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Deposito nazionale: le mille e una scoria

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Il seguente articolo è stato pubblicato a puntate da La bottega del Barbieri. Per comodità di lettura abbiamo accorpato le prime quattro puntate in un unico articolo, nei prossimi giorni pubblicheremo le seguenti quattro. Buona lettura!

Qui la seconda parte.

di Giorgio Ferrari (*)

1- Capitani, cavalieri, maghi e magheggi

Tanto tempo fa, ma non così tanto, in Italia, un ingegnere napoletano di nome Felice Ippolito si mise in testa di fare buon impiego dell’energia nucleare per usi civili, sotto il controllo dello Stato. Come “capitano di ventura” raggiunse una notevole fama essendo a capo, prima del CNRN (Comitato nazionale ricerche nucleari) e poi del CNEN (Comitato nazionale energia nucleare che nel 1960 ne prese il posto) per mancare poi di un soffio la presidenza del neonato ENEL. Ma, proprio come nelle favole e nelle storie avventurose, si fece molti nemici e finì in disgrazia per trenta lunghi anni fino a quando, nel 1996, fu chiamato a risolvere il problema delle “scorie”. Parola ambigua questa, e nello stesso tempo magica, perché pur riferendosi a un indistinto residuo di lavorazione (la scoria), nel campo nucleare evoca poteri spaventosi e sconosciuti ai più. Ippolito fu messo a capo della Sezione rischi nucleari della omonima Commissione della Protezione civile, che attraverso il Gruppo di lavoro appositamente formato aveva il compito di occuparsi delle scorie radioattive a cominciare dalle modalità di smaltimento e dall’individuazione dei criteri per selezionare un luogo dove metterle. Nel 1997 Ippolito morì e a capo del Gruppo di lavoro subentrò Carlo Bernardini e così nel 1999 vide la luce il primo rapporto ufficiale sulla sistemazione dei rifiuti radioattivi in Italia. Ma un oscuro sortilegio ne avrebbe di lì a poco condizionato il destino. Durante la XIII legislatura infatti, i maggiorenti Prodi e D’Alema strinsero un patto con dei capitani coraggiosi, ma non così tanto coraggiosi, quanto piuttosto avidi di certi tesori che c’erano in Italia, di cui fecero ingente bottino. Tutto fu razziato, e il poco che restava di quei tesori, fu venduto all’incanto per il tramite di esperti banditori come Franco Tatò (anche detto Kaiser Franz), chiamato a liquidare l’ENEL. Costui era molto noto tra i tagliatori di teste (una razza padrona che non conosce estinzione), e avendo in gran dispetto lo Statuto dei lavoratori voleva liberarsi di tutta quella gente impiegata nelle attività di ricerca, studio e progettazione che erano state il vanto dell’ENEL, ivi compreso il nucleare. Ed ecco che come per magia, nacque Sogin, e da quel momento la sorte dei rifiuti nucleari fu segnata. A nulla valsero gli sforzi dell’ENEA che tra il 2001 e il 2003 finalizzò lo studio del Gruppo di lavoro di Carlo Bernardini, definendo la mappa dei siti e il progetto del Deposito Nazionale: tornato Berlusconi a Palazzo, si perse ogni traccia di questi lavori finché, dopo l’ennesimo straripamento della Dora Baltea che minacciò il deposito di rifiuti nucleari di Saluggia, fu proclamata l’emergenza nucleare e nominato un commissario straordinario nonché presidente di Sogin nella persona del generale Carlo Jean. Al pari del Genio della Lampada, costui esaudiva i desideri del suo padrone Berlusconi, che s’era messo in testa di riuscire là dove i più potenti maghi del mondo avevano fallito: scaraventare nelle viscere della Terra il malefico potere delle scorie. Forte del parere di Sogin, nel 2003, Jean indicò senza tentennamenti il luogo dove scavare: Terzo Cavone, comune di Scanzano Jonico. Ma sottoterra rischiò di finirci lui, se solo lo avessero raggiunto le incazzate genti lucane che costrinsero Berlusconi a rinunciare ai suoi deliri di potenza, ma non del tutto, ché nell’emendare la legge del 2003 si insediò una nuova commissione di studio e si stabilì che il deposito nazionale era opera di difesa militare e che sarebbe stato ultimato entro il 2008! Viceversa, nel 2008, cambiato il governo e con Bersani Ministro dello sviluppo economico, si ricominciò da capo nominando un nuovo Gruppo di lavoro per il Deposito a cui Sogin non fu chiamata a partecipare. Neanche il tempo di redigere la sua prima relazione che il Gruppo fece fagotto dato che il “Cavaliere di Arcore” era tornato assetato di vendetta e nel 2010, con un magheggio, assegnò a Sogin tutte le attività di localizzazione, costruzione, gestione del Deposito nazionale (a cui si era aggiunto un Parco Tecnologico) nonché l’erogazione degli indennizzi alle popolazioni locali. Da allora dieci anni sono passati invano, e commissioni, e progetti falliti, mentre le scorie sono sempre là dov’erano agli inizi di questa incredibile storia, che però non è più incredibile di quella che racconta della mappa dei siti; ma, come diceva l’accorta Shaharazàd, per ascoltarla bisognerà attendere un’altra notte.

La mappa (pubblicata su “Ilsole-24ore”) è ripresa dalla rete

 

2 – La “falsa” mappa dei siti

GiorgioFerrari 2immag copia

Se voi foste un pirata come Long John Silver o un avventuriero come Indiana Jones e aveste tra le mani la mappa di un tesoro, desiderereste ardentemente che quella mappa fosse autentica. Ma se foste un sindaco di un comune nel cui territorio è stata individuata una delle 67 aeree ritenute idonee ad ospitare il Deposito nazionale dei rifiuti nucleari, fareste di tutto per dimostrare che la mappa dei siti è sbagliata e che il punto dove scavare non si trova nel vostro comune. In effetti la CNAPI resa pubblica da Sogin il 5 gennaio scorso, sembra essere frutto di un altro e più complicato “magheggio”. Per comprenderlo occorre mettere a confronto i criteri di esclusione per la definizione dei siti messi a punto dall’ENEA in un documento del 2003 con quelli della Guida Tecnica 29 pubblicata dall’ISPRA nel 2014. Dal raffronto emergono due aspetti: da un lato la GT 29 è più dettagliata nel definire le caratteristiche del suolo ed in particolare la sismicità, il cui valore di picco è fissato a 0,25 g mentre nel documento ENEA era di 0,3 g; dall’altro ci sono numerosi criteri di esclusione che nella GT 29 risultano meno stringenti di quelli individuati dall’ENEA, come l’altitudine massima consentita che è passata da 600 a 700 m; la pendenza massima del terreno che è stata raddoppiata dal 5% al 10%; la distanza minima da autostrade e superstrade che è stata invece dimezzata da 2Km a 1Km; inoltre non sono più quantificate le distanze minime da centri abitati rispetto alla numerosità della popolazione e le isole maggiori Sicilia e Sardegna non sono più escluse a priori. Questa rimodulazione dei criteri di esclusione, apparentemente, non ha avuto impatti significativi sulla individuazione dei siti, salvo che per il loro numero: erano 33 nel documento ENEA, sono 67 in quello della CNAPI con l’ulteriore differenza che quelle individuate dall’ENEA avevano un’area minima di 300 ettari ciascuna, mentre per quelle della CNAPI l’area minima è fissata da Sogin in 150 ettari. Dunque per la stessa quantità di rifiuti, nel 2003, secondo l’ENEA serviva un’area di 300 ettari, mentre nel 2020, secondo Sogin, ne basta la metà: anzi molto meno perché l’area del deposito vero e proprio è stimata in 110 ettari, essendo i restanti 40 destinati al parco tecnologico. Una così marcata differenza non ha motivazioni tecniche (né Sogin le fornisce) per cui, se c’è una spiegazione, questa va ricercata in un altro ambito che è quello della promozione e accettabilità tra l’opinione pubblica della scelta del sito per il Deposito. Si dà il caso che le 33 aree individuate dall’ENEA nel 2003 sono tutte comprese nella rosa delle 67 individuate oggi da Sogin perché, dati alla mano, sono i siti tecnicamente più adatti ad ospitare il Deposito. Ma riproporli tal quali avrebbe significato due cose: ammettere di fronte all’opinione pubblica che già 17 anni fa si sapeva tutto, per cui il ruolo assegnato a Sogin nel 2010 sarebbe risultato superfluo e, nello stesso tempo, occorreva evitare che un numero limitato di candidature desse l’impressione che tutto fosse già prestabilito. Di qui la “costruzione” in sede normativa (GT 29) di criteri di esclusione più elastici e dell’introduzione dei criteri di approfondimento, allo scopo di poter disporre di “giustificazioni” tecniche per includere più aree: basti pensare che Sogin ha stimato inizialmente in 200 ettari la superficie necessaria per il Deposito, ma siccome la disponibilità delle aree risultava ancora lontana dal numero magico di 67, ha ridotto la superficie minima a 150 ettari per includerne di più. La CNAPI è dunque una mappa artefatta costruita su una mappa vera (quella dell’ENEA) a cui sono stati aggiunti dei siti “civetta” che nella cosiddetta fase di approfondimento, molto probabilmente, spariranno e precisamente: i 18 siti di Sicilia e Sardegna, 10 siti con area inferiore a 200 ettari, più altri 6-7 siti che presentano pendenze superiori al 5% o che hanno una superficie utile di poco superiore a 200 ettari. Non c’è che dire, forse in Italia mancherà il senso dello Stato e delle istituzioni, ma quanto a maghi e magheggi non ci batte nessuno come appare da questo intricato racconto; che però è ancora poco se lo si raffronta con quello che narra dell’”ordine di idoneità delle aree potenzialmente idonee”. Ma per meglio ascoltarlo bisognerà attendere un’altra notte.

 

3 – Ordine di idoneità: vedere il Comma 1

GiorgioFerrari 3immag copia

 

Ricordate il «Comma 22» – del romanzo di Joseph Heller – che sconvolse la vita del tranquillo capitano John Yossarian?: «Chi è pazzo può chiedere di essere esonerato dalle missioni di volo, ma tutti quelli che chiedono di essere esonerati dal volo attivo non sono veramente pazzi». Un rovello inesplicabile questo del Comma 22, al limite dell’inganno concettuale (del resto la traduzione letterale del titolo originale del libro, Catch 22, sarebbe «Tranello 22») che si ripropone nel Comma 1, Articolo 27, Dlgs. 31/2010 laddove si stabilisce che la Sogin definisca una proposta per assegnare un ordine di idoneità alle aree individuate dalla CNAPI sulla base di caratteristiche tecniche e socio-ambientali. Considerato che la CNAPI identifica di per sé le aree (potenzialmente) idonee ad ospitare il Deposito nazionale, il loro inquadramento secondo un “ordine di idoneità” non può che significare una loro classificazione (graduatoria o preferenza) ai fini della scelta definitiva del sito. E invece no, secondo Sogin, tanto che nei suoi documenti ci tiene a precisare che: «l’ordinamento che viene chiesto per la CNAPI potrà essere fatto solo a valle di accurate indagini di caratterizzazione dei siti possibili in tutte le aree potenzialmente idonee individuate»; e che: «se l’idoneità viene intesa nella legge in un senso più generico rispetto a quello IAEA, allora si deve risolvere il problema di circoscrivere il significato del termine “idoneità” e di stabilire come graduare la “potenziale idoneità” della CNAPI dato che l’idoneità ad ospitare il Deposito Nazionale rimarrà comunque incerta fino alla conclusione delle verifiche in campo dei criteri IAEA e ISPRA». Dunque sembrerebbe che quest’ordine di idoneità non ha alcuna ricaduta sulla scelta del sito, ma allora a che pro è stato fatto? E soprattutto, a quali criteri ci si è ispirati nello stabilire questo ordine, visto che non ce n’è assolutamente traccia nella normativa internazionale? Al primo interrogativo, Sogin non potrebbe che rispondere così: perché stava scritto nella legge del 2010, mentre per il secondo la sua risposta è che se li sono giocoforza “inventati”. Sta di fatto che le 67 aree della CNAPI risultano ordinate secondo fattori di valutazione come “favorevole” e “meno favorevole” oppure con colori diversi che corrispondono a definizioni come “molto buone”, “buone”, “insulari”, “zona sismica 2” che hanno inevitabilmente scatenato l’ira delle amministrazioni locali. Ora è del tutto evidente che il Comma 1, Art. 27 del Dlgs 31/2010 risulta decisamente mal formulato, ma allora perché scoprirlo solo ora a dieci anni di distanza? Perchè Sogin e ancor più ISPRA – che ha redatto la GT 29 solo nel 2014 (vale a dire ben quattro anni dopo) – non ne hanno fatto presente a suo tempo le incongruenze, chiedendone la necessaria rettifica? Oggi i funambolismi di Sogin volti ad assicurare le popolazioni coinvolte nella scelta del sito, suonano come una beffa, l’ennesimo escamotage che nel tentativo di rimediare a un errore, peggiora la situazione. Prova ne è che nell’universo ambientalista si stanno moltiplicando gli atteggiamenti volti a rifiutare la soluzione del Deposito nazionale unico, sostenendo che i rifiuti radioattivi possono restare là dove sono migliorando le condizioni delle strutture che li contengono o costruendone di nuove, ma sempre sullo stesso sito. Non sanno però che anche questa storia è piena di incredibili avvenimenti e di tranelli, ma per ascoltarla dovranno pazientare ancora una notte.

 

4 – La maledizione del Deposito unico

GiorgioFerrari 3immagine2

Secondo il Dlgs 31/2010 per Deposito Nazionale si intende «il deposito nazionale destinato allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività … ed all’immagazzinamento, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato…». Basterebbe questa definizione a rendere l’idea di come sia stata resa incomprensibile la questione dei rifiuti radioattivi nel nostro Paese. Che vuol dire infatti «a titolo provvisorio di lunga durata» e i rifiuti (di bassa, media e alta attività) stanno tutti insieme oppure no? Come ammoniva Quelo in una delle sue gags: «La risposta è dentro di te. E però, è sbagliata».

Intanto occorre aver chiaro che nella normativa internazionale un sito di “smaltimento” è un luogo dove si effettua la definitiva sistemazione dei rifiuti, mentre in un sito di “immagazzinamento” i rifiuti permangono solo temporaneamente; ma mentre non è raccomandabile smaltire rifiuti in un sito le cui caratteristiche risultano adeguate per il solo immagazzinamento, niente impedisce il contrario, ovvero che in un sito di smaltimento siano immagazzinati temporaneamente rifiuti da destinare successivamente allo smaltimento.

In aggiunta a ciò va precisato che con la nuova classificazione dei rifiuti radioattivi del 2015, quelli a media attività sono stati suddivisi in due sottogruppi, il più “pericoloso” dei quali subisce lo stesso trattamento dei rifiuti ad alta attività e quindi non sarà smaltito ma immagazzinato insieme a questi.

Dove? Nello stesso sito destinato a ospitare tutti i rifiuti, ma in due edifici distinti: uno per quelli a bassa e bassissima attività, uno per quelli ad alta attività insieme alla parte più “pericolosa” di quelli a media attività. Il primo edificio è alto 10 metri e una volta pieno verrà ricoperto di terra e altri materiali; il secondo invece è alto 20 metri e resterà in funzione fino a quando non sarà disponibile un deposito geologico (dove non si sa) presumibilmente entro 50 anni.

Dunque il Deposito nazionale è da intendersi “unico” non solo perché è previsto di costruirne uno per tutto il territorio nazionale ma anche perché raggruppa nello stesso sito rifiuti a bassa, media ed alta attività. Questa “unicità” è oggetto di decise contestazioni: si sostiene, ad esempio, che invece di spostare tutti i rifiuti in un solo luogo, con l’evidente conseguenza di effettuare innumerevoli e rischiosi trasporti di materiali radioattivi, sarebbe meglio mettere in sicurezza i siti dove attualmente si trovano le scorie. Un’altra contestazione riguarda la soluzione ipotizzata che rappresenterebbe una anomalia nel panorama internazionale in quanto raggruppa insieme rifiuti di bassa attività con quelli di alta attività che invece, secondo le raccomandazioni IAEA, andrebbero sistemati in un deposito geologico. A parte il fatto che la soluzione del deposito di superficie unico per tutti i rifiuti era stata individuata fin dal 1999 – per cui appare singolare che alcune organizzazioni ambientaliste la critichino solo oggi – non si può dire che le succitate contestazioni siano prive di fondamento: purché tengano conto della situazione reale in cui si trovano i rifiuti radioattivi. Attualmente questi sono distribuiti in 18 località (comprese le 4 centrali nucleari) di cui più della metà ospita rifiuti di bassa e bassissima attività, mentre in 4 località, insieme a questi, sono presenti anche rifiuti di alta e media attività: Saluggia; Casaccia; Trisaia; Ispra (quest’ultimo in fase di decommissioning). Dunque quella situazione anomala che si verrebbe a creare con il Deposito unico è in realtà già operante in 4 località del nostro Paese da più di trenta anni e qualora si optasse per il prolungamento della loro attività significherebbe che Saluggia, Casaccia e la Trisaia diverrebbero i siti collettori di tutti i rifiuti radioattivi presenti in Italia. In questo modo è vero che si ridurrebbe il numero degli spostamenti dei rifiuti rispetto alla soluzione del Deposito unico ma si moltiplicherebbero per tre tutti gli altri problemi, cioè messa in sicurezza, sorveglianza e manutenzione degli impianti-depositi. In realtà le cose sono ancora più complicate perché queste località non sono state selezionate sulla base di quei criteri tecnici, scientifici e socio-ambientali che si applicano ai siti di stoccaggio e quindi sono costantemente a rischio di incidente: il sito di Saluggia, esposto agli straripamenti della Dora Baltea, ne è l’esempio più noto ma non tutti sanno che, oltre al problema della Dora, c’è quello delle acque di falda la cui quota massima riscontrata è di 170,60 metri sul livello del mare mentre il rilevato su cui poggiano i depositi dei rifiuti si trova a quota 171,80 m, vale a dire appena 1,2 metri più in alto! Tuttavia – si dice – si potrebbero migliorare le loro condizioni di sicurezza ma a ciò si oppongono tre ordini di motivi: il primo è che qualunque intervento di tipo ingegneristico non potrebbe modificare le loro caratteristiche idro-geologiche che ne fanno siti non adatti a ospitare rifiuti nucleari; il secondo è che gli eventuali nuovi depositi sarebbero comunque temporanei sia per i rifiuti di bassa attività (per i motivi suddetti) e sia per quelli ad alta attività che in ogni caso dovrebbero essere destinati a un deposito geologico; il terzo motivo è che in questi siti non c’è spazio per ospitare adeguatamente la massa di rifiuti proveniente da altri siti, né gli impianti necessari al loro trattamento. Maledetta dunque è la sorte di questi rifiuti, come maledette sono le loro origini, segnate dall’insidia e dal mistero che da sempre le accompagnano, come è il caso delle barre di Elk River che giacciono in Trisaia da quasi cinquanta anni. Chi le portò, perché e come son giunte fino a noi? Sarà un racconto da mozzare il fiato e perciò meglio riposare la mente, almeno per una notte.

 

 

 

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