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Costruire dall’impasse

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Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa traduzione di un articolo di Javier Gil Rodrigo Calvo / Almudena Sánchez / Marina Rubio / Nuria Alabao / Francisco Gaitán / Emmanuel Rodríguez / Pablo Carmona. Pubblicato in castigliano su El Salto il 12/04/2022.

Traduzione a cura di Pedro Castillo

 

Un gruppo di militanti di diversi collettivi madrileni riflette sul ciclo politico e sulla capacità per articolare uno spazio di mobilitazione.

Aprire il dibattito. La crisi che ci attraversa ci ha fatto tornare su alcune questioni classiche della storia del pensiero rivoluzionario. Abitiamo un mondo in crisi permanente e sottomesso a continui stati d’eccezione, dove i vecchi sistemi di potere — quelli legati alla globalizzazione neoliberista— traballano. Ogni cambiamento reale sembra passare — innanzitutto — dalla costruzione di istituzioni e spazi di mutuo appoggio e di incontro politico che abbiano la capacità di orientare, se non di anticipare, il disastro in fieri.

Ciò nonostante, nel nostro contesto immediato, le basi materiali sulle quali si sono appoggiate queste alternative – quella che potremmo denominare la galassia post- 15M– sono entrate in crisi. Il ciclo istituzionale articolato da Podemos, così come la logica dei movimenti sociali in questa fase, ci hanno lasciati intrappolati fra due estremi. Da una parte il rinnovo del campo progressista, che con la sua densa nebbia prova ad addolcire la politica, sottomettendola al marketing dell’utilità governamentale e catturando il linguaggio dei movimenti a suo favore. Dall’altra parte, la moltiplicazione delle iniziative politiche comunitarie e di base che faticano a trovare un piano consistente rispetto ad un qualche tipo di strategia condivisa.

In mezzo a questi due estremi, si è espressa una nuova necessità: quella di articolare posizioni strategiche e, allo stesso tempo, di costruire autonomia e organizzazione. Si tratta di un’ipotesi sulla quale sono già state avanzate alcune considerazioni interessanti. Fra le altre, è stata criticata l’incapacità di articolazione strategica esistente a partire dal 15M e la mancanza di una prospettiva fattibile nelle nostre pratiche politiche. Ma è stata anche segnalata la necessità di pensare a modelli organizzativi che superino i problemi dell’”assemblearismo” e generino proposte politiche di maggior consistenza senza perdere l’orizzontalità nelle procedure decisionali.

Autonomia e organizzazione

Ancora una volta, sembra che le domande classiche del “che fare?” occupino una parte del dibattito. Ma davvero il problema è quello dell’organizzazione? Senza dubbio questa questione ha un enorme peso. Ciò nonostante, in termini concreti, l’organizzazione non è altro che uno strumento per la distribuzione efficace dei compiti e dei soggetti che vogliono portarli a termine, ed è precisamente qui che sussiste — secondo il nostro punto di vista — il grande problema.

Potremmo essere d’accordo, ancora in termini molto classici, che la questione dell’organizzazione sia difficile da risolvere senza un approccio ai compiti strategici e alle pratiche del nostro presente, e senza chiarezza su chi dovrebbe realizzare un compito del genere. Con diverse intensità, queste domande sono apparse in modo frammentario negli ultimi anni. Chi è il soggetto dell’ecologismo? è stato chiesto. E, in modo ancora più classico: cos’è oggi la classe operaia? O ancora: cos’è la classe oggi?

Sappiamo che per rispondere a queste domande non abbiamo bisogno di un soggetto centrale, definibile, che incarni la rivoluzione, il quale, d’altronde, ancora oggi si dedica troppo tempo a cercare: l’operaio. Sappiamo anche che la risposta non passa per politiche identitarie che ordinino gerarchicamente le oppressioni invece di unire coloro che lottano. Ma non possiamo neanche rispondere da posizioni che ritornano su una timida difesa dei diritti umani, dove lo sfruttamento, gli sfratti o la precarietà vengono approcciati dalla posizione della vittima, carente — come quello o quella che non ha niente — o di richiesta — come unica posizione di lotta in una democrazia—; figure che mettono sempre lo Stato come unico centro della politica.

Davanti a queste sfide, si potrebbe dire che la risposta stia nell’autonomia, nella capacità di autorganizzazione, di creazione e di mantenimento delle lotte. Giusto per nominare le più potenti: le lotte transfemministe, ecologiste, per la casa, i sindacati di quartiere o i centri sociali. Altre diranno che l’autonomia dei collettivi non vale niente se non esiste autonomia di classe. Ma dove ci porta questo dibattito?

La mera indipendenza dal ciclo politico progressista, dai loro sindacati e dai partiti, sembra condurci in una posizione subordinata dove i movimenti diventerebbero una sorta di nuova società civile. E, comunque, scappare da questa trappola non dovrebbe metterci all’angolo, nella semplice costruzione di alternative unicamente nell’ambito locale e comunitario, insieme alle sue singolarità.

Lotta di classe senza classi

L’alternativa sembra allora quasi chiarita. Dal 15M si sono compiuti passi avanti molto importanti all’interno di diversi progetti collettivi. Questi sono stati la salvaguarda di numerose lotte dal basso, così come di spazi di autorganizzazione collettiva potenti e diversi. Al loro interno è accaduta — poniamo come esempio il sindacalismo di quartiere — un’enorme proliferazione di iniziative che sono state capaci di articolare un crescente tessuto militante insieme ai settori sociali più marginali. E senza dubbio arrivare dove non arriva lo Stato, o dove arriva in modo attenuato e debole, è una vittoria.

Lo è anche l’impulso massiccio del movimento femminista autonomo, la disobbedienza civile ripresa dall’ecologismo o dai movimenti antirazzisti. Ciò nonostante, la loro potenza non arriva ad esprimersi, al giorno d’oggi, oltre l’autonomia di ognuno di quegli spazi presi separatamente. Allo stesso modo, la vocazione di mettersi insieme, da sola, non sembra sufficiente. Mettersi insieme, o mantenere un desiderio ampio di unità, sembra avere grossi limiti, come anche il ricorrere a disegni organizzativi che sono chiari soltanto nella teoria.

In ogni caso, non pensiamo di trovarci in una fase in cui le immagini che richiamano alle organizzazioni socialiste tradizionali — marxiste-leniniste, ad esempio — possano portarci nella giusta direzione. La diversità delle lotte e dei loro soggetti sono una buona notizia che interpella il capitalismo come forma di governo della vita, della città nel suo insieme, e non solo dei soggetti in quanto lavoratori o classe operaia. Con un’affermazione forte, diremmo che vogliamo costruire la lotta di classe nell’assenza delle classi. È questo, pensiamo, il problema di fondo.

È necessario ricordare qua che le classi non sono tali per una definizione teorica o “sulla carta”. La classe è esistita soprattutto come esperienza di sfruttamento, di dominio e di lotta condivisa. Soltanto questi tre elementi — l’esperienza dello sfruttamento, del dominio capitalista e delle lotte condivise — hanno costruito quello che oggi chiamiamo “la classe”. Soltanto dopo sono state possibili le “spiegazioni” e la teoria, in nessun caso prima. Per questo, l’obiettivo principale dovrebbe essere quello di ricercare e conoscere l’esperienza concreta del dominio e dello sfruttamento nel nostro tempo, capire le linee di comando e di governo che le rendono possibili, il programma politico su cui si appoggiano e — per quanto possibile — costruire esperienze di lotta che ricostruiscano legami politici e comunitari all’interno di queste realtà.

Per fare sì che tutto questo accada — sotto forma di contropotere, autonomia e organizzazione —, dobbiamo tornare a incontrarci al di là delle nostre esperienze concrete, delle nostre posizioni e dei nostri movimenti particolari. Dobbiamo allontanarci dall’idea di autonomia come il proprio, “il mio collettivo o il mio spazio”, per riprendere dibattiti politici di congiunzione, per orientarci in comune, per imparare a stare insieme indipendentemente da dove stia ognuna.

Lungi dal ricorrere all’immaginario socialista, dove la scommessa strategica sembra depositarsi spesso in un qualche tipo di comitato, gruppo di esperti o direzione di partito, può essere più pratico ricorrere al vecchio immaginario federalista, quello che rese possibile nell’Ottocento che si creassero collegamenti fra molte iniziative disperse e diverse, piccoli e grandi sindacati, lotte concrete, fino a dar forma — ad esempio nel caso iberico — al movimento anarchico del tempo. Federazione, incontro e discussione politica condivise si concretizzarono allora in una miriade di iniziative di dibattito (inclusa la stampa di movimento) e di non poche iniziative organizzative, alcune di tipo sindacale e altre no, le quali storicamente riuscirono a costruire orizzonti strategici condivisi.

È qualcosa di immaginabile oggigiorno? Partiamo da una ricchezza di iniziative, lotte ed esperienze, da una molteplicità di soggetti e spazi sociali ai quali non vogliamo rinunciare. Ma pensiamo anche che tutte insieme possiamo costruire un luogo di incontro e discussione che ci permetta di pensare oltre le linee di governo — e alla loro concezione utilitarista delle lotte, che devono essere sempre sottomesse alla linea strategica del partito. In termini forti, si tratta di andare oltre al capitalismo patriarcale e razzista, e di costruire orizzonti strategici condivisi che ci permettano di cooperare.

 

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