
Un 19 marzo parigino contro le violenze della polizia, il razzismo istituzionale e la hoggra
Pubblichiamo un breve approfondimento per chiarire le dinamiche che hanno portato all’imponente marcia di domenica scorsa a Parigi “pour la justice et la dignité” (marcia per la giustizia e la dignità) contro le violenze della polizia, il razzismo istituzionale, la caccia al migrante e lo stato di emergenza. Aperto dalle famiglie delle vittime delle forze dell’ordine, il corteo ha riunito 25 000 persone imponendo all’attenzione pubblica, a pochi giorni dalle presidenziali, uno dei grandi rimossi della società francese: il rapporto endocoloniale con le sue periferie.
Partiamo innanzitutto dalla composizione del corteo. Dietro le famiglie e i vari comitati per la verità hanno sfilato tanti collettivi e associazioni, quale la MAFED (collettivo di donne razzizzate), i collettivi dei sans-papiers, quelli delle periferie (come il FUIQP, Fronte unito del’immigrazione e dei quartieri popolari), l’associazione per la palestina, la Brigade Anti-negrophobie, i collettivi antifasciti e uno spezzone della ZAD. Hanno partecipato anche alcune organizzazioni più ufficiali come la LDH (Lega dei diritti dell’uomo), posizionatesi contro la stato di emergenza, o sindacati di base come SUD et CNT, oppure partiti come l’NPA (Nuovo partito anticapitalista). Dietro di loro sfilavano anche la CGT e il partito comunista, con la presenza di Melanchon, candidato alle presidenziali. A chiudere il corteo il blocco nero, con al suo interno la composizione autonoma che ha riproposto il famoso “cortège de tete” nato la primavera scorsa, questa volta in coda.
La marcia si è tenuta in un contesto particolarmente teso in Francia a riguardo dell’impunità della polizia. Solo il mese scorso la periferia nord di Parigi è stata scossa da alcuni giorni di rivolte e blocchi dei licei al seguito dello stupro subito da Theo (vedi 1 – 2). Il caso di Theo si aggiunge al recente assassinio di Adama Traore e all’accanimento giudiziario nei confronti della sua famiglia. Senza dimenticare il processo del poliziotto che ha ammazzato Amine Bentounsi, che si è concluso qualche giorno fa con una condanna a 4 anni con condizionale. La faccenda è stata molto seguita grazie alla mobilitazione di cui è stata motore la sorella della vittima, una delle personalità che ha lanciato la marcia in quanto membro dell’associazione “Urgence notre police assasssine”.
Da segnalare il grossissimo il dispositivo poliziesco, che ha riprodotto le strategie elaborato l’anno scorso durante le manifestazioni contro la loi travail. I manifestanti sono stati perquisiti all’entrata del corteo, hanno sfilato dietro diversi cordoni di polizia e decine di camionette e la piazza della Republique, punto di arrivo del corteo dov’era allestito un palco per un concerto, era una prigione a cielo aperto con muri di griglia e blindati a ogni uscita.
Questa giornata rappresenta indubbiamente un punto di rottura promosso dal PIR (Partito degli indigeni della Republica) che è riuscito a sottrarre l’egemonia della battaglia antirazzista a SOS Racisme. Il PIR, dopo essere stato tacciato di communitarismo per anni dalla sinistra istituzionale, nella sua strategia di apertura alle grosse organizzazioni bianche di sinistra è riuscito, attraverso i comitati di famiglie delle vittime, a portare in piazza partiti e sindacati sul proprio cavallo di battaglia : l’antirazzismo politico. Il suo lavoro ha contribuito a fare della questione di razza un tema sul quale le organizzazioni bianche centrate sulla questione di classe si devono ormai posizionare.
Questa scelta politica ha tuttavia suscitato molte critiche da parte di altri collettivi e associazioni di quartiere che hanno denunciato una strumentalizzazione della figura delle famiglie delle vittime della polizia. La famiglia Traoré non ha firmato l’appello alla marcia affermando pubblicamente che gli organizzatori non erano interessati a mobilitare la gente dei quartieri popolari. Certi ancora si sono chiesti per quale ragione l’islamofobia, fino a poco fa tema centrale per il Partito degli Indigeni della Repubblica, fosse sparito dalle rivendicazioni ipotizzandone una scelta dovuta a un processo di “normalizzazione” per pemettere un’alleanza con il Partito comunista.
In effetti, la netta differenza rispetto alla marcia svoltasi nell’ottobre 2015, sebben meno partecipata e meno seguita mediaticamente, è da vedersi in termini di composizione. La prima marcia della giustizia e della dignità era riuscita a portare in piazza una soggettività dei quartieri periferici e “non bianchi” non appartenente a alcuna organizzazione o associazione, composizione che è venuta a mancare quest’anno…
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