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Poletti a Trento e i trucchi del Jobs Act

Finito nelle polemiche per la solita frase infelice (questa volta la figura ridicolizzata è “Mario l’imbianchino”, incapace, secondo il ministro, di capire la differenza tra Internet e un’Apecar) Giuliano Poletti ha affrontato, al Festival dell’economia di Trento, un tema ben più dirimente della presunta “evangelizzazione digitale” che avrebbe in cantiere il suo governo. Ha infatti sostenuto che, grazie al Jobs Act, un’epoca nuova è cominciata nel mondo del lavoro, fatta di tutele e assunzioni. “Fino a tre mesi fa, in Italia, la precarietà era un dramma”; oggi, invece, “grazie a 150.000 nuovi contratti a tempo indeterminato”, la precarietà si avvia ad essere un lontano ricordo. Narrazione a dir poco pretenziosa, se si considera che, rispetto al maggio 2014, i dati ufficiali parlano di una situazione invariata.

Proprio l’introduzione del contratto a tutele inesistenti di matrice polettiano-renziana rende questo dato due volte fasullo, visto che, indubbiamente, con esso alcune posizioni irregolari sono state portate fuori dal sommerso, senza che questo implichi una crescita, sua pur minima, dei dati effettivi dell’occupazione (la disoccupazione, soprattutto giovanile, è in realtà in crescita). Come noto a chi lavora, infatti, il nuovo contratto a tempo indeterminato altro non è che la sanzione giuridica complessiva della precarietà lavorativa: se prima esisteva una differenza tra determinato e indeterminato (peraltro chimerica per le generazioni più giovani) adesso, con l’indeterminatezza fattuale del formalmente indeterminato, questa distinzione è venuta a cadere.

In qualche modo il governo Renzi non ha fatto che sancire legalmente, e organizzare in modo più coerente sul piano del diritto del lavoro, una condizione materiale dei rapporti di produzione contemporanei. Questa sanzione – passaggio ultimo di un processo iniziato con il pacchetto Treu e proseguito con la legge 30 (cosiddetta “legge Biagi”) – è stata presentata, giustamente, come parte degli attacchi alla forza lavoro salariata del capitalismo odierno, nel momento in cui essa manifesta difficoltà a trovare forme conflittuali di protagonismo sociale e, non di rado, anche soltanto a riconoscersi come comune ambito d’interesse. Il Jobs Act del resto, lungi dall’essere l’inizio della fine della precarietà, non è neanche un’effettiva riforma del mercato del lavoro; e forse è questo un punto su cui non si è ancora insistito abbastanza.

È vero che, benché l’occupazione non sia aumentata, alcune decine di migliaia di situazioni lavorative sono passate dalla giungla contrattuale tuttora esistente alla forma renziana di finta assunzione stabile. Questo, però, non modificando in modo sostanziale la flessibilità profonda del rapporto lavorativo, non costituisce in alcun modo un “incentivo” al nodo delle assunzioni nel mercato capitalistico. Dove risiede, allora, la sua necessità per le imprese? Semplice: con ogni nuovo contratto formalmente indeterminato, ciascuna impresa risparmia circa 8.000 euro in sgravi fiscali. Questa è la vera bomba: un regalo milionario al capitale d’impresa, che contribuisce ora molto meno al gettito complessivo verso le casse dello stato, mantenendo invariato il suo potere su una forza lavoro sempre più gerarchizzata e spoliata di ogni possibile autonomia.

Dove il governo andrà a reperire le risorse per coprire il salasso fotonico che si è autoinflitto con questo regalo (dovuto, ci mancherebbe) alla galassia imprenditoriale che lo appoggia e lo sostiene? Questo dovrebbe spiegare Poletti, anziché blaterare di evangelizzazione digitale e imbianchini. Il Jobs Act, oltre a non creare occupazione e a non fornire alcun beneficio a chi lavora, costituisce la premessa contabile per nuovi e più pesanti attacchi al Welfare, in uno scenario in cui lo scontro tra chi vende la propria forza lavoro e chi può permettersi di comprarla si dispiega ormai a 360 gradi. In questo scontro lo stato è sempre più parte in causa: agente diretto del mondo dell’impresa e interprete delle sue esigenze, finge di esprimersi sul terreno dei diritti per attaccarci, in realtà, tanto su esso quanto su quello della redistribuzione.

 

 

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