 24 ore) c’entra poco. L’altra linea del fronte delle trasformazioni del capitalismo in Italia, quelle che rischiano di riportare il paese in una condizione di sottosviluppo per quanto diversa simile al pre-boom economico, è quella delle riforme costituzionali. Ma cosa si intende qui per riforme costituzionali?

Per capirlo niente di meglio che riprendere il filo del dibattito sulle  “riforme” di dieci anni fa, appena dopo il fallimento della bicamerale, appena prima della legge Calderoli. E anche di confrontare lo spessore di questo filo con il concetto di institutional reform così come si impone nell’Europa di oggi. Il testo che qui citiamo, per riprendere i temi del dibattito è Crisi della politica e riforme istituzionali (a cura di Giorgio Giraudi, Rubbettino, 2005)

Si tratta di un testo interessante, non tanto dal punto di vista teorico, principalmente per la sua capacità agilmente riassuntiva di tutto un dibattito, sulle riforme costituzionali, cominciato con gli anni ’80. In sostanza quella che, all’epoca, inizio anni 2000, viene vista come a rischio, sono posizioni anche di Onida, è la capacità della costituzione, dopo una eventuale riforma, di tenere assieme differenti culture politiche. Capacità proprio riconosciuta alla costituzione del ’48 dove la convivenza tra culture politiche, e costituzionali, molto diverse tra di loro aveva comunque imposto la legittimazione di una vera e propria biodiversità politica nel paese. E’ proprio Onida, nel testo, a vedere i rischi, legati alla mancata inclusione nei processi di riforma costituzionale, del distacco da questo modello di biodiversità. Anche per non perdere quegli elementi di dinamica sociale, garantiti dalla biodiversità politica, che rendono una costituzione non una carta ma uno strumento di evoluzione sistemica. Ma quel che viene perduto sul piano di una legittimazione politica delle differenze, garantite in parlamento con l’antico proporzionalismo e un sistema di contrappesi istituzionali, viene immaginato, entro un processo di “riforme”, come recuperato grazie ad un altro genere di dinamica. E qui è interessante vedere lo slittamento semantico. Viene infatti usato il concetto di “competitività” come sostitutivo di questa biodiversità politica. Il sistema politico, per generare una dinamica sociale evolutiva e non morire avviluppato da elementi ormai socialmente morfostatici, nelle “riforme” sostituirebbe qui la biodiversità politica con la competitività tra soggetti elettorali. Il passaggio, pensato nel 2003, non è irrilevante perchè a) presuppone che nelle “riforme” la costituzione perda in capacità di aggregazione sociale delle differenze compensata in qualche modo dalla “competitività” elettorale che però è altro fenomeno b) presuppone il passaggio di una dinamica economica, “la competitività”, dalla dimensione dell’impresa alla centralità politica. E società ed impresa sono sempre fenomeni differenti. Ridurre l’una all’altra significa aprire profondi processi di disgregazione sociale e politica.

C’è quindi da chiedersi, in un paese che recupererebbe i livelli di occupazione solo tra tre quarti di secolo, e la piena occupazione magari in un lasso di tempo che sta tra l’unità d’Italia e l’oggi, se la competitività sia un paradigma socialmente ed istituzionalmente funzionale per il futuro. Naturalmente no, infatti le “riforme” nasceranno, se vedranno vita, già vecchie. Se concepita in questo modo si scontreranno con una complessità sociale differente, rispetto a quella prevista dal maistream italiano, in grado di creare notevoli criticità sistemiche. Le riforme pretesto probabilmente sono queste: già nate vecchie. Ma c’è un’altra dimensione di “riforma”, attraverso la quale i cambiamenti istituzionali possono avvenire e non invano. Almeno dal punto di vista neoliberista.

Infatti perchè, nonostante tutto, c’è questa tensione, percepita come irreversibile, a trasformare la costituzione superando quello della biodiversità politica che, comunque, garantisce ancora oggi una legittimazione trasversale e persino una sopravvalutazione della costituzione del ’48?

Qualche risposta utile viene dal testo, collettivo, edito sempre nel 2005 da Elgar Publishing per l’associazione belga-olandese di studi istituzionali e di politica economica. Il testo si chiama “Institutional Reform, Regulation And Privatization”, si occupa sostanzialmente di governance delle privatizzazioni industriali. O meglio, letto in controluce, della capacità tecnica, fenomenica e politica di promuovere ristrutturazioni istituzionali da parte dei processi di privatizzazione.

Nel capitolo dedicato ai processi istituzionali che rendono possibile una governance privatistica delle infrastrutture vengono infatti indicati i 4 livelli istituzionali necessari per favorire una continua evoluzione del fenomeno delle privatizzazioni. Dal punto di vista logistico, tecnologico e finanziario. Questo secondo il 4 layer mode di Williamson (un articolo http://www.nextgenerationinfrastructures.eu/download.php?field=document&itemID=552654 ) che, si badi bene, è un modello teorico che serve operativamente le next generation delle infrastrutture e delle privatizzazioni e non parte quindi da una concezione astratta delle istituzioni (come nel dibattito italiano). Williamson arriva piuttosto a definire l’ambiente istituzionale necessario per favorire le nuove ondate (in senso tecnologico, logistico, di financing) di privatizzazioni. Partendo da una embedness culturale, nel senso che la media culture è fondamentale per il primo livello istituzionale favorevole alle evoluzioni delle privatizzazioni, per arrivare, dopo aver “riformato” le istituzioni, a massimizzare le risorse di un paese per favorire ogni genere di egemonia complessa del privato sul pubblico. Vista la presenza a livello continentale di queste concezioni, da quel mondo belga-olandese vengono le ultime due presidenze dell’eurozona, è facile capire che l’italico, e arcaico, “competitività” per le esigenze della moneta unica, deve essere coniugato fino ad essere pienamente immanente a modelli come questo dei 4 livelli istituzionali necessari per privatizzare ogni sospiro della vita sociale.

I 35 saggi nominati da Napolitano, tutti di cultura mainstream, servono quindi sia per un pretesto che per la realtà. Il pretesto, nelle convulsioni della dimensione italiana del lavoro, è quello di tenere in vita il governo, per esigenze continentali e bancarie, in modo gradito ai sindacati e confindustria (i tipi di lavoro e di capitale che si ritirano, in modo differente, dalla società). Il pretesto delle riforme è anche un modo per fare iniezioni di processi omeostatici in una società dilaniata dalla contrazione del fenomeno del lavoro, senza sostituzione con altri fenomeni, sulla propria superficie.

C’è poi la realtà delle “riforme”. Quella che vede l’azzeramento della biodiversità politica di questo paese, partendo da quella istituzionalmente riconosciuta, non in nome di una generica “competitività” elettorale (per quanto l’implementazione di questo concetto dall’economia alla politica sia socialmente letale).  Ma  piuttosto è un azzeramento che si esercita in nome di qualcosa non immediatamente definibile perlomeno in concetti pubblici e in dibattiti a tutti disponibili: ovvero che questa competitività del sistema politico, dal punto di vista neoliberista, ha un senso solo se si traduce, e non è scontato, in un articolato processo di governance, intrecciato con la legislazione continentale, che non lasci alcun spazio fenomenico al contrasto ai processi di privatizzazione dell’economia e del sapere. Si tratta di un processo che, nelle teorie alla Williamson , costruisce dimensione e livelli complessi del reale per poi avvolgerli in miriadi di reti articolate ed esclusive di estrazione per l’estrazione di ricchezza tramite le privatizzazioni. Propellente di questi miriadi di reti? La tecnologie performative, la logistica altamente complessa, le nuove generazioni del financing. E non è affatto scontato che il livello istituzionale italiano, che sconta un grosso ritardo cognitivo, riesca a intercettare questi processi anche sotto dettatura delle banche. Che poi  l’immiserimento di mezzo continente sia l’altra faccia di queste evoluzioni tecnologiche è tema che non interessa a nessuno: se le “riforme” riescono ad intercettare questo mondo allora anche l’arretrato tricolore senso della “competitività” troverà un ruolo nel continente che conta. Altrimenti che resti pure tutto un pretesto o che l’Italia faccia un pò come può.

Intanto il lavoro, in Italia ed in Europa, si contrae e degrada, mentre la scienza del declino, rappresentata dalle privatizzazioni, è sofisticata e innovativa. Curiosa è la vita, quella di un continente, quando la scienza più innovativa è quella che si occupa di accelerare il declino.

Poi c’è la chiacchiera politica di tutti giorni, così lontana dalla realtà, e la disperazione prodotta dal modello economico-finanziario dell’eurozona. Anche questo tutto materiale per papa Francesco. Per invitare gli eletti di turno in Vaticano, e per farsi invitare da loro, e per consolare gli ultimi che appaiono una schiera sempre più affollata, sterminata e candidata a crescere.

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