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Terror Wars. La solidarietà come risposta allo stato di emergenza in Belgio

Dal 2001 – inizio delle operazioni USA-NATO in Afghanistan – ad oggi, abbiamo assistito al riaffermarsi di politiche neocoloniali, camuffate da missioni umanitarie o come necessarie operazioni di lotta al terrorismo internazionale.

Le radici della destabilizzazione delle regioni del Vicino e Medio Oriente vanno cercate non solo nell’inasprimento dei conflitti interni al mondo arabo, ma anche e soprattutto nella crisi della domanda a cui il capitalismo occidentale va incontro, e la sua conseguente ricerca di profitti nello sfruttamento di risorse disponibili sul mercato esterno. La politica guerrafondaia di alcune potenze occidentali, Stati Uniti in primis, spalleggiati da Francia e Regno Unito, e dei loro alleati orientali, Arabia Saudita, Turchia e Qatar, non ha causato altro che morti, povertà e miseria, oltre che drammatici flussi migratori verso l’Europa. Le sole guerre in Iraq e Afghanistan hanno provocato sino ad oggi più di un milione di morti, nel vano ed erroneo tentativo di esportare il nostro modello di “democrazia” – sempre che tale la si possa definire.

Si tratta degli stessi Stati che hanno giocato un ruolo fondamentale durante la Primavera Araba: utilizzando la strategia del dividi et impera ed egemonizzando la rivoluzione popolare in nome della giustizia e della libertà, come in Egitto o in Siria, hanno provocato guerre civili e colpi di stato sanguinari. In alcuni casi, il rovesciamento dei dittatori ha creato situazioni di caos totale, mentre il controllo del territorio finiva nelle mani dell’estremismo salafita, tanto che al Qaeda e Isis ne hanno approfittato. In altri casi sono riusciti a rimpiazzare il dittatore di ieri con un il dittatore di oggi, più gradito alle potenze del capitalismo occidentale. Alcune potenze imperialiste – responsabili materiali del massacro di centinaia di migliaia di civili – sono inoltre sospettate di finanziarie gruppi terroristici reazionari, come l’Isis, ottenendo principalmente petrolio in cambio di armi e protezioni politiche e finanziarie.

Il livello di interconnessione fra il Medio Oriente e le metropoli occidentali, ha fatto sì che il caos mediorientale, di cui l’Occidente è responsabile, si riversasse su queste ultime. Gli attentati terroristici rivendicati dall’Isis del 13 novembre a Parigi, hanno causato morti e feriti nella capitale francese. Stando a quanto scoperto dalla polizia francese e dalla polizia belga, parte degli attentatori provenivano dal Belgio e più precisamente dal comune di Molenbeek a Bruxelles.

Sono stati gli organi di informazione di mezzo mondo a spostare l’attenzione su Molenbeek, uno dei quartieri della città dove abitiamo. All’indomani del 13 novembre, Molenbeek è diventato l’obiettivo di un intenso processo di stigmatizzazione che non ha fatto altro che contribuire ad esasperare il clima di tensione e diffidenza reciproca; usato, fra le altre ragioni, come scusa per giustificare l’adozione di misure eccezionali. Secondo le autorità, è infatti a seguito della presenza sul territorio belga di presunti terroristi legati all’Isis che è stato necessario portare lo stato di allerta al livello 4. Il risultato sono state una serie di modifiche nella gestione della sicurezza nazionale in Belgio: oltre al dispiegamento in massa, per le strade, di polizia e militari, sono anche stati loro aumentati i poteri concernenti l’uso coercitivo della forza.

In nome della presunta sicurezza nazionale si è verificata una forte restrizione delle libertà civili dei cittadini e delle cittadine. Queste misure violano la Convenzione dei diritti dell’uomo e del cittadino che ha tra i suoi firmatari anche il Belgio (art. 5 Diritto alla Libertà e alla Sicurezza, art. 6 Diritto a un equo processo, art. 9 Libertà di pensiero, di coscienza e di religione e art. 10 Libertà di espressione).

Queste sospensioni delle tutele giuridiche degli individui danno alla polizia il diritto di effettuare arresti preventivi senza alcun capo di accusa, come di compiere perquisizioni e fermi a tappeto che, spesso, in questo caso, sono concentrati sulla comunità araba. Vari abusi di polizia, perquisizioni sommarie e sospetti fermati fino a 72 ore al fine di procedere agli interrogatori (prima di essere rilasciati), sono solo alcune delle situazioni in cui si sono trovati molti di coloro che proprio a Molenbeek (o in comuni simili per composizione sociale), vivono, sospettati di essere amici o conoscenti di terroristi solo perché musulmani, o addirittura solo perché vicini di casa di terroristi noti.

Molenbeek, che conta circa 100.000 abitanti, è sempre stato uno degli attori principali della storia industriale di Bruxelles, bacino di quella forza lavoro a basso prezzo che ha contribuito a fare della capitale quello che oggi è. Inoltre, è da sempre destinazione di flussi migratori: uno dei primi e più consistenti è stato quello rappresentato dagli italiani, che si sono stanziati in questa zona della città a partire dalla fine degli anni ’50, attirati da affitti a basso prezzo e dalla vicinanza al centro della città.

Numerosi italiani abitano a Molenbeek ancora oggi, ma soprattutto negli ultimi anni, sulla base delle stesse ragioni che avevano spinto gli italiani prima di loro, sono arrivati nordafricani e turchi, oggi le comunità più numerose del comune. Nonostante – al contrario di quanto sia stato fatto credere – Molenbeek non si trovi affatto alla periferia di Bruxelles, bensì a soli quindici minuti a piedi dalla centrale e turistica Grand Place, esso rappresenta senza dubbio un comune in cui ampie fasce della popolazione si trovano abbandonate a loro stesse. Il tasso di disoccupazione tra i giovani di seconda e terza generazione qui si eleva al 40%, e l’esclusione sociale raggiunge picchi decisamente elevati, facendo sì che vi siano al contempo una forte spinta identitaria e un elevato rischio di radicalizzazione tra i giovani.

La spinta identitaria e la radicalizzazione, questioni spesso grossolanamente spiegate abusando dell’argomento religioso e dando quindi adito a fin troppo facili generalizzazioni, sono in realtà conseguenze di una politica volta a riorganizzare la società in funzione delle logiche del profitto e del capitale: l’esclusione sociale porta all’atomizzazione dell’individuo, ed è favorita da politiche che mirano alla divisione, alla paura reciproca e alla creazione di un nemico interno.

La classe dei lavoratori è funzionale al capitale quando è atomizzata, mentre la sua compattezza la rende temibile, tanto da un punto di vista oggettivo quanto soggettivo.

Sebbene in questi ultimi anni la classe dominante sia già riuscita a dividere la classe lavoratrice nel merito dei rapporti economici – attraverso l’istituzionalizzazione della concorrenza al ribasso – pare che questo non gli basti: la divisione deve essere anche su base culturale. Periferie nelle periferie, guerra fra poveri, chiamiamola come vogliamo ma la sostanza rimane la stessa: la divisione nella divisione. Sia nel luogo di lavoro che nella quotidianità.

Il dogma neoliberista rende sempre più difficile ricomporre dei legami di solidarietà fra sfruttati. Come studenti, lavoratori, disoccupati o inattivi, condividiamo molto di più di quanto la classe capitalista ci voglia far credere. Partendo dalle cose che ci uniscono, come la rabbia causata dall’insicurezza del nostro presente e futuro, possiamo cercare di elaborare una strategia che miri a evitare di ridurci da un lato a carne da macello e dall’altro a soldati di una guerra che non ci riguarda.

Quello che, nel nostro piccolo, cercheremo di fare è di mostrare come gli stili di vita e le preoccupazioni di un lavoratore o di una lavoratrice autoctoni, di un/a migrante di prima, seconda o terza generazione, di un/a disoccupato/a o di un/a sans papier, abbiano tutti una radice comune, che non può trovare ragione nelle differenze culturali, bensì in quelle economiche.

Non possiamo accettare che vi sia una restrizione della libertà e dei diritti fondamentali di ogni cittadino in nome di una strategia della sicurezza fondata sulla paura e la violenza preventiva. Il modo in cui i mass media trattano la questione terrorismo semina già da decenni una preoccupante e immotivata reazione di paura e odio tra le popolazioni occidentali, specie nei confronti dei gruppi etnici e religiosi diversi dai nostri: noi ci opponiamo a questa politica di divisione motivata dagli interessi particolari di pochi. Pensiamo che le altre culture siano una ricchezza da scambiare e non qualcosa da cui rifuggire. Crediamo inoltre che le politiche imperialiste dei paesi occidentali attraverso lo strumento reazionario della NATO supportino, invece che contrastare, lo sviluppo di gruppi terroristici, impedendo l’autodeterminazione e l’indipendenza dei popoli. Crediamo ancora nella possibilità di una rivoluzione sociale dal basso che possa rompere con quelle logiche capitaliste e imperialiste che ci vengono imposte da troppo tempo, come l’inutile e controproducente lotta al terrore fatta con altro terrore.

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