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Calcio e ultras nella stagione della crisi

Dopo la fine dell’estate arriva sempre il tempo dei bilanci. L’Italia si avvia verso la stagione autunnale stretta tra l’ultima manovra economica e nuove promesse di povertà. Così un’autunno piuttosto caldo sembra prospettarsi sul piano delle lotte. Se si prova a cercare su Google la voce “lotta”, scorrono tra le ultime notizie risultati molteplici: i resistenti della Val di Susa, i migranti dei Cara in rivolta, i pastori sardi, i precari e gli studenti pronti per nuove mobilitazioni e la lista potrebbe continuare a lungo. Tra le mille voci della protesta, per qualcuno sembra uno scherzo di cattivo gusto, appaiono per la prima volta anche i calciatori. Non solo quelli delle categorie più basse, ma anche i cosiddetti milionari. Si rifiutano di pagare il “contribuito di solidarietà” chiedendo che a pagare siano le società calcistiche. Il dibattito mediatico-politico scorre velocemente. C’è chi non perde tempo scagliandosi popolusticamente contro i calciatori, Lega Nord in primis, e dall’altra parte Cofferati, che dalle pagine dell’Unità, da invece il suo pieno appoggio alla protesa.Lo scontro calciatori-presidenti-governo però non è così chiaro.

Il calcio non si ferma. Non c’è nessuno sciopero: la serie B e quelle minori hanno iniziato a giocare regolarmente, la Nazionale pure, e la settimana prossima arriverà il turno della serie A. La bagarre mediatica-politica che si è venuta a creare, è nata da un semplice rinvio della prima giornata del campionato. La firma è stata solo una sfumatura dietro l’angolo di una scrivania presidenziale.

Più che scontro di classe, abbiamo assistito ad uno scontro di caste. I proclami di sciopero dei sindacalisti del pallone, Tommasi e Buffon e dall’altra le pronte risposte dei vari sciacalli-dirigenti, che hanno i volti tristi dei Galliani e Zamparini, ci hanno fatto ricordare per un momento lo scorso auttunno e l’eco dei sindacati gialli, di Bonanni e Marchionne.

La fine del calcio pre-moderno era stata segnata dalla guerra dei diritti televisivi, dalle estenuanti moviole, dal totoscommesse legalizzato e dei calciatori-mercenari. Finita così l’epoche delle maglie sudate senza sponsor, degli eroi impressi sulle figurine Panini, dalle vite complesse e fuori-schema ma nello stesso tempo vite popolari come Gigi Meroni o Diego Maradona. Marx dice che l’eroe ha il volto della moltitudine, il milionario-mercenario moderno rientra invece in quello dell’unicizzazione.

L’unico “boatos indignato” è arrivato dalla Spagna, degli eroi-moderni donchisciottiani, dove Javi Poves, giocatore dello Sportin Gjon, ha dato il suo “contributo di solidarietà” denunciando la corruzione nel mondo-calcio e scagliandosi contro le banche, tenendo così una posizione ben più dignitosa rispetto a quella dei suoi colleghi italiani.

 

Crisi e conflitti nel sistema-calcio

 

Il posticipo del campionato ci permette il tempo di tracciare un analisi sull’universo calcistico.

La messa in opera del decreto Maroni ha segnato una svolta del mondo-calcio. Ha cambiato, con un vero e proprio golpe, le regole più importanti del gioco, quelle economiche. L’entrata massiccia di nuovi gruppi privati (Banca Intesa, Lottomatica, Poste Italiane, Erg, Autogrill) e l’introduzione della carta di credito del tifoso, hanno mutato finanche il vocabolario sportivo inserendo termini prettamente economici come come fidelizzazione. Gli effetti del decreto sono stati immediati: crollo degli abbonamenti e malcontento diffuso dentro tutti settori degli stadi, partendo dalle curve e salendo nelle scala piramidale calcistica fino ad arrivare ai palazzi presidenziali di molte società di serie A.

L’altra parte del restauro maroniano ha toccato la facciata più sporca: gli ultras. Etichettati da giornalisti e sociologi con il termine barbari. Toccava dare ragione ai vari professionisti dei salotti. Il termine barbaro designava chi nell’antichità non parlava il latino o il greco. Così gli ultras non parlano la lingua del calcio moderno, quella del profitto. I nuovi barbari in aperto scontro con le società-stato e le logiche di business (che spesso avevano pervaso l’interno di molte curve) sono stati reclusi nelle periferie dell’Impero-calcio, come succede a tutte le “dangerous class” sono stati i primi a subire i meccanismi repressivi sulle propria pelle.

Poggiandosi sulle solide basi del precedente decreto Amato, il decreto è riuscito a realizzare quello che apparati statali, mediatici ed economici prospettavano da anni: eliminare ogni forma di passione legata al tifo, mettendo in atto la canonica divisione tra “buoni e cattivi”, tra no-tessera e pro-tessera. In linea con questo progetto in un settore dello stadio di Trieste gli ultras sono stati sostituiti da un grande riquadro raffigurante tifosi, striscioni e bandiere. E’ forse il caso più emblematico di questa nuova fase del calcio moderno: dalle passioni vive verso passioni tristi (o addirittura finte).

Lo stadio, come il caso di Trieste conferma, diventa così laboratorio pubblico-politico del controllo. Sulla pelle degli ultras, come succede a tutte le “dangerous class” sono state sono sperimentate le peggiori torture moderne e nuovi meccanismi repressivi, per poi successivamente applicarle ad altri pezzi di società: i gas Cs adoperati prima negli stadi e poi per le strade di Genova o come lo strumento della diffida preventiva proposto per i manifestanti dopo gli scontri di Piazza del Popolo.

 

Dagli stadi alla piazze euro-mediterranee della rivolta

 

Luoghi di incontro e meticciato sociale, nel loro movimento e nella loro staticità posti dove esplodono contemporanemente conflittualità. Luoghi che si trasformano in zone temporaneamente autonome all’interno delle quali si instaurano delle regole differenti da quelle imposte dallo stato.

Uno striscione appeso negli anni ’90 segnati dalla morte di Claudio Spagna recitava: “Fuori i nazisti dalle curve – Fuori le curve dagli stadi“. Non era un semplice slogan. Voleva ricordare le modalità, il contesto e le radici in cui era nato il fenomeno ultras, ovvero dalle strade dei quartieri popolari, le officine sociali dei movimenti antagonisti degli anni ’70, le lotte legate alla difesa dei territori e degli operai. Gli stadi sono state fucine riproduttive di quel meccanismo aggregativo e di lotta contro ogni forma di autorità costituita, in un contesto nel quale il proletariato giovanile con la pratica degli espropri di massa si riappropriava di merci e desideri.

Molti tifosi e ultras hanno preso la direzione giusta che stadio porta alle piazze. Sono tornati alle radici dei movimenti sociali per continuare a volare nello spazio del conflitto. In maniera “casuale e caotica” (due caratteristiche tipiche dell’essenza ultras) si sono radicati tra Trafalgar Square e Piazza del Popolo, da Piazza Syntagma a Plaza Catalunya. Da una sponda all’altra del Mediterraneo, gli ultras tunisini ed egiziani hanno giocato un ruolo chiave importantissimo all’interno delle rivoluzioni primaverili. Dal calcio giocato nel panorama della crisi si è passati a dare calci diretti ai governi.

Il fallimento del sistema calcistico diventa lo specchio più visibile della crisi della rappresentanza.

Il programma politico del “Que se vayan todos” che ha attraversato con forza le piazze italiane, sembra assumere senso e direzione anche all’interno del mondo-calcio segnato dal malaffare e dalla corruzione nella gestione del potere. “Il futuro è nelle tue mani” recita uno spot sulla Rai sulla tessera del tifoso. Nella speranza di raccogliere l’invito, mentre ci prepariamo ad affrontare questa nuova stagione segnata da urugani di povertà in arrivo, ma dove sembra bastare una piccola scintilla per riuscire a scaldare l’autunno che verrà.

 

Ahmed Shams

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