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Né merito né talento, la contestazione a Torino contro il governo

L’hype mediatico che ha accompagnato la contestazione alla premier Giorgia Meloni a Torino indica alcuni elementi degni di nota, ma ciò che deve interessare è l’emergere di comportamenti di opposizione nelle fasce più giovani e la loro capacità ad autorganizzarsi.

Davanti alle cariche che hanno investito i due cortei di contestazione, a Valditara prima e a Meloni poi, è facile per tutti i liberal di ogni gradazione poter parlare di violenza della polizia in una fase di governo guidata da Fratelli d’Italia. Addirittura il PD per voce di Alessandro Zan chiama in causa il ministro dell’Interno Piantedosi e addirittura La Stampa si lascia scappare un cenno di simpatia nei confronti dei ragazzi e delle ragazze picchiate, per poi correggere il tiro il giorno successivo dando largo spazio a pezzi schizofrenici della sua penna di punta (probabilmente su suggerimento della questura).

Il secondo punto riguarda proprio la gestione dell’ordine. Se da un lato, il massiccio dispositivo di forze di polizia a protezione di una zona rossa nemmeno dichiarata si è lasciato sorprendere dalla velocità e dalla creatività del corteo di ieri, dall’altro lato sorge un immediato parallelismo con i fatti di piazza Arbarello di poco più di un anno fa, quando giovani e giovanissimi furono picchiati per ore senza poter uscire dalla piazza, impedendo così lo svolgimento di una delle prime manifestazioni a seguito della morte di Lorenzo in alternanza scuola-lavoro. E ancora Giorgia non c’era.. ma Ciarambino – questore della città di Torino – sì. Approccio simile quello verificatosi ieri, ossia tenere sotto sequestro per due ore centinaia di manifestanti per tutelare l’arrivo di Meloni in città, in un accerchiamento al cui interno erano presenti anche giornalisti (come la giornalista di LA7 che in collegamento in diretta su L’aria che tira dice di vedersi impedita l’uscita da parte del cordone di polizia).

D’altro canto è da considerarsi un dato positivo l’esprimersi di alcune parti di quella società civile negli ultimi tempi un po’ timida, ma anche da parte di organizzazioni internazionali come Amnesty International che, per la seconda volta in pochi mesi, sottolinea come l’operato della polizia guidato dalla questura di Torino non stia all’interno degli standard, proprio nell’estate di quest’anno infatti gli osservatori di Amnesty avevano partecipato alla manifestazione a San Didero durante il Festival Alta Felicità per poi dichiarare di essere stati loro stessi obiettivo di lanci di lacrimogeni.

Venendo ad aspetti più profondi, lo slogan “né merito, né talento” portato in piazza dai giovanissimi appartenenti a diverse scuole superiori torinesi, è sintomo di una forte sofferenza e di un rifiuto sempre meno contenibile nei confronti di quella generazione che oggi assume il ruolo di amministrare e gestire in maniera bieca molti ambiti delle vite. I professori, i presidi – esemplificativo il preside di un ormai famoso liceo di Torino protagonista di un recente ciclo di occupazioni che scrive su facebook una sua personalissima classifica della giornata individuando i “perdenti della giornata : quattro ragazzetti che hanno subito la violenza in nome e per conto dei mandanti dei centri sociali da cui sono stati strumentalizzati […] e la polizia che verrà crocifissa dall’opinione pubblica progressista per uno sproporzionato uso della forza […] (e bisogna anche trovarcisi a subire insulti, sputi, lanci di uova e lattine e dovere comunque tentare di mantenere la calma senza reagire..)” – l’apparato che si dovrebbe occupare di una formazione per l’emancipazione, incarnano il simbolo di una pesante coltre atta a inquadrare e soffocare. Il governo oggi dà voce alle più inquietanti fantasie di controllo e disciplinamento portando all’estremo un processo iniziato ormai decenni or sono.

Di quale talento si può parlare in una società in cui non esiste più nulla da voler meritare, perché non esiste offerta all’altezza dei bisogni e dei desideri, e in cui chi merita qualcosa è di partenza arruolato in un ambiente compromesso perché obbediente soltanto al potere In una società in cui la risposta delle istituzioni alla crescente e brutale violenza che serpeggia tra coetanei all’interno di quel magma del proletariato giovanile, razzializzato, macista, povero (in tutti i sensi), è aumentare le pene detentive accusando le famiglie, in particolare le madri, di aver cresciuto figli degeneri, quale sarebbe la possibilità di integrazione e valorizzazione?

Assistiamo negli ultimi tempi a una fase di attivazione giovanile dalle forme plastiche, a volte burocratizzate. I movimenti recenti per il clima o che chiedono diritti o “pari opportunità”, guardano a un orizzonte altissimo che spesso limita il proprio agire. Questo fenomeno però si sta contaminando, sta maturando, seppur momentaneamente perdendo i suoi caratteri “di massa” per radicarsi e allargarsi. Episodi come questi, come le occupazioni degli anni scorsi, si collocano in un continuum in cui la qualità e l’autonomia di chi compone queste effervescenze si fa strada, in una giungla sempre più ostile in particolare ai più giovani.

E’ da riconoscere la capacità dei giovani e giovanissimi di indicare gli spazi di possibilità nel presente, una rara qualità oggi che molto spesso viene messa da parte per dare priorità al senso di impotenza e alla conservazione di ciò che si è costruito.

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