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Chi non danza non sa cosa succede vol. 3

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Proponiamo alcune valutazioni a caldo sugli ultimi eventi dell’estate, alcune riflessioni che fanno seguito ad altri approfondimenti già usciti su questo sito. Uno spunto per dotarsi di una chiave di lettura capace di dare slancio verso i mesi a venire facendo tesoro delle esperienze vissute insieme.. 

L’attesa era altissima. Ultimi giorni di preparativi dopo mesi di intensissime assemblee, partecipate, profonde, articolate. Pensare a ogni dettaglio, dalle traduzioni fondamentali in un contesto così composito, al cibo, alle esigenze di ciascuno, organizzare, superare gli ostacoli e poi arrivare al giorno 0. Un po’ di tutte queste cose hanno animato i giorni del campeggio nel parco della Colletta a Torino in occasione del Climate Social Camp. Durante lo sciopero del clima del 25 marzo, nel corso di un corteo vivace e determinato, l’annuncio di questo appuntamento ha dato il via a un percorso prezioso di dialogo e relazione tra moltissime anime della città, del paese e non solo. Già in quel momento si era respirata un’aria diversa, probabilmente contaminata dalle mobilitazioni recenti degli studenti e delle studentesse a seguito della morte di Lorenzo e Giuseppe. Meno ingenuità, più disillusione, ma anche tanta voglia di porsi in prima persona, nella propria collettività, come motore di cambiamento e trasformazione dell’esistente. Un buon auspicio che ha visto concretizzarsi nei giorni trascorsi insieme la volontà di proseguire in questa direzione. Ci sono alcuni elementi di discontinuità rispetto al passato, rispetto ai movimenti delle Onde o contro le varie riforme della scuola, ci sono consapevolezze nuove, di metodo, di equità e giustizia, ci sono dei punti fermi come l’anti razzismo e l’anti sessismo. Delle rigidità e delle possibilità.

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Si tratta di una sfida altissima. Da alcuni anni migliaia di giovani scendono in piazza per dire che il tempo sta scadendo, un movimento di opinione a prima vista, ma che assume caratteri inediti e articolati. Sentire che gli anni a disposizione sono pochi avendo tra i quindici e i vent’anni risulta quasi un ribaltamento del paradigma del no future nichilista punk retaggio degli anni 80 al quale guardava la generazione di Dawson’s Creek per sentirsi ribelle, senza crederci veramente. Quelli erano gli anni in cui ancora i desideri potevano avere una realizzazione, o perlomeno c’era ancora chi credeva nella soddisfazione data dalla formazione o dal lavoro. Oggi gli adolescenti che si fanno carico di mettere davanti alle istituzioni una realtà nuda e cruda di crisi e devastazione lo fanno credendoci. E allora l’unica possibilità per non rischiare di cadere nella depressione è fare uno scarto in avanti, ossia pensare di farlo insieme ad altri e lottare. Quello che stiamo vedendo in questi anni è proprio la presa di coscienza di una generazione che ha deciso di non delegare. Tramite forme spurie, magari confuse, oppure alle volte troppo rigide, severe, intransigenti, ma che non cedono alla sfiducia dell’impossibilità di cambiare, all’immobilismo di generazioni più vecchie schiacciate dalle crisi ma difficilmente attivabili.

Un’esperienza, quella dei giovani che si sono attivati in percorsi di lotta e attivismo climatico, che contiene in sè potenza e fragilità dentro una contemporaneità segnata dallo spartiacque della pandemia che ha lasciato traumi e scoperte, ma che anche all’interno dei movimenti climatici segna una cesura, un prima e un dopo, degli interrogativi nuovi ed inevasi con cui misurarsi.

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E poi tutto intorno i timori di chi ha dato già l’allarme vengono confermati quotidianamente. Assistiamo a mesi di emergenze in contrapposizione a una dura battaglia che vuole indicare i cambiamenti climatici come strutturali. Nell’epoca della shock economy, in cui il capitalismo tenta di ristrutturarsi tramite subdole forme, cercando di sussumere, aumentando il livello di sfruttamento e violenza, la crisi idrica ha travolto le famiglie, le campagne, i luoghi di lavoro, la siccità travolge i raccolti, l’ecosistema, i disastri ambientali saranno all’ordine del giorno. Anche in questa fase nella città di Torino, e non solo, molti giovani hanno immediatamente indicato le cause, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica, navigando su un Po in secca, organizzando assemblee, portando questi temi all’attenzione di tutti. Uno dei passaggi fondamentali è stato la capacità di collegare la crisi idrica a contesti già esistenti, alla centralità delle infrastrutture, mostrando l’evidente nesso tra spreco idrico e cantiere Tav, grazie anche agli studi dei comitati, come il Comitato Acqua Pubblica, che ne ha letto e diffuso i dati inquietanti.

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I timori di chi da tempo sottolinea la centralità di questi temi non sopiscono nel momento in cui i Comuni, le Regioni, il governo (quando c’era), non hanno preso minimamente in considerazione la questione della produzione agroindustriale. La tendenza è subappaltare la gestione idrica ad aziende private, multiutility come iren, che avranno diritto di decidere dove e a chi destinare l’acqua contenuta nei bacini, negli invasi, fino a che ci sarà. Fino a che ci sarà una falda acquifera dalla quale prelevare acqua. Con una capacità di prevenzione e previsione di qualche mese, forse qualche anno al massimo. Perchè intanto le tragedie come quella della Marmolada ci insegnano che se non si diminuisce il range di proliferazione di CO2, se non si conterrà l’aumento delle temperature (con una seria, seppur insufficiente, inversione di marcia rispetto alla produzione), i ghiacciai si scioglieranno e oltre alla modificazione di un ambiente montano sempre più invivibile e impraticabile non ci sarà più una riserva d’acqua fondamentale.

Dunque oggi come non mai la concretezza dell’intreccio tra crisi climatica e crisi sociale si tocca quotidianamente con mano, l’urgenza di agire incontra l’insufficienza degli strumenti finora utilizzati per farlo. Da un lato la sensazione di impotenza di fronte al muro di gomma delle istituzioni, dall’altro l’enorme mole di potenzialità per la costruzione di una vita altra che si annida tra le contraddizioni di questo sistema di sviluppo. Fioriscono numerose domande, domande politiche e immediatamente programmatiche. Come costruire dal basso la possibilità di una trasformazione in senso ecologico della società? Cosa significa? Quali alleanze per quale progetto?

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In questo contesto, nel mezzo dell’estate più fresca dei prossimi anni, si è giunti alla settimana in cui migliaia di giovani da tutto il mondo sono approdati a Torino per un camping di dibattiti, incontri, tavole rotonde, workshop, iniziative, cortei. I temi toccati sono stati tantissimi. Mentre all’interno del campus Einaudi si svolgeva il meeting internazionale di Fridays for Future, aprendo una discussione molto profonda sulle direttrici di razza che attraversano gli ambiti della lotta per la giustizia climatica, tutte le realtà ecologiste, i comitati, le esperienze di lotta per l’ambiente, affrontavano a loro volta discussioni sulle risorse idriche, sull’ ecotranfemminismo, sull’agrobusiness, sulle fonti energetiche, sulle possibilità di organizzarsi insieme. Due momenti di azione poi hanno animato la settimana, un primo momento di corteo vivace e partecipatissimo ha raggiunto la rotonda all’entrata della tangenziale nord di Torino per bloccare il traffico e nascondere con un enorme striscione le insegne della SanPaolo del palazzo di fronte, mentre, contemporaneamente un’azione di sanzionamento si svolgeva alla Collins Aerospace, importante azienda della filiera di produzione bellica e degli armamenti. Al di là dei temi toccati e dell’individuazione delle responsabilità, la determinazione e la gioia nell’attraversare le strade della città per compiere dei passi avanti nella costruzione di un presente e di un futuro più sostenibili sono state il filo conduttore di tutte le giornate di iniziativa. Sino al venerdì in cui il Climate Social Camp ha raggiunto la Val di Susa in corteo per il Festival Alta Felicità.

Altissime sfide possono portare con sè anche margini di frustrazione e invece queste giornate non hanno lasciato spazio a nemmeno un briciolo di sentimento di incapacità o impossibilità. Questo indica un valore importante, la capacità di avere un obiettivo preciso, concreto e fermo e di mettere in campo tutte le risorse per praticarlo. Questa preziosa risorsa viene da un lato, dal protagonismo dei giovani e giovanissime presenti alla settimana di campeggio, la voglia di esserci in prima persona, sia nei dibattiti sia nelle azioni organizzate insieme, dall’altro lato dal livello di ragionamento e di inquadramento teorico che permette di sviluppare numerose piste di azione, su molti aspetti. L’unione di queste due facce lascia intravedere spazi di agibilità e prospettive concrete nel breve e medio periodo, che includono anche la volontà di convergere al di là della retorica con composizioni e fasce della società diverse, come indica l’interesse per la lotta dei lavoratori della GKN o l’attenzione per la variabile sociale che taglia perpendicolarmente la questione climatica. Auspichiamo e lavoriamo insieme, arricchendo le relazioni nei termini di cura e attenzione reciproca, scoprendo la forza delle diversità e la possibilità di costruire momenti di indicazione generale, perchè si vada nella direzione di un reale confronto tra composizioni diverse nella loro eterogeneità e centralità nella fase attuale.

Molti interventi insistono ripetutamente sulla centralità delle relazioni oggi, sulla necessità profonda di situare il movimento climatico all’interno di un quadro di lotta generale, popolare e capace di interrogare ogni ambito di quella parte di società che lavora per vivere, che più pagherà i costi della crisi climatica e che oggi si misura sulla propria pelle e in vari gradi con il ricatto tra salute e lavoro, tra territorio e merce.

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Di che attivismo, di che militanza ci dotiamo per rispondere a queste ambizioni? Che strumenti abbiamo e di cosa dobbiamo ancora dotarci? Queste sono solo alcune domande che risuonano ancora, mentre dai paesi MAPA si possono raccogliere critiche, spunti, suggestioni. Qui si tratta di invertire radicalmente la gerarchia del capitale, abbiamo da imparare da chi già nel concreto vive esperienze di lotta che si muovono in un continuum tra produzione, riproduzione e ambiente. Chi, più di altri, si sta già misurando con gli effetti reali della crisi climatica che iniziano a presentarsi con una certa radicalità anche da noi. Il nostro paese dove è situato dentro la mappa della crisi climatica? Qui dove stiamo, come lottiamo? Quale internazionalismo abbiamo bisogno, che non sia mera opinione solidaristica, ma neppure lotta politica sganciata dal nostro Qui e dal nostro Ora?

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Arriviamo dunque al venerdì del Festival Alta Felicità, un primo giorno che ha portato con sè anche la complessità degli incontri ma che ha dato il via a una tre giorni importante. Ci sono alcune corrispondenze e alcune differenze, ma un contesto comune è possibile delinearlo. La necessità della composizione giovanile di stare insieme, di fare qualcosa insieme dandogli un senso, di non sottostare alle dinamiche di profitto che irrorano la socialità nel capitalismo in tutte le sue forme. Complici gli anni di pandemia, con il disvelamento violento di alcune contraddizioni, la sfiducia totale nell’istituzione scolastica, l’impossibilità di intravedere un orizzonte felice, il dato è che l’indisponibilità nei confronti della controparte è direttamente proporzionale alla disponibilità nei confronti di un’opzione differente. Indipendentemente dall’offerta musicale del festival la presenza di tantissime persone, decine di migliaia, è stata caratterizzata dal riconoscere questo luogo e questa occasione come un punto di riferimento per chi si sente di appartenere a un voler vivere la vita in maniera diversa.

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Il fatto di arrivare il venerdì mattina prima ancora dell’inizio e andare via la domenica sera, quando tutte le iniziative erano concluse, dimostra che ci si vuole incontrare e relazionare su tempi più lunghi, meno fugaci di una birra al bar, su spazi più distesi, meno costretti di un dehors in città. Il sabato pomeriggio, momento di iniziativa confluita a San Didero, tutt’intorno al fortino fantasma, è stato un punto importante di presa di protagonismo e determinazione. Davanti a uno scempio come il cantiere vuoto di San Didero, allo spreco di soldi e risorse, alla presenza ingombrante di truppe d’occupazione su un territorio usurpato, in migliaia hanno preso parte alla grande marcia intorno al fortino. Ognuno con le sue capacità e con le proprie forme, ognuno secondo le proprie predisposizioni, tutti e tutte hanno mostrato coinvolgimento e voglia di esserci. Anche in questo frangente il livello qualitativo della partecipazione assume un continuum con quanto accaduto la settimana precedente.

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Caratteristiche comuni quindi a una generazione che ha attraversato momenti difficili e violenti, come il ciclo di lotte di questo inverno, scaturite dalla morte di due ragazzi giovanissimi, accolto e protrattosi nella città di Torino nonostante una durissima repressione, sin dalle cariche di piazza Albarello fino al sopraggiungere degli arresti, in carcere, di giovanissimi. Un trattamento riservato a chi in qualche modo dimostra una linea di rottura nei confronti di ciò che viene offerto dal sistema dominante, un soffocamento delle spinte di emancipazione a priori che sta causando un’ebollizione sempre crescente e una risposta intransigente. Una scelta della controparte di gestire l’indisponibilità della parte giovane della società che viene individuata dagli stessi studenti e studentesse come causa e effetto delle occupazioni e dei momenti di rottura degli ultimi tempi. Il disagio psicologico, le fragilità causate da una fase storica complessa e dura sono temi che vengono rielaborati e ridiscussi in sedi collettive, diventando così possibili percorsi di lotta ribaltando un sentire individuale in una forza comune. Riprendersi i propri spazi e i propri tempi evocano la possibilità di costruire un vivere sostenibile, all’altezza delle proprie necessità ma consapevole della dirimente decrescita generale se si ha a cuore una possibilità di esistenza estesa e possibile. Tutte queste spinte sono le stesse che si ritrovano nelle scuole, nei campeggi, nelle assemblee, nei collettivi. Una lettura di un presente che si fa forza delle difficoltà in un realismo lucido ma propositivo.

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Il Festival Alta Felicità si conferma ancora una volta come l’evocazione di una possibile vita altra, magari ancora effimera nei tempi, ma concreta nella proiezione. Oggi come non mai ripropone quel nesso fondamentale tra cura collettiva, possibilità di conflitto e sorgere di nuove forme di vita associata. Ciò diventa più importante in un momento in cui la crisi generale che stiamo attraversando apparentemente mostra delle alternative senza sbocco: sopravvivere o lottare, la fine del mese o la fine del mondo. Qui si tratta di porre su un piano materiale la ricomposizione del discorso: sopravvivere è lottare, la fine del mese è la fine del mondo. L’importanza del messaggio che da trent’anni questa valle ribelle manda, quel “non è solo un treno”, oggi non è solo l’evocazione del modello di sviluppo a cui ci opponiamo, ma anche il metro della sfida che abbiamo davanti, la necessità di costruire collettivamente le condizioni generali per la riproduzione di una comunità in lotta dentro gli stravolgimenti della crisi climatica, della pandemia, la guerra e l’impoverimento di massa.

Il Festival è un’esperienza provvisoria, un punto di partenza, ma ci mostra in controluce che la forza di una proposta del genere risponde sempre più ad una necessità generale, anche se ancora confusa, determinata dall’insopportabilità del presente. Si tratta di intensificare questa possibilità nella quotidianità delle nostre lotte, di espanderla ovunque lo sfruttamento, la devastazione e la disillusione segnano il paesaggio sociale del presente. Abbiamo bisogno di stare insieme oltre la merce, contro la merce, abbiamo bisogno di ribaltare concretamente le gerarchie del profitto per imporre quelle di una vita bella.

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La stessa forza e la voglia di coinvolgimento si è data nei primi passi della campagna Associazione a Resistere. Più che una campagna, una possibilità di intervento collettivo per darsi gli strumenti e stringere relazioni in grado di essere all’altezza delle sfide imposte dalla controparte. L’accusa di associazione a delinquere scagliata contro il movimento no tav e l’Askatasuna sono l’emblema di una tensione generale atta a chiudere spazi di possibilità, un monito e un esempio di chiusura di conti scorretto, ad armi impari, infame e pretestuoso. Durante queste giornate ha iniziato a prendere forma un punto di vista collettivo, una costruzione comune di forza per resistere a questo attacco e agli altri che evidentemente vorranno essere garantiti dal precedente. I mille volti di chi ha deciso di sentirsi dalla stessa parte, quella della resistenza, gli applausi e l’emozione ascoltando le parole di Dana e Eddi, il sentire comune di dover fare fronte insieme all’ennesima ingiustizia, di proporzioni inedite, sono ciò di cui nutrire le lotte presenti, le relazioni a venire, le vittorie future.

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Ci siamo messi in marcia per difendere la nostra terra, la nostra casa, e mentre camminavamo abbiamo capito che la nostra Terra, la nostra Casa sono il mondo intero. Una generazione ha fame di futuro, un futuro che il presente così com’è non è disposto ad offrire, una forza trasformativa risiede nel cuore di un paese che soffre nella propria quotidianità, facciamoci ponte dentro l’incomunicabilità, costruiamo saperi collettivi, relazioni, possibilità. Quando si è in ballo, bisogna ballare… perchè chi non danza non sa cosa succede.

I reportages degli anni scorsi sono consultabili qui e qui 

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