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Lavorare senza diritti non è illegale, è la norma

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Non lo troverete tra i temi dibattuti dagli androidi replicanti dei partiti impegnati nella campagna elettorale. Un recente rapporto a cura di Censis e Confcooperative, ripreso da La Stampa, dice una cosa ben chiara. Ovvero che nel corso della crisi, il lavoro nero è aumentato a dismisura proprio mentre i salari facevano il movimento inverso.

Più di 3 milioni di lavoratori sono in condizione irregolare, spinti da una concorrenza sfrenata per accaparrarsi ogni piccolo lavoro, anche temporaneo. Tra il 2012 e il 2015 si volatilizzavano 462 mila posti di lavoro tra lavoro autonomo e dipendente, mentre 200 mila posti si creavano nell’economia sommersa. Per queste persone non esistono contributi, prestazioni sanitarie o altre forme di diritti come ferie e malattia pagate. Il loro salario medio è dimezzato rispetto a quello che otterrebbero in impieghi “legali”.

In questo scenario, i pasdaran del JobsAct renziano rivendicano il proprio operato, affermando che è proprio agevolando fiscalmente le imprese che si eliminano le illegalità dei datori di lavoro, spingendoli a uscire dall’oscurità. Una vera e propria menzogna, utile solo alla propaganda per legittimare provvedimenti come la flat tax proposta dal centrodestra, la quale permetterà alle imprese di pagare milioni di euro di tasse in meno in barba ad ogni progressività anche mascherata del sistema fiscale.

Il vento soffia in una direzione molto chiara: l’illegalità e lo sfruttamento nel lavoro saranno sempre più regola e sempre meno eccezione. Del resto anche gli occupati “legali”, come tutti i precari e le precarie ben sanno, risultano occupati anche lavorando solo un’ora a settimana. E sono proprio JobsAct e leggi sulla “flessibilità” ad aver abbassato ulteriormente salari e diritti, rendendo norma quello che dovrebbe essere eccezione.

I dati sull’occupazione nel nostro paese, per quanto già tragici, sono quindi pesantemente sottostimati. Ma anche questa è la norma, su scala globale. In un paese come gli Stati Uniti in cui la vittoria elettorale di Trump ha avuto come carburante la rabbia e il risentimento soprattutto della classe lavoratrice, per le rilevazioni ufficiali siamo di fatto in piena occupazione..statistica, abbiamo un problema!

La realtà è che il fabbisogno lavorativo è talmente basso che assumere è diventato a prescindere poco conveniente, e il solo lavoro che può rimanere è quello spogliato da ogni forma di diritto.

Automazione e innovazione tecnologica, insieme ai livelli enormi dell’offerta globale di merci in un mondo dove per queste è sempre più facile viaggiare liberamente, stanno proseguendo inesorabilmente la devastazione del patto sociale postbellico iniziata qualche decennio fa, in un contesto in cui i corpi intermedi come i sindacati sono ormai distrutti ad ogni latitudine.

L’avvento di Trump e la forza assunta dai partiti di stampo reazionario in tutta Europa mostrano esattamente l’incapacità di offrire una soluzione alternativa alla crisi del lavoro, che mini alla base ogni residuo lavorista e affermi la necessità di slegare il reddito dalla prestazione erogata.

Nella nostra campagna elettorale, questo ragionamento di lungo periodo è ovviamente inesistente. Non sia mai che si possa andare ad attaccare anche una minima sacca di rendita del capitalismo nostrano. Ogni proposta di reddito di quelle avanzate strumentalmente dai partiti non è mai pensata su uno sguardo strategico ma sempre nell’ambito della propaganda, della mancetta, quando non più subdolamente in un’ottica di workfare, di sfruttamento in cambio di briciole utili al sostentamento temporaneo.

Non che ci stupisca. La potenza della finanza, che detta i suoi diktat agli esecutori obbedienti di Bruxelles e dei singoli parlamenti, non ha interesse alle condizioni della forza lavoro in eccesso nel mercato, vale a dire della stragrande maggioranza della popolazione.

Una parte di società, la nostra, che non ha alcuna possibilità di essere rappresentata all’interno di un sistema costruito sul suo sfruttamento e sulla sua strutturale esclusione. Il 24 febbraio a Roma sarà un momento importante per mostrare la necessaria ostilità a questa situazione, a pochi giorni di distanza da una consultazione che avrà un esito senza dubbio ostile ai suoi interessi.

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