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Per non morire da hypsters manieristi

Tra vestiti dismessi da decadi e eroi pop di generazioni del secolo scorso risulta difficile provare a comprendere cosa sta accadendo. Magalli, Piero Angela, Gianni Morandi, Jerry Calà e la loro riscoperta se da un lato scatenano una facile risata dall’altro ci pongono delle domande sui fenomeni che innervano i tratti soggettivi dei giovani d’oggi e il modo con cui stanno al mondo.
Liquidare questi fenomeni come spazzatura è una facile scorciatoia. Non basta steccare “l’hypsterismo” o prodursi in facili polpettoni di sociologia. Il recupero del vecchio ci parla immediatamente del mondo in cui viviamo, e anche di alcune specifiche del nostro paese.
Bisogna iniziare chiarendo che quello che viene recuperato è un “vecchio” senza Storia.
 
Degli anni ottanta e novanta, degli anni venti e cinquanta, non si interrogano gli eventi, le culture, le aspirazioni, ma si assume la superficie di un periodo considerato come felice, senza sconvolgimenti sostanziali. Statico, nonostante chi l’abbia vissuto potrebbe darne un quadro diverso. Nonostante allora come adesso qualcosa si muoveva magmatico sotto le placche della vita quotidiana.
Attori di secondo e terzo grado, vicende inutili e insufficienti ritrovano corpo e presenza inspiegabilmente in queste nuove ri-narrazioni. Altri vengono continuamente detournati per gioco e utilizzati come icone senza sostanza. Ben oltre la vulgata dei “bei tempi passati” e del “si stava meglio quando si stava peggio” quello che sta accadendo è il tentativo di costruire un rifugio sicuro. Un rifugio sicuro non può tenere conto delle complessità, deve rimanere in superficie e raschiare via i bubboni che ne emergono. E’ un recupero con rimozione continua di tutto, salvo delle proiezioni felici e appaganti. Non sono, se non parzialmente, i valori del passato ad essere ricercati, ma icone, immagini e momenti.
Per una generazione “senza futuro” con prospettive evanescenti e un contesto socio-culturale stagnante le utopie, i sogni non trovano proiezione nel domani, ma nei momenti di ieri forzandone gli elementi, rimuovendo la conflittualità e annullandone le specificità.
In qualche modo quello che si costruisce è un cortocircuito a-temporale e a-storico dove sono le invarianze a costituire il carattere fondamentale della narrazione.
 

La depressione della cyber utopia

Tra le ultime grandi utopie / distopie che il salto tecnologico degli ultimi decenni ha provocato c’è quella cybernetica. L’illusione di una possibilità di liberazione attraverso il virtuale, le reti internet, i social network e l’innovazione tecnologica in generale ha pervaso la società e in particolare le culture giovanili per anni. Hackers, twitter revolution, democrazia virtuale, informazione libera, connessione globale, pirateria e filesharing avevano convinto molti che fosse possibile costruire un nuovo mondo a partire dall’immateriale. Purtroppo la scottatura è stata violenta, scoprire che l’area di libertà della rete è stata colonizzata in fretta dal libero mercato, che molti dei meccanismi di liberazione sono diventati modi per far soldi e privatizzare settori della vita dell’essere umano, che l’informazione riesce comunque ad essere dominata dai grandi gruppi editoriali e che nella marea di conoscenze, input e icone che la rete offre quasi tutto perde di senso, è stato un trauma collettivo di una certa portata. Tanto che molti hanno lasciato la battaglia e altri si sono fatti trascinare dalla marea tra i social network e altri dispositivi affini che sviluppano rete dentro la rete, ma che costruiscono a loro volta muri e enclosures. Le Ucronie cyber degli anni novanta esprimevano in ogni caso un loro potenziale di fantasia, permettevano di immaginare mondi futuri liberati o assoggettati, ma in ogni caso permettevano il salto in avanti. I social network invece riproducono un uso privatistico e meccanico, incentrato sull’essere continuamente protagonisti del proprio mondo. Un mondo che però si riduce molto spesso ad essere vetrina, tra pochi amici, di gattini e foto modificate, di consumo seriale di informazioni e di voyerismo sulla vita degli “altri”, sempre all’esterno da noi. Non c’è fantasia e pochissima innovazione all’interno del mondo dei social. Le azioni sono codificate, pochi conoscono fino in fondo il mezzo e riescono ad ipotizzarne un controutilizzo. Anche gli sforzi più interessanti come la serie “Black Mirror” non riescono ad andare oltre l’accentuazione futuribile di caratteristiche che già esistono dentro questi sistemi, non riescono ad immaginare il superamento.
Certo, internet è stato ed è ancora effettivo mezzo di liberazione, ma solo dove dei movimenti reali, culturali e di lotta ne riescono a curvare le istituzioni e a egemonizzarne momentaneamente il flusso.
La fine delle cyberutopie corrisponde in qualche modo anche con la stagnazione che altri settori dell’immateriale come l’arte e la musica stanno vivendo.
 

La minestra riscaldata fatta ad arte

Moltissimi giovani dentro al mondo del self made, dell’autoimprenditoria cercano la via della fuga dal lavoro salariato attraverso le espressioni artistiche più disparate. Gesto ammirabile e ragionevole, ma che molto spesso nasconde delle insidie sostanziali. Anche qui la codifica la fa da padrona. Gli standard sono ben chiari. Le poetiche non sono altro che una serie di vestiti nell’armadio tra cui scegliere, raro che qualcuno ne inventi altri, rarissimo che qualcuno distrugga l’armadio. La “mercatizzazione” dell’arte riproduce un manierismo del terzo millennio. A nostro modo siamo tutti artisti, o meglio artigiani dell’arte, o meglio ancora operai dell’arte.
In gran parte delle produzioni artistiche infatti vi è stato uno spostamento di volontà: dal cosa comunicare si è passati al come comunicare. La forma spesso priva di sostanza, o dotata di una sostanza apparente da consumare in fretta e rigettare nella spazzatura.
Manca da tempo un disco che sia espressione di un sentire generazionale, uno stile pittorico (se si fa eccezione del writing e della street art) che oltre a innovazioni pratiche esprima anche innovazioni di significato, una perfomance che rivendichi realmente la rottura con ciò che già esiste e non soltanto con le sue forme. Eserciti di giovani riproducono simulacri di immaginari consumati perdendone la bussola e il senso. Non si tratta di imputare la responsabilità a chi è sfruttato e sottopagato per lavorare in uno dei mercati più redditizi come quello della cultura, si tratta di capire come uscire da questo sfruttamento, come riprendere dominio del significato, come liberarsi ancora.
Molti talenti e capacità si frustrano nel ridursi al minimo sindacale della riproduzione di immaginari, nell’anestetizzarsi senza sforzo nelle ricette facili, nel neutralizzare la possibilità della comprensione. La teoria dell’oggi insegna che non bisogna farsi comprendere, bisogna stupire, impressionare. Ma solo la radicalità di un messaggio di rottura comprensibile a molti stupisce veramente, e caso mai può far paura a chi governa l’esistente e rimescolare le carte del futuro.
L’arte di per sé è una scatola vuota, un effimero esercizio di stile, ma se riempita può diventare un’arma contundente.
 

Che noia…

E’ ovunque, lo è anche questo scritto. Ma tocca essere scevri tanto dai moralismi, quanto dalle disillusioni. Non c’è discussione, nessuno costruirà spazi di espressione liberi per la nostra fantasia, nessuno ci aprirà porte di partecipazione e condivisione, nessuno ci offrirà una formazione più critica, nessuno ci darà serate più divertenti, o soldi per vivercele. Nessuno costruirà per noi musei che non siano tombe del sapere o biblioteche meno tristi. Nessuno ci offrirà un disco da ascoltare tutta la vita sapendo che ha rappresentato dei momenti importanti per noi, nessuno ci scriverà un libro che parla delle nostre vite e dei nostri desideri. Nessuno immaginerà un mondo per noi. Solo noi possiamo riprenderci quel respiro vitale e ridare colore, interesse, conflitto e possibilità a questa triste società. Dobbiamo decidere se vivere provandoci o morire da hypster.

 

SUAG – Solo Un Altro Giornalino

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