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L’attesa solitudine del “sindacato” giallo

E’ proprio giusta la domanda che si pone Ilvo Diamanti in apertura dell’articolo “La solitudine del sindacato” ospitato oggi da Repubblica: a chi serve il sindacato? La questione sollevata da Diamanti è baricentrale, ma è nuova solo per chi non conosce le realtà di vita dei (pochi) milioni di giovani lavoratori e sopratutto dei (tanti) milioni di giovani disoccupati nel nostro paese, uniti dalla mancanza di un reddito capace di assicurare di (soprav)vivere aldilà del genere e della provenienza geografica.

I dati sul consenso in picchiata esposti da Diamanti sembrano ricordare quelli che negli ultimi anni hanno descritto il crollo di credibilità dei partiti tutti, mai più tornati sia in termini di sentito diffuso che di sostegno numerico reale ai livelli – già in crisi – del pre 2007. Combinando tutti questi discorsi vediamo come sia evidente la crescita in tutti gli ambiti (politico tout court, ma anche sul posto di lavoro) di una fascia sociale in mancanza di alcuna forma di rappresentazione e di rappresentanza, che già descrivevamo qui. E se un tempo il sindacato era considerato ancora in grado di offrire una sponda “pulita” ad un mondo della politica sempre più marcio, ora sembra sempre meno cosi.

La realtà, correttamente sempre più percepita, è quella di un sindacato che si è sempre posto anch’esso in difesa di una sola sezione della forza-lavoro e della società, sperando di conservarne l’appoggio a tempo indefinito. Ma se purtroppo a votare si va sempre, non sempre ci si iscrive spendendo dei soldi ad istituzioni percepite come inutili, talmente inutili al punto tale che spesso si va a lavorare lo stesso rifiutando di fare sciopero perchè già si sa che quell’astensione dal lavoro sarà fondamentalmente inutile. Le ondate di spostamento di massa dai sindacati confederali a quelli di base testimonia proprio questo: o si lotta o il sindacato è inutile. E’ questo ciò che sottende il crollo della CGIL, è questo ciò che attende l’istituzione sindacale confederale in generale se proseguirà in questo modus operandi.

Ovviamente Diamanti evita alcuna differenziazione tra sindacato e sindacato: per il sociologo quello da analizzare è solamente il sindacato confederale, cristallizzatosi come istituzione cardine del dispositivo di tenuta sociale dei giorni nostri. E’ chiaro che prendere in considerazione altri tipi di sindacati, analizzarne i successi o comunque le modalità d’azione rispetto alle relazioni industriali e alle logiche del “sistema-paese” lo indurrebbe a dover riaggiornare tutta l’indagine. Ma parlando solo di “sindacato” si riesce ad attaccare tutto quanto in un indistinto magma che è anche la tecnica narrativa usata da anni e anni per delegittimare e inserire in un calderone unico tante esperienze diverse, tra cui anche quelle conflittuali.

Quindi tornando alla domanda iniziale di Diamanti, a chi serve questo preciso tipo di sindacato? Probabilmente oggi come oggi solo a quegli stessi garantiti che assicurano la tenuta del governo Renzi e del suo blocco di potere. Non ci sono solamente, purtroppo, solamente le famiglie ricche che comprano pagine di giornali a sostenere il premier, ma anche quei ceti medio-alti che in provvedimenti come l’abolizione di IMU e TASI vedono un grande nuovo trasferimento di ricchezza nei loro confronti, proporzionalmente molto più alto di quello riservato da questa misura alle persone che probabilmente una casa non riusciranno mai ad acquistarla in tutta la loro vita. Parallelamente questi stessi garantiti (vedasi i pensionati) continuano a restare fedeli al sindacato che progressivamente si sposta sempre più lontano dal mondo del lavoro effettivo.

Il gap di rappresentatività è derivante dalla scelta sindacale di cercare negli ultimi anni una connivenza con il partito politico di riferimento all’insegna dell’ottenimento di piccole vittorie che potessero garantire la riproducibilità del ceto politico sindacale e del suo potere di contrattazione con governi di colore opposto (vedi ad esempio il ruolo avuto dalla CGIL nell’attaccare il governo Berlusconi durante il periodo delle riforme Gelmini nella scuola, ad esempio, o viceversa quanto fatto da Cisl, Uil, Ugl).

Ci si lamenta della burocratizzazione del sindacato, ma anch’essa è una conseguenza inevitabile ragionando solo per costruzione, depurati da alcun intento “ideologico”: nel momento in cui diminuiscono sempre più le risorse che l’ipercompetizione capitalistica globalizzata destina alla riproduzione sociale del nostro paese, si attua un dispositivo per il quale si costruiscono quelle divisioni tra garantiti e non-garantiti, sulle quali si modellano le offerte politiche dei partiti, ma anche dei sindacati. La scelta che ne deriva è o quella di schierarsi con le nuove fasce prodotte dalle modificazioni dell’economia analizzandone i problemi e valutando le maniere di risolverli, oppure quella di mantenersi immobili puntando sulla soddisfazione dei pochi che rimangono volenterosi nel pagare le quote delle tessere d’iscrizione.

Fare questa seconda scelta equivale a voler rinchiudersi nella difesa della propria quota di garantiti e fregarsene ampiamente di tutti gli altri. Peccato che aldilà dei dati dei pensionati (categoria sociale, i possessori di pensione, tutta da verificare da qui ai prossimi 30 anni in termini numerici) tutti gli altri siano quei lavoratori “atipici e atopici” descritti da Diamanti che costituiscono la stragrande maggioranza del mondo del lavoro che verrà.

La conclusione di Diamanti, di cui conosciamo bene l’internità al campo avverso al nostro, esprime una sorta di rimpianto per tutto questo, nascondendo la problematicità della scomparsa del vecchio tipo di controllo sociale incarnato dal sindacato con un lamento sul fatto che gli ultimi e i penultimi non sarebbero più aiutati da nessuno. Ultimi e penultimi (lo abbiamo visto nelle lotte sulla logistica, ad esempio) sono in grado benissimo, aiutati dalla passione dal coraggio e dall’impegno di tanti militanti sindacali, di mettere un argine allo sfruttamento che subiscono.

E’ da chiederci però anche quale sindacato serve a noi: un sindacato capace di cogliere l’infinita moltiplicazione degli ambiti di estrazione di valore nella fabbrica sociale; un sindacato metropolitano, capace di leggere i nessi che intercorrono tra lo sfruttamento nell’ambito della fabbrica, del call-center, del campo agricolo e quelli che avvengono nelle scuole e nelle università, nel diritto all’abitare e alla sanità. E di agirne le piazze, riempiendole e determinandole in relazione con i tanti altri soggetti attivi nei numerosi campi di espropriazione della ricchezza sociale.

Sarà solo in questo modo che si potrà dare un futuro ad un’istituzione che ad ogni modo, come ogni buon marxista ragionerebbe, dovrebbe esistere solo con la prospettiva di distruggersi..

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