
Gay Pride, la maschera di tolleranza di Israele
Venerdì una grande parata per le strade della capitale israeliana ha celebrato i venti anni di Gay Pride nel Paese. Eventi culturali, marce, feste sulla spiaggia di Tel Aviv e concerti saranno il filo conduttore del Mese dell’Orgoglio Omosessuale in Israele, ufficialmente iniziato il 31 maggio. Per l’occasione la città si colora con bandiere arcobaleno e addobba le vie principali, in attesa – secondo gli organizzatori – di oltre 20mila visitatori stranieri che parteciperanno ai vari eventi insieme ai gay e alle lesbiche israeliani. Lo scorso anno, secondo i dati finali della manifestazione, hanno preso parte alle celebrazioni circa 100mila persone.
Alla parata, oltre alla modella Bar Rafaeli che aprirà la festa in spiaggia, hanno partecipato anche personaggi politici di rilievo, dal sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ai ministri Lapid e Livni, oltre ai leader dei partiti di opposizione, Yacimovich e Gal-On. Il Gay Pride in Israele ha un significato molto diverso da quelli che si svolgono in Europa o Stati Uniti: il Comune di Tel Aviv ha investito 590mila shekel (circa 120mila euro) nella manifestazione e altri 225 mila andranno a favore di una campagna di marketing diretta ai turisti gay. «La Parata dell’Orgoglio è diventata uno dei simboli della città – ha detto il sindaco Huldai – Decine di migliaia di israeliani e turisti da Israele e da tutto il mondo prendono parte alla manifestazione ogni anno. Credo che Tel Aviv, città della tolleranza, sarà faro e bussola per altre città del Paese».
Da tempo Tel Aviv ha scelto la tolleranza verso gli omosessuali come propria bandiera, simbolo dell’apertura e dell’assenza di discriminazioni nella società israeliana: l’obiettivo delle autorità è mostrare il Paese come l’unica vera democrazia in Medio Oriente, l’unica in grado di differenziarsi dall’omofobia e la repressione dei vicini arabi. La realtà dei fatti è ben diversa. Lo chiamano “pinkwashing”: un sistema di propaganda volto a ripulire l’immagine dello Stato di Israele agli occhi dell’intera comunità internazionale, un’immagine generalmente associata a guerre, occupazione dei Territori Palestinesi, colonie, Muri, checkpoint militari e repressione della minoranza araba. Come? Attraverso una cultura di uguaglianza e tolleranza verso gay, lesbiche, bisessuali e transgender (LGBT).
«Si tratta di un uso cinico dei diritti degli omosessuali per distrarre l’attenzione dalle continue violazioni dei diritti umani che Israele compie contro il popolo palestinese e per normalizzare il sistema coloniale e di apartheid che Tel Aviv ha creato sul terreno». A parlare è l’associazione Al Qaws, organizzazione di queer palestinesi impegnata all’interno della comunità omosessuale in Palestina e in Israele. Da anni lavora per sostenere gay e lesbiche palestinesi sia individualmente che come collettività, attraverso azioni volte a portare all’interno di una società tradizionalista un tema tanto importante.
Sono numerosi i gruppi sorti all’interno della società palestinese e dedicati al tema, gruppi spesso gemellati con i loro omonimi israeliani, impegnati a smascherare le reali intenzioni del governo israeliano. Come Pinkwashing Israel, movimento web che raccoglie attivisti di tutto il mondo, o Palestinian Queers for Boycott, Divestment and Sanctions (PQBDS), o ancora Israeli Queers Against Israeli Apartheid. «Chiamiamo pinkwashing tutta quella serie di pratiche volte a nascondere le violazioni israeliane dietro una facciata di progressismo e uguaglianza – proseguono gli attivisti di Al Qaws – Il loro obiettivo è isolare omosessuali e bisessuali da altre identità sessuali e farsi paladini dei loro diritti, mentre proseguono indisturbati l’occupazione brutale del popolo palestinese. Un esempio: da una parte Israele mostra tolleranza e apertura verso il mondo gay, dall’altra impedisce per legge il ricongiungimento familiare di una coppia palestinese se uno dei coniugi vive in Cisgiordania. O ancora non permette all’interno dei suoi confini un matrimonio tra un ebreo e un non ebreo, ma solo tra due ebrei: in caso contrario, ci si deve sposare all’estero. Si tratta di razzismo, che non ha nulla a che vedere con il rispetto dei diritti dei gay: Israele non sta promuovendo i diritti degli omosessuali, ma anzi li usa per giustificare un’occupazione militare, politica, economica e culturale».
Impegnati nella campagna di promozione di Israele come patria gay, ci sono i vertici politici: il governo israeliano, associazioni sponsorizzate dall’esecutivo e organizzazioni internazionali.«Tutti lavorano per mettere a confronto la tolleranza israeliana con quella che dipingono come la barbara omofobia palestinese e araba. E’ vero, l’omofobia esiste nella società palestinese, così come in altre parti del mondo. Siamo noi, etero, gay e lesbiche palestinesi, insieme alla società civile, a dover lavorare per cancellare tale fenomeno, per portare la questione sul tavolo e promuovere i nostri diritti sessuali, e non il governo israeliano o il suo Ministero degli Esteri. Non ci devono usare per fare propaganda. Anche perché se fosse vero che Tel Aviv intende aiutare, come dice, i gay e le lesbiche palestinesi, allora ci apra le porte. Questo non accade: se vivi in Cisgiordania, non sarai accolto dal tollerante Israele».
La questione è arrivata fin sul tavolo del World Social Forum di Porto Alegre del 2012: l’assemblea ha emesso una dichiarazione ufficiale con la quale condanna la pratica del pinkwashing, intesa come strumento per distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti del popolo palestinese e dall’occupazione e il regime di apartheid instaurato in tutta la Palestina storica. Uno degli strumenti di resistenza scelti dalla comunità LGBT palestinese è il BDS, la campagna globale di boicottaggio contro lo Stato di Israele, iniziata nel 2005 su ispirazione del movimento di boicottaggio del regime sudafricano di apartheid negli anni Ottanta e Novanta. Il mondo si mobilitò, avviando una serie di iniziative di boicottaggio economico, culturale e accademico delle imprese, le università e gli istituti sudafricani, fino al crollo del regime di apartheid.
Stesso l’obiettivo della campagna BDS, che ha come target lo Stato di Israele. Tra le organizzazioni internazionali e locali impegnate nel movimento, c’è la Palestinian Queers for BDS. Parliamo della loro attività con una delle fondatrici, H. F. Ha chiesto di restare anonima, come fa da quando lavora come coordinatrice della campagna, per evitare ripercussioni. «Abbiamo iniziato a lavorare nel 2009, anche se la prima campagna vera e propria risale al 2010. Più che un’organizzazione, la nostra è un collettivo di attivisti e volontari. L’idea è nata dalla volontà di fondere il lavoro di Al Qaws, da cui molti di noi provenivano, con la campagna BDS nell’obiettivo di combattere la pratica del pinkwashing a livello internazionale. La nostra prima campagna ha avuto come target la IGLIO (International Gay and Lesbian Organization) che nel settembre 2011 decise di tenere la sua assemblea generale a Tel Aviv, con i fondi del governo israeliano e del Comune. Non siamo riusciti nell’interno di far cancellare subito l’evento, nonostante le lunghe discussioni avute con loro e nonostante avessero ben chiaro cosa significasse pinkwashing. Ma è stato comunque utile per darci la spinta a proseguire, mobilitando organizzazioni omosessuali in tutto il mondo, attirando su di noi l’attenzione di singoli omosessuali e promuovendo la nostra causa: in breve l’IGLIO ha ricevuto oltre 500 lettere, sia di singoli individui che di associazioni gay e lesbiche che annunciavano che non avrebbero partecipato all’assemblea generale se si fosse svolta a Tel Aviv. E abbiamo vinto: hanno trasferito tutto ad Amsterdam».
«Con il tempo siamo stati in grado di radicarci all’interno del più ampio movimento di resistenza popolare palestinese – continua H.F. – Partecipiamo alle attività organizzate dalla società civile, in particolare dal movimento BDS. Diciamo che stiamo concretizzando il nostro lavoro, che non è certo semplice in una società araba e conservatrice, spesso ancora troppo maschilista. La situazione non è facile, per questo ci muoviamo con cautela: bussiamo alle porte delle organizzazioni su cui sappiamo di poter contare per avviare con loro collaborazioni di più ampio respiro. Da altre non andiamo neppure».
«Allo stesso modo, non è scontato che molti uomini e donne ci contattino spontaneamente perché gay e lesbiche. Il nostro è un lavoro difficile, a livello politico e sociale. Per questo molti non rivelano la loro identità, ma ci contattano via telefono o via mail. Ma resta il concetto di base: noi riteniamo che la battaglia per i diritti delle donne e per quelli degli omosessuali sia strettamente connessa alla lotta contro l’occupazione. Tutti, non importa il genere o le preferenze sessuali, devono lavorare all’interno della società palestinese per democratizzarla e all’esterno, per porre fine all’occupazione militare israeliana».
da Nena News
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