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Il mondo degli espropriati


di Benedetto Vecchi (Il Manifesto)

Una scrit­tura chiara, essen­ziale per esporre esporre le con­trad­di­zioni del capi­ta­li­smo, sia quelle con­na­tu­rate al suo svi­luppo, sia quelle che potreb­bero por­tare all’implosione, se non al suo «crollo». Poi, improv­vi­sa­mente, una devia­zione improv­visa da una espo­si­zione che ricorda più un manuale che non a un sag­gio teo­re­tico. E il libro diventa improv­vi­sa­mente un dia­rio di viag­gio den­tro una crisi attorno alla quale sono molte le inter­pre­ta­zioni, ma della quel in pochi rie­scono a vedere la fine. Le parti più avvin­centi di que­sto Dicias­sette con­trad­di­zioni e la fine del capi­ta­li­smo (Fel­tri­nelli, pp. 336, euro 25) scritto da David Har­vey sono quelle che il geo­grafo sta­tu­ni­tense dedica pro­prio all’ipotesi, per l’autore remota, di un crollo finale del capi­ta­li­smo. E que­sto accade quando dalla cor­nice teo­rica Har­vey spo­sta il fuoco dell’analisi sui feno­meni sociali e poli­tici che carat­te­riz­zano ogni con­trad­di­zione, cioè quando com­pie l’indispensabile movi­mento che, par­tendo da una astra­zione, giunge a quella con­tin­genza che con­sente, come viene sug­ge­rito da qual­che filo­sofo, di pen­sare la Poli­tica. La forma espo­si­tiva scelta da Har­vey rende dun­que il libro godi­bile e, al tempo stesso, è una delle migliori espres­sioni di quella ana­lisi cri­tica sul «capi­ta­li­smo estrat­tivo» che rap­pre­senta uno dei ten­ta­tivi più con­vin­centi di inno­vare il marxismo.

Que­stioni di metodo

Rileg­gendo il Marx dell’accumulazione pri­ma­ria, Har­vey sostiene che gran parte delle stra­te­gie capi­ta­li­sti­che sono incen­trate sull’appropriazione pri­vata di ciò che viene pro­dotto col­let­ti­va­mente, dei ser­vizi sociali, dei beni comuni tan­gi­bili (terra, acqua) e «arti­fi­ciali» (l’energia, la cono­scenza en gene­ral, la mappa del Genoma umano) facendo leva sulla pri­va­tiz­za­zione del wel­fare state o attra­verso le norme domi­nanti sulla pro­prietà intel­let­tuale. Gli stru­menti pri­vi­le­giati per rag­giun­gere tale obiet­tivo sono: l’«occupazione» dello stato nazio­nale da parte dello stesso capi­tale; la limi­ta­zione della sovra­nità nazio­nale attra­verso gli orga­ni­smi sovra­na­zio­nali come la banca mon­diale, il fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale, il Wto o gli accordi regio­nali per il libero mer­cato; l’attivazione di norme e regole affin­ché que­sto accada da parte del potere poli­tico, come accade in Cina e per altri versi in India. Una vera e pro­pria espro­pria­zione della ric­chezza sociale che alterna auto­ri­ta­ri­smo a pra­ti­che ege­mo­ni­che nella società.
Sono anni che David Har­vey scrive del regime di accu­mu­la­zione per espro­pria­zione. Anche in que­sto sag­gio il tema è pre­sente, ma l’autore è però inte­res­sato a com­pren­dere se la crisi attuale sia «quella finale» o meno. La rispo­sta che for­ni­sce rin­via a una pre­li­mi­nare que­stione di metodo. Har­vey sostiene che le con­trad­di­zioni siano imma­nenti al capi­ta­li­smo, ne hanno pun­teg­giato lo svi­luppo, rap­pre­sen­tan­done un fat­tore dina­mico. Per affron­tare le con­trad­di­zioni il capi­tale, cioè un pre­ciso rap­porto sociale di pro­du­zione, ha fatto leva sia su fat­tori interni che esterni. Ha cioè modi­fi­cato ognuno dei tre grandi momenti di rea­liz­za­zione del pro­fitto: la pro­du­zione, il con­sumo e la cir­co­la­zione delle merci. Ha poi fatto leva sulla finanza lad­dove si pre­sen­tava un pro­blema di rea­liz­za­zione del pro­fitto per sovrap­pro­du­zione di merci, oppure ha favo­rito il cre­dito al con­sumo, met­tendo così in conto l’indebitamento sia delle imprese che dei sin­goli. La finanza ha inol­tre pro­dotto denaro a mezzo denaro. E se que­sti sono sto­ri­ca­mente i fat­tori interni, quelli esterni sono da cer­care nella tra­sfor­ma­zione per via poli­tica di aspetti del vivere in società in set­tori capi­ta­li­stici. Inte­res­santi come sem­pre sono le pagine che Har­vey dedica alla pro­du­zione dello spa­zio come esem­pli­fi­ca­zione di un uso capi­ta­li­stico della città e del ter­ri­to­rio, argo­mento che ha costi­tuito l’asse por­tante del suo pre­ce­dente Città ribelli (il Sag­gia­tore).

Lo svi­luppo diseguale

Una volta sta­bi­lito che la con­trad­di­zione è il pane quo­ti­diano del capi­tale, Har­vey comin­cia ad ana­liz­zarle una ad una. Ne esce fuori un pano­rama tema­tico che un let­tore di Karl Marx non ha dif­fi­coltà a rico­no­scere: valore d’uso e valore di scam­bio, il valore sociale del lavoro e la sua rap­pre­sen­ta­zione mediante il denaro; pro­prietà pri­vata e Stato capi­ta­li­stico; appro­pria­zione pri­vata e ric­chezza comune; capi­tale e lavoro; capi­tale come pro­cesso o come cosa?; l’unicità con­trad­dit­to­ria di pro­du­zione e rea­liz­za­zione; tec­no­lo­gia e lavoro; divi­sione del lavoro; mono­po­lio e con­cor­renza: cen­tra­liz­za­zione e decen­tra­mento; svi­luppi geo­gra­fici diso­mo­ge­nei e pro­du­zione dello spa­zio; dispa­rità di red­dito e di ric­chezza; ripro­du­zione sociale; libertà e domi­nio. Chiu­dono il volume le tre con­trad­di­zioni che potreb­bero por­tare al col­lasso la società del capi­tale: cre­scita com­po­sta senza fine; la rela­zione del capi­tale con la natura; la rivolta della natura umana: alie­na­zione uni­ver­sale.
Ciò che rimane sullo sfondo nell’analisi di Har­vey è come il governo delle dicias­sette con­trad­di­zioni pre­sen­tate in que­sto libro abbia ter­re­mo­tato il capi­ta­li­smo glo­bale, modi­fi­can­done le gerar­chie e pro­vo­cando il declino eco­no­mico e poli­tico di intere aree geo­gra­fi­che alla luce del dina­mi­smo, anche qui eco­no­mico e poli­tico, di alcuni paesi emer­genti. È evi­dente che l’idea di una rap­pre­sen­ta­zione del capi­ta­li­smo glo­bale come un flusso ordi­nato, «liquido» di merci, capi­tale, uomini e donne debba lasciar posto a una realtà mar­chiata da con­flitti sociali, di classe, geo­po­li­tici. E altret­tanto evi­dente è una pro­gres­siva dele­git­ti­ma­zione del «Washing­ton Con­sen­sus». Ma non è certo scon­tata la sua sosti­tu­zione con un «Bei­jing Con­sen­sus». Si potrebbe affer­mare che l’analisi di come sono gestite e prime quat­tor­dici con­trad­di­zioni inda­gate da Har­vey mani­fe­sti l’incapacità delle forme poli­ti­che domi­nanti in Europa e Stati Uniti a for­nire rispo­ste capaci di rilan­ciare lo svi­luppo eco­no­mico. E che ha molte frecce nel suo arco la tesi secondo la quale il modello cinese e, in misura diversa, anche quello indiano o bra­si­liano o suda­fri­cano, basato su un forte inter­ven­ti­smo eco­no­mico e poli­tico dello Stato nazio­nale, abbia tutte le carte in regola per mani­fe­stare un’egemonia pla­ne­ta­ria fino a pochi anni fa impen­sa­bile.
Il libro di Har­vey non è però un trat­tato di geo­po­li­tica, disci­plina che riduce lo svi­luppo capi­ta­li­sta a mera espres­sione di poli­ti­che di potenza di que­sto o quel paese. In un recente semi­na­rio orga­niz­zato a Pas­si­gnano sul Tra­si­meno dal gruppo di ricerca Euro­no­made, il rap­porto tra svi­luppo eco­no­mico e «que­stione geo­po­li­tica» è stato varia­mente affron­tato. In quella sede David Har­vey è stato molto attento a inscri­vere le poli­ti­che di potenza den­tro le «pra­ti­che ege­mo­ni­che» che hanno carat­te­riz­zato le rela­zioni tra Stati nel Nove­cento, evi­den­ziando le varia­zioni nelle «geo­me­trie dell’imperialismo». Ha ricon­dotto cioè le poli­ti­che di potenze degli stati nazio­nali e degli orga­ni­smi sovra­na­zio­nali a espres­sione delle stra­te­gie del capi­tale quando aggira limiti posti all’esercizio del suo potere sulla società; e sul lavoro vivo. È certo inte­res­sante capire se gli Stati Uniti stiano in una fase di declino, deter­mi­nando l’emergere di un mondo mul­ti­po­lare che veda la Cina tra­sfor­marsi, oltre che in super­po­tenza eco­no­mica anche in super­po­tenza poli­tica e mili­tare. D’altronde tutti gli indi­ca­tori eco­no­mici e sociali sem­brano con­fer­mare che Washing­ton non abbia più la capa­cità eco­no­mica di con­di­zio­nare lo svi­luppo eco­no­mico a livello pla­ne­ta­rio. Sono infatti molti i fat­tori che entrano in campo per cer­ti­fi­care l’effettivo declino del made in Usa: l’aumento della povertà negli Stati Uniti, la feroce con­cor­renza nel sistema della for­ma­zione d’eccellenza che sta met­tendo in seria dif­fi­coltà le uni­ver­sità «eccel­lenti» sta­tu­ni­tensi, un pro­cesso pro­dut­tivo di inno­va­zione tecnico-sociale cheha base planetaria.

 

Facili pro­fe­zie

L’aumento della povertà negli Usa e nel mondo fa certo gri­dare alla scan­dalo Nobel per l’economia come Joseph Sti­glitz e Paul Krug­man, ma è anche l’indicatore che il capi­ta­li­smo sta­tu­ni­tense non garan­ti­sce più un aumento del benes­sere di tutta la popo­la­zione. Allo stesso tempo, le uni­ver­sità ame­ri­cane non sono più l’unica meta dei cer­velli in fuga dalle mise­rie dei loro paesi d’origine. Flussi signi­fi­ca­tivi di gio­vani ricer­ca­tori sono stati infatti regi­strati verso altre realtà nazio­nali, men­tre è altret­tanto evi­dente il «ritorno in patria» di ricer­ca­tori indiani, cinesi, malesi, filip­pini dopo un periodo di for­ma­zione e lavoro uni­ver­si­ta­rio negli Stati Uniti. Per l’innovazione, invece, svolge un ruolo di deter­ri­to­ria­liz­za­zione il fatto che sia la Rete l’ate­lier delle mag­giori inno­va­zioni tecnico-sociali degli ultimi decenni.
Altre volte in pas­sato è stato però pro­no­sti­cato il tra­monto del domi­nio ame­ri­cano. E ogni volta tali pro­fe­zie sono state smen­tite dopo che gli Stati Uniti hanno rispo­sto alle loro imprese mul­ti­na­zio­nali. Inve­stendo in ricerca e svi­luppo, defi­nendo le regole del com­mer­cio inter­na­zio­nale a favore degli Stati Uniti. Oppure Washing­ton ha agito poli­ti­ca­mente per emar­gi­nare o inde­bo­lire eco­no­mie emer­genti, come ha fatto negli anni Ottanta e Novanta con il Giap­pone. L’egemonia del made in Usa è stata ripri­sti­nata man­te­nendo ben salda la lea­der­ship in set­tori stra­te­gici dello svi­luppo capi­ta­li­stico – la ricerca e svi­luppo e la finanza: ma sono pro­prio in que­sti set­tori che l’egemonia sta­tu­ni­tense è for­te­mente messa in discus­sione dalle stra­te­gie poli­ti­che nazio­nali e dal dina­mi­smo eco­no­mico dei paesi emer­genti, Cina in testa.

 

Matri­mo­nio di interesse

David Har­vey è però inte­res­sato a com­pren­dere bene le dina­mi­che attra­verso le quali opera il «capi­ta­li­smo estrat­tivo». Le Dicias­sette con­trad­di­zioni e la fine del capi­ta­li­smo è quindi da con­si­de­rare una riu­scita rap­pre­sen­ta­zione pro­prio di que­sta appro­pria­zione pri­vata della ric­chezza comune. C’è però da dire che la capa­cità «estrat­tiva» poco o nulla a che vedere con un’estrazione che avviene ex-post, bensì è ine­rente al regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica. Tanto la pro­du­zione, il con­sumo, la cir­co­la­zione delle merci e la finanza sono «messi in forma» pro­prio affin­ché lo sfrut­ta­mento del lavoro vivo e della coo­pe­ra­zione sociale sia imma­nente al fun­zio­na­mento dell’economia e della poli­tica. Da que­sto punto di vista, il matri­mo­nio tra eco­no­mia e poli­tica è da sem­pre la con­di­zione neces­sa­ria affin­ché il capi­ta­li­smo pre­senti la sua carat­te­ri­stica «estrat­tiva». Ed è in un con­te­sto, come quello attuale, che il matri­mo­nio è stato sciolto affin­ché l’economia gesti­sca diret­ta­mente gli affari poli­tici che il capi­ta­li­smo rivela la sua vio­lenza nel pla­smare le vite di uomini e donne. L’espropriazione della ric­chezza riduce al minimo le media­zioni, sve­lando così l’incapacità del capi­tale a «fare società». E la neces­sità che il «fare società» torni ad essere un obiet­tivo poli­tico. In fondo, la posta in gioco è come «espro­priare gli espropriatori».

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