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A Makhmur, dove tutto ha avuto inizio.

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo, scritto sul posto, che tratteggia brevemente alcuni importanti aspetti che riguardano la storia del campo profughi di Makhmur, andando a toccare la rivoluzione in corso in Rojava a partire dal concetto di “autodifesa”. Buona lettura

Quello che segue è un breve reportage tratto dalle due settimane trascorse nel campo profughi di Makhmur in Bashur (Kurdistan iracheno). Ogni singolo aspetto affrontato nel testo che segue meriterebbe uno scritto più ampio e dettagliato perchè gli argomenti discussi non possono essere rinchiusi in un singolo articolo, per le analisi più tecniche rimando ad un futuro lavoro più approfondito. L’obbiettivo è solo di fornire un breve affresco su una realtà della quale si parla troppo poco e che ha un ruolo essenziale nella storia e nella pratica di ciò che sta accadendo oggi in Rojava.

Ed è proprio da qui che, credo, sia essenziale partire, visto che non è sbagliato affermare che il confederalismo democratico sia nato proprio a Makhmur. In questi anni si è detto e scritto veramente poco su questa realtà situata nel deserto della provincia di Erbil, in quella che oggi è conosciuta come regione autonoma del Kurdistan Iracheno. Makhmur è un campo nato alla fine degli anni ’90 (precisamente 1997) per ospitare i profughi provenienti perlopiù dal Bakur (Kurdistan turco) ed il cui esodo era iniziato anni prima con i bombardamenti e rastrellamenti dell’esercito turco nelle città e nei villaggi come atto di guerra contro il PKK. Uno dei primi abitanti del campo racconta di come qui sia iniziata una nuova vita, dopo anni in condizioni precarie, anni in cui i profughi sono stati dirottati in 8 campi diversi a seconda degli umori del PDK di Barzani e nell’indifferenza della “comunità internazionale”. Il campo è ufficialmente gestito dall’UNHCR, ma dai racconti risulta che l’operato dell’organizzazione è comunque legato alle scelte del PDK. Il dato fondamentale del suo racconto della storia del campo è scoprire come qui l’autogestione, che si è poi evoluta in autonomia democratica, non sia stata una scelta dettata da ideologia o da una linea politica ma una vera e propria necessità, per sopravvivere.

“Nel mese di maggio del 1997 i rifugiati vengono portati a Makhmur con carovane di veicoli e lasciati lì nel nulla. Senza casa, elettricità…il nulla. Il regime di Saddam era allora sotto embargo e quindi non veniva fornita un’assistenza adeguata al campo. Ci fornivano acqua ma non dell’attrezzatura necessaria per distribuirla (a migliaia di persone n.d.r.). Scorte di acqua in contenitori di plastica erano lasciate nel deserto con una temperatura di più di 50°. Nessuna doccia, nessun servizio igienico. Per anni gli unici rifornimenti dell’UNHCR sono stati solo di cibo ed olio. Nessun edificio in cui ripararsi, solo alcune tettoie a fare da ombra.”
In questo contesto molti, soprattutto bambini, muoiono disidratati o a causa del veleno di scorpioni e serpenti presenti in grande quantità e per i quali non c’era alcun rimedio. La gente del campo inizia un lento processo di autorganizzazione per provare a colmare le mancanze di istituzioni ed organizzazioni umanitarie.
Continuando il racconto: “…la vita è cambiata lentamente, ci siamo procurati dei generatori ed è arrivata l’elettricità, qualcuno ha iniziato a coltivare ed abbiamo costruito i primi edifici. Dopo aver vagato per diversi campi oggi tutti gli abitanti di Makhmur (sono circa 12.000) hanno una casa, con acqua corrente ed elettricità.”

Oggi, girando per le vie del campo, quella che era una tendopoli ha le sembianza di un paesino. Piccoli edifici dell’altezza massima di un piano sono distribuiti su tutta la superficie del campo. Ci sono piccoli negozi di alimentari, abbigliamento. Ci sono barbieri, una sala giochi con un biliardo, un grande teatro all’aperto, due campi da calcio ed un bar gestito da sole donne. Ci sono diverse sedi dedicate alle associazioni o alle organizzazioni che compongono la società del campo. Il campo è diviso in 5 settori, ciascun settore è composto da più comine, ogni comina è composta da diverse famiglie. Dall’assemblea più piccola a quella più grande (assemblea democratica del campo) ogni commissione o associazione ha due portavoce, un uomo ed una donna. I giovani e le donne partecipano alla vita di tutte le assemblee del campo ma hanno anche assemblee autonome. Uno dei pilastri su cui si fonda questo nuovo modello di società è proprio l’autonomia dei giovani e delle donne. In questo campo le donne hanno un luogo fisico riservato solo alle donne, dove vengono organizzati seminari ed incontri di formazione sull’importanza dell’autodeterminazione delle donne in una società democratica. In tutto il Kurdistan è in atto da anni una rivoluzione delle donne ma questa rivoluzione è stata resa possibile solo dal lavoro di formazione ed educazione che costantemente viene messo in atto nella società. Una società in cui fino a qualche anno fa esistevano ancora i matrimoni combinati non può cambiare dall’oggi al domani senza un costante lavoro tra la gente, nelle famiglie ed, in questo caso, attraverso dei momenti in cui le donne di tutte le età si confrontano tra loro.
In ogni settore del campo c’è una piccola clinica, aperta anche di notte, con un medico ed una piccola farmacia. C’è anche un ospedale, un altro luogo in cui le contraddizioni delle organizzazioni umanitarie sono evidenti. L’ospedale è composto da una sala di aspetto, un piccolo pronto soccorso con alcuni lettini, un laboratorio di analisi i cui macchinari sono fuori uso, una sala per il dentista, una piccola farmacia ed una sala per le ecografie. I medici ci raccontano che il pronto soccorso non ha tutti i mezzi per fornire l’assistenza adeguata, che il governo rifornisce saltuariamente l’ospedale di medicinali, perlopiù antibiotici ed antinfiammatori, ma nulla di più specifico. La sala per le ecografie è inutilizzabile, un medico ci spiega perchè: “Quando nel 2014 Daesh ha attaccato il campo hanno portato via i macchinari, altri li hanno lasciati ma hanno tolto alcune componenti essenziali per poterli utilizzare”.
La risposta è più che scontata ma provo comunque a chiedere cosa faccia l’UNHCR per l’ospedale. Il medico mi risponde che dall’attacco di Daesh nel 2014 sono scappati e nessuno li ha più visti.
Il tentativo di assedio del campo da parte degli uomini del califfato ci porta su un altro dei pilastri di questa società: l’autodifesa. A protezione del campo sono presenti guerrigliere e guerriglieri del PKK, ma tutti gli abitanti hanno un’educazione all’autodifesa di base. Quando Daesh ha attaccato il campo nel 2014, tutti gli abitanti sono stati preventivamente allontanati. Un guerrigliero racconta che il tentativo di assedio è durato in tutto 2 giorni. Gli uomini di Daesh sono entrati nel campo ma sono dovuti scappare di fronte alla resistenza di chi era lì per difenderlo.

Il concetto di autodifesa è, a mio avviso, uno dei più interessanti aspetti di questo sistema. Durante una conversazione/intervista con Heval Iskam, uno dei guerriglieri impegnati nella difesa del campo, gli spiego che è molto difficile da noi parlare di “autodifesa” sia nell’ambito del dibattito all’interno dei movimenti, degli spazi sociali e dei collettivi; sia nella società in senso più generale.
Con molta semplicità mi spiega questo aspetto fondamentale della vita nella società: “Ogni essere vivente al mondo, in natura, ha uno strumento di autodifesa. La rosa ad esempio ha le spine…”.
Iskan ama la cultura, scrive poesie ed ha pubblicato 2 libri in lingua turca. Gli interessa molto la filosofia e l’arte e conosce il Rinascimento italiano. Ha una sua personale idea sul concetto di autodifesa. Lui è convinto che l’autodifesa sia uno strumento per creare il bilanciamento tra gli elementi della natura, dell’universo. “Nell’universo ed in tutta la natura esiste un meccanismo per bilanciare gli equilibri. In natura l’acqua non beve acqua così come gli animali non mangiano i loro simili. L’ecologismo è la base per l’equilibrio di cui parlavo prima…”. Successivamente, nel corso della lunga conversazione afferma che “…il capitalismo è responsabile di tutti i mali contemporanei ed allo stesso tempo ha prodotto divisioni e quindi intaccato gli equilibri naturali. Ad esempio, il capitalismo ha prodotto le grandi dittature europee del ‘900. A prescindere dalla nostra etnia nelle nostre vene scorre lo stesso sangue, la stessa filosofia umana. Per riportare l’equilibrio nel mondo è necessario combattere il capitalismo ed una lotta anticapitalista non può prescindere dal concetto di autodifesa”. Afferma inoltre che l’autodifesa non è semplicemente proteggere se stessi ma una responsabilità verso l’umanità. Un ultimo passaggio riguarda l’eroica resistenza dei ragazzi di Sur, storico quartiere della città di Amed (Dyarbakir) che hanno tenuto testa all’esercito turco per mesi e senza armi da fuoco. È interessante come in questo contesto la lotta si sia evoluta da guerriglia urbana a lotta armata. La distruzione di un quartiere storico o di siti archeologici rappresenta il preciso intento da parte del governo turco di cancellare la cultura kurda privandola della sua stessa storia. L’autodifesa in questo caso è stata una necessità per provare a non scomparire: “Se non possiamo essere liberi allora siamo pronti a morire”.

La difesa delle tradizioni culturali è un altro aspetto importante. Magari dal nostro punto di vista è rivoluzionario tutto ciò che crea una frattura con la tradizione, quasi come se “tradizione” fosse sinonimo di “conservatorismo”. Non è stato quindi facile comprendere subito a pieno il significato della difesa e dell’attaccamento alle tradizioni. Per un popolo per cui anche il semplice parlare la propria lingua era ritenuto un elemento per un accusa di terrorismo e quindi represso violentemente, in ogni manifestazione della propria cultura la messa in pratica della stessa è un atto rivoluzionario. Concetto ribadito dai responsabili del centro culturale del campo, uno di loro lo spiega dicendo che “ogni società ha la sua cultura, la cultura è l’identità di una società” e che quindi, cancellando la cultura di una società di fatto si cancella il popolo che si identifica in essa. Inoltre aggiunge che “il capitalismo tende a cancellare le culture popolari e quindi preservare la cultura è uno strumento per combattere il capitalismo”.

La cultura e le tradizioni non sono soltanto un fattore identitario ma anche uno strumento di coesione per la comunità. L’appartenenza ad una particolare tradizione crea la comunità stessa. Questo lo si percepisce dagli incontri con i membri delle comine dei vari settori in cui si ha l’opportunità di confrontarsi con la gente comune e capire che percezione abbia del contesto rivoluzionario in cui vive. La condivisione dello stesso passato di repressione è stato uno dei fattori che ha permesso alla comunità di sopravvivere in condizioni ambientali e sociali ostili. Nei racconti della gente viene spesso fuori il riferimento alla società democratica. L’ostilità verso l’uso della parola “democrazia” che, in occidente, significa dare legittimità perfino ai fascisti, mi spinge a chiedere alla gente cosa significa per loro “democrazia”. In alcune delle risposte probabilmente è possibile capire quanto il cambiamento sia radicato nella società e non solo tra le persone con una formazione politica o militante.

“Essere felici quando ci sono 50° e non c’è acqua, questo è democrazia”.

“Quando siamo arrivati qui c’erano solo scorpioni e serpenti, ora ognuno ha la sua casa che abbiamo costruito insieme. Questa per me è democrazia”.

“Si può parlare di democrazia quando la cosa più importante è la libertà della società, non dell’individuo. Se la società è libera allora tutti gli individui sono liberi”.

“Se le persone e la società accettano le diversità allora siamo in democrazia”.

“In Europa c’è una democrazia votata all’individualismo, la nostra idea di democrazia è collettiva. Se tutti sono liberi allora anche il singolo individuo è libero. La democrazia è alternativa al capitalismo, se c’è uno Stato non può esserci democrazia”.

A Makhmur ha avuto inizio un esperimento rivoluzionario in continua evoluzione. La rivoluzione confederale del Rojava ha le sue radici nella storia dei profughi provenienti dal Bakur. Il sistema in atto a Makhmur oggi si è evoluto nel confederalismo democratico ed è ben lontano dall’essere qualcosa di definitivo. Come tutte le rivoluzioni ha un inizio ma non una fine.

 

 

 

 

 

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