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Non esistono lotte ‘locali’

di Serge Quadruppani

per Nuova rivista Letteraria 7 – Maggio 2013

Dalla Val di Susa al Cotentin, dalle vallate basche a Creta, dalle Saline Joniche alle foreste intorno a Mosca, da Niscemi al bosco di Morvan, da Gorleben allo stretto di Messina, dalle città marocchine alle campagne polacche si può stimare in centinaia di migliaia il numero di persone che negli ultimi anni si sono mobilitate contro progetti che distruggono territori e modi di vivere che in quei territori si erano sviluppati. Se aggiungiamo i contadini e cittadini in lotta dall’India all’Ecuador, contro il land grabbing nel quadro dello sviluppo agricolo «moderno» o contro progetti minerari; gli abitanti dei villaggi in lotta contro l’appropriazione delle foreste in Cambogia; i residenti cacciati dai loro vecchi quartieri in Cina etc. si può dire che questi movimenti d’opposizione coinvolgono milioni di persone. Di fronte a queste battaglie, a tutte le latitudini, il potere non cessa di ripetere il suo mantra: progresso, sviluppo, posti di lavoro. Ciononostante, si può prevedere che la moltiplicazione e l’amplificazione su scala planetaria di queste lotte sarà uno dei fenomeni più importanti nei decenni a venire.

Simili manifestazioni di resistenza non sono certo nuove. In Francia non ci si è scordati del Larzac, qualcuno in Italia ricorda ancora la Val Bormida [Cfr. Alessandro Hellmann, Cent’Anni di Veleno, Stampa Alternativa, 2005; Patricia Dao, Bormida, Oxybia Editions (edizione bilingue)]. La lotta di una parte degli abitanti di una valle tra Liguria e Piemonte contro una fabbrica di esplosivi (prima) e prodotti chimici avvelenanti (poi), è durata praticamente 117 anni, dalla fondazione dello stabilimento alla sua chiusura nel 1999. Nei suoi ultimi dieci anni, quel movimento seppe conquistarsi solidarietà diffusa nella penisola, tuttavia non c’è mai stato nulla di paragonabile a quanto accaduto dopo che Luca Abbà, arrampicatosi su un traliccio dell’alta tensione di fronte al cantiere TAV in Val Clarea, è rimasto fulminato. Una reazione di solidarietà di un’ampiezza senza precedenti è dilagata per la penisola, con manifestazioni spontanee in una decina di città, a volte seguite dal blocco delle stazioni o delle tangenziali. Va ricordato che, due giorni prima dell’«incidente» occorso a Luca, circa 100.000 persone avevano manifestato in valle. Qualcosa di simile è accaduto in Francia, su scala minore, dopo le prime espulsioni che hanno colpito la ZAD a Notre Dame des Landes.

Nel 1963, per la costruzione di un nuovo aeroporto vicino a Nantes, fu scelta una zona rurale punteggiata di boschi e zone umide protette. A partire dal 1972, questo progetto ha incontrato l’opposizione di numerosi contadini del luogo, ai quali si sono presto uniti gruppi ecologisti. Nel 2008 in quella che le autorità chiamano ufficialmente ZAD [Zone d’Aménagement Différé, Zona di Pianificazione Differita] si è sviluppata un’altra ZAD, la Zone à Défendre [Zona da Difendere], dove «squatters» di diverse nazionalità si sono dapprima insediati in edifici venduti dai loro proprietari a chi proponeva il progetto (la multinazionale dell’edilizia Vinci e il Consiglio regionale) e poi, una volta abbattuti tali edifici, dentro capanni costruiti nei boschi.

Il 16 ottobre 2012 l’operazione di polizia «César» ha mobilitato 1200 poliziotti, elicotteri e blindati per ottenere scarsi risultati, vista la resistenza incontrata. Resistenza che ha assunto tutte le forme possibili, dalle barricate alla reazione non-violenta al denudarsi. La solidarietà spontanea di centinaia di persone che hanno offerto provviste e materiali, seguita dall’imponente manifestazione del 14 novembre sfociata nella ricostruzione e rioccupazione dei capanni abbattuti, ha avuto una tale risonanza che il governo e in particolare il primo ministro Jean Marc Ayrault – che è stato a lungo sindaco di Nantes e ne aveva fatto una questione personale – sono dovuti scendere a compromessi. Il passo indietro è consistito nel creare una «commissione per il dialogo». Dialogo il cui esito dipenderà interamente dal rapporto di forza che gli oppositori alla costruzione dell’aeroporto riusciranno a creare dopo una tregua di alcuni mesi.

Una questione di potenza

Nel clima deprimente che tocca le lotte sociali in Francia come in Italia, Notre-Dame des Landes e la Val di Susa costituiscono significative eccezioni, sia per la forza del movimento sia per la rilevanza del sostegno ricevuto. Le ragioni di questo sono molteplici. La prima è la stessa che attrasse decine di migliaia di persone nelle grandi manifestazioni del Larzac. Quando, in un determinato territorio, il rifiuto dell’arbitrio statale acquisisce una forza sufficiente a resistere nel tempo, si crea uno spazio al tempo stesso geografico e simbolico, dove possono confluire tutte le lotte contro i comandi imposti dall’alto che devastano la vita di chi sta in basso.

Studenti medi e universitari che rifiutano l’ennesima ristrutturazione neoliberista dell’istruzione, operai che resistono allo smantellamento del diritto del lavoro, oppositori di diversi altri progetti, tutte queste moltitudini sempre più numerose, anno dopo anno, sono affluite nella valle che resiste, perché riconoscono in quel luogo ciò che avevano bisogno di costruire per loro stessi: una potenza. Questa potenza è ancorata alla realtà di un territorio, che è l’incontro tra il suolo e gli umani che lo abitano, e di tutto ciò che tale incontro ha prodotto: paesaggio, produzione materiale, relazioni umane, immaginario… La concretezza di un luogo preciso si oppone all’astrazione di aerei luoghi virtuali, ai poteri disseminati negli uffici da Roma a Bruxelles passando per Parigi, nei corridoi delle multinazionali, nelle transazioni sottobanco delle mafie, negli intrighi dei partiti e negli scambi di favori, dal Municipio di Bussoleno fino alle altitudini smaterializzate degli scambi elettronici istantanei della finanza globale, delle grandi compagnie e delle strutture statali e mafiose – tutto il rumore di fondo di questa rete di poteri ultimi che è piuttosto pratico ed efficace definire Impero. Il tardo capitalismo, con la sua utopia di sviluppo sganciato dal territorio (utopia perché basata sull’ipotesi di un pianeta dalle risorse illimitate), è il nemico diretto delle lotte locali.

Anche gli operai che rifiutano la delocalizzazione delle loro fabbriche – o una certa delocalizzazione «sul posto» che consiste nel far lavorare a condizioni semi-cinesi – si scontrano con l’Impero e con la difficoltà di dargli una fisionomia precisa. Ma lo fanno da una posizione di debolezza, perché si dice loro che quello spazio dove la loro vita, per mezzo del loro lavoro, si valorizzava, adesso non vale più niente, e di conseguenza nemmeno la loro vita vale più niente. Patetico spettacolo, quello dei lavoratori che occupano una fabbrica che deve chiudere. Situazione di stallo, con operai alla ricerca di un acquirente, vale a dire un nuovo sfruttatore che consenta loro di essere sfruttati. I più radicali potranno forse, facendo un po’ di tumulto o prendendosela coi politici, ottenere un minimo di risarcimento per andare a tirare la carretta altrove. Lì dove sono non sono più niente. Il delocalizzato viene così restituito alla condizione di proletario assoluto, perché nessuno vuole più saperne della sua unica ricchezza, la forza-lavoro, e non può nemmeno dire che ha da perdere solo le proprie catene: le catene, da tempo, sono passate ai suoi omologhi cinesi o bulgari.

Al contrario, la potenza delle lotte sul territorio colpisce luoghi indispensabili alla delocalizzazione: occupandoli, la si blocca. Per far funzionare una società che si nutre della parcellizzazione della produzione, della produzione a basso costo, della circolazione incessante di informazione, finanze, uomini e prodotti, servono luoghi ben concreti dove i flussi passino, aeroporti per far decollare tanto i manager quanto i turisti low cost, tunnel di 57 chilometri per far correre più veloci le merci tra Lione e Torino… Serve la linea ad alta velocità Poitier-Limoges perché il capitale possa circolare. E’ in questo che le lotte del territorio di oggi si distinguono da quelle del passato, come quella del Larzac, il cui motore essenziale rimase il rifiuto dell’autoritarismo statale: oggi non è più solo un «modo di governare» a essere messo in discussione, ma un intero mondo.

Per tracciare il volto di questo mondo, ecco il numero 4 della rivista Territoires 2040, edita dal DATAR [Direction à l’aménagement du territoire].

Qui si trova la massima elaborazione teorica a cui possa giungere l’intelligenza salariata al servizio del mantenimento dell’ordine delle cose. Nell’introduzione al dossier, opera di un brillante barone universitario, tre punti attirano l’attenzione: bisogna accettare l’ineluttabilità delle innovazioni dettate dalla tecnoscienza e dalle necessità economiche; la lezione di Fukushima non è che bisogna impedire le catastrofi, ma che bisogna preparare a esse le popolazioni; si va verso un mondo dove si svilupperà la segregazione spaziale: comunità ultra-securizzate per i ricchi, ghetti per i poveri.

Col supporto di tesi, analisi e scenari di fiction (secondo le strategie dello storytelling, segno di modernità), si presenta lo spazio del futuro come quello dove poche metropoli producono valore mentre, nel mezzo, restano le terre desolate delle popolazioni devalorizzate. Nello spazio tra le città ci sono le vie di circolazione e le dighe, i parchi eolici o le centrali destinate a farle funzionare: le cosiddette Grandi Opere. Il capitalismo «sospeso» ha bisogno, di tanto in tanto, di posare i piedi sul terreno, ed è quel terreno che le lotte cosiddette «locali» gli toglieranno da sotto i piedi.

Volti dell’altro mondo

Come dice lo slogan «Contro l’aeroporto e il suo mondo», dietro ogni grande opera c’è ben più di uno specifico progetto. Per questo migliaia di persone sono venute a sguazzare nella fanghiglia dei campi di Nantes. Ed è perché sentono che è tutto un modo di vivere a voler trivellare la montagna che migliaia di altri sono venuti in val di Susa. La cosa più notevole è che, opponendosi a un mondo, ne stanno creando un altro. Questa è la seconda ragione che attira persone in questi luoghi, ragione tanto più forte e nuova perché rompe con l’irragionevolezza fondamentale dell’epoca.

Un giornalista alla ricerca di un portavoce nel mezzo di centinaia di capanni oggi esistenti nella ZAD, lo/la troverà forse alla No-TAVerna, luogo di socialità annaffiata il cui nome è un chiaro omaggio alla Val di Susa. Ad ogni incontro, il/la portavoce dichiarerà di chiamarsi «Camille», e se il giornalista dovesse avere un livello di intelligenza da televisione francese, si appunterà seriamente quel nome, che in francese è unisex, senza accorgersi che tutti i portavoce interpellati dai media si chiamano sempre Camille. Questa pratica spontanea, che soddisfa il gusto del nome collettivo ben conosciuto da qualcuno dei miei amici italiani, è solo una delle molteplici manifestazioni di creatività degli abitanti della ZAD. Se ne possono elencare all’infinito.

I nomi dei luoghi: si va dal Phare Ouest (Faro Ovest, ma si pronuncia come «Far West») allo Chat Taigne («Gatto tignoso», ma anche «Castagna») passando per il «Black Bloc sanitaire» (il gabinetto).

Le forme dell’abitare: dalle case sugli alberi che rendono necessario l’intervento di squadre specializzate per sloggiare gli abitanti, alla bella dimora offerta dall’altopiano di Millevaches, fabbricata, trasportata e montata in una quindicina di giorni, passando per le case concepite da scuole di architettura e le barricate ormai abitate, spesso precedute o seguite da enormi fossati e da fortificazioni in costante miglioramento (c’è addirittura un progetto di ponte levatoio!).

Il ricorso alle icone popolari: anche nella ZAD, come in Val di Susa, si muovono i personaggi di Asterix, favorite dal nome in codice dell’operazione di polizia «Cesare».

Le periodiche cerimonie di magia nera per far impazzire gli sbirri.

Lo scambio di saperi: meccanico, agricolo, botanico, medico ecc…

Le canzoni, i film, le celebrazioni della «barricata come una delle belle arti»… Tutto questo esprime la concretezza di un altro modo di vivere insieme, basato sulla gratuità e la presa di decisioni senza gerarchie né rituali assemblearistici congelati e raggelanti.

Come hanno mostrato anche i Wu Ming nel loro reportage Folletti, streghe, santi e druidi in Val Clarea, l’immaginario della valle piemontese è tanto fertile quanto quello del boschetto normanno: détournement e creazione di miti («Giacuuuu!»); rivitalizzazione – da parte degli amici della rivista Nunatak – del ricordo delle repubbliche partigiane; invenzione di assemblee mobili che combinano il piacere della marcia con la difficoltà per i poliziotti di registrare le decisioni; sviluppo e affinamento di tattiche intelligenti per gli assalti al cantiere/fortino; sviluppo, come a Notre-Dame des Landes, di una conoscenza popolare sulle questioni ambientali ed economiche nettamente superiore a quella degli esperti asserviti.

Nella valle si può incontrare una realtà che tanto manca a questa post-sinistra, Bersani e Hollande e Amendola e Valls, a questo personale politico senza più un’ideologia nemmeno socialdemocratica, che non finirà mai di collassare intellettualmente, umanamente e anche – ben gli sta! – elettoralmente. Là si trova in tutta la sua concretezza e carnalità ciò di cui i piccoli politici hanno perso persino il ricordo: un popolo.

Quando la più normale delle famiglie – lei vigile urbano, lui dipendente comunale in pensione, due figli, uno alle superiori e l’altro all’università – si riunisce per mostrarti, divertendosi molto, video di scontri con la polizia; quando i commercianti di Bussoleno lanciano lo «shampoo di solidarietà» per sostenere un loro collega arrestato; quando gli sforzi congiunti dei procuratori e dei loro assistenti mediatici non riescono mai a incrinare l’alleanza tra le donne che pregano Padre Pio e i ragazzi dei centri sociali, accade un evento come è accaduto nei bei giorni di Piazza Tahrir, quando l’isolamento della rivoluzione non minacciava ancora di deteriorarla e i cristiani vegliavano in piedi per proteggere i loro fratelli musulmani in preghiera.

Accade quel che è accaduto quando i trattori dei contadini della regione di Nantes e non solo sono venuti a incatenarsi per difendere il Gatto Tignoso, manifestando chiaramente che i presunti black bloc, gli hippie e loro stessi erano una sola e identica cosa, One Big Union, il «sindacato» di coloro ai quali non è stato fatto un torto particolare, ma un torto universale. Vincendo contro Vinci (aeroporto di Nantes e autostrada di Mosca), contro le cooperative (Si-Tav e pro-Ikea), contro la partnership pubblico-privato (socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti), contro l’euforia dell’alta finanza, il suo discorso di crisi e la sua ansimante trinità Sviluppo-Lavoro-Progresso, vincendo contro tutto questo il popolo, la moltitudine o come si vorrà chiamare quest’eterogenea soggettività collettiva, diversa eppure unita, conquisterà per tutti noi un po’ d’aria, di spazio, di tregua, per trovare il coraggio, l’immaginazione e il tempo necessario ad affrontare nelle condizioni meno sfavorevoli la catastrofe a venire.

tratto da WuMingFoundation

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