
Il bluff dell’ intelligenza artificiale
Perché la bolla speculativa è solo la punta dell’iceberg di un piano per consolidare il potere.
In queste ultime settimane abbiamo sentito parlare sempre piu spesso dell’IA come una “bolla”. Con questo termine si descrive la crescita vertiginosa e insostenibile delle valutazioni di mercato delle aziende legate all’IA. In modo simile a quanto accaduto con la bolla dot-com alla fine degli anni ’90, un’enorme ondata di investimenti speculativi sta inondando il settore, alimentata più da aspettative euforiche e narrazioni mediatiche che da solidi fondamentali economici. La promessa di una rivoluzione produttiva senza precedenti spinge i capitali verso un numero ristretto di attori, le cui quotazioni azionarie sembrano ormai scollegate dalla loro reale capacità di generare profitti.
Queste recenti analisi che paventano il rischio di una “bolla speculativa” però, colgono solo la superficie del fenomeno. La loro diagnosi, pur corretta in termini finanziari, rischia di oscurare la logica politica ed economica sottostante che muove questi imponenti flussi di capitale.
La dinamica in atto è infatti più profonda di una semplice euforia di mercato. L’ingente allocazione di risorse nell’IA risponde a un imperativo strategico del capitale globale: rafforzare ed estendere il potere esercitato dai grandi conglomerati tecnologici. Invece di generare un valore economico diffuso e sostenibile, questa ondata di investimenti serve a erigere barriere, a privatizzare la conoscenza attraverso modelli proprietari e a garantire il controllo sulle infrastrutture tecnologiche del futuro.
Nel sistema capitalista in cui viviamo, infatti, l’intelligenza artificiale diventa l’ennesima manifestazione della tendenza intrinseca del capitalismo a trasformare ogni innovazione in un’opportunità di accumulo, uno strumento per perpetuare ed esacerbare le asimmetrie di potere esistenti.
Le aziende hanno speso trilioni per data‑center, GPU e infrastrutture di calcolo, non perché la società ne abbia realmente bisogno, ma perché il mercato richiede continui ritorni sui capitali investiti.
Quando l’entusiasmo si esaurirà e tutti capiranno che gli investimenti nell’IA – come i piani da 500 miliardi di dollari di OpenAI o le centinaia di miliardi di Meta – non sono in grado di produrre flussi di reddito sufficienti a coprire i costi di costruzione e gestione, il valore di queste imprese crollerà, trascinando con sé una fetta significativa della crescita economica statunitense.
Il paradosso della produttività e i costi insostenibili
Il primo segnale che le cose non stanno andando come viene raccontato è l’assenza di un boom di produttività nei dati macroeconomici. Nonostante gli investimenti colossali, non stiamo assistendo a un’accelerazione dell’efficienza su larga scala.
Al di là del costo iniziale delle infrastrutture (data center, GPU), i costi operativi per l’addestramento e l’esecuzione dei grandi modelli linguistici sono enormi. Il consumo di energia e acqua ha raggiunto livelli critici, rappresentando una diseconomia esterna scaricata sull’ambiente e sulla collettività. Inoltre i modelli di IA generativa eccellono in compiti isolati e standardizzati, ma si rivelano fragili e inaffidabili quando devono essere integrati in processi lavorativi complessi e ricchi di contesto. L’integrazione richiede costose personalizzazioni e, soprattutto, una costante supervisione umana per correggere errori, “allucinazioni” (informazioni false presentate come vere) e output privi di senso. Questo costo umano vanifica gran parte del guadagno di efficienza promesso. Infine gran parte delle applicazioni attuali non risolve problemi reali e complessi, ma si concentra su aree a basso impatto o addirittura futili, come la generazione di contenuti di marketing a basso costo, chatbot per il servizio clienti spesso inefficienti o la creazione di immagini sintetiche. Il valore generato è spesso marginale rispetto all’investimento richiesto.
L’aspetto più significativo è che l’attuale traiettoria dell’IA non sta solo mancando di produrre valore positivo, ma sta attivamente generando danni tangibili in diversi ambiti. Per citarne un paio, Internet sta venendo inondata da contenuti di bassa qualità generati artificialmente (“slop”), che inquinano i risultati dei motori di ricerca, degradano piattaforme come Wikipedia e rendono sempre più difficile distinguere le informazioni affidabili dal rumore. Un vero e proprio attacco all’infrastruttura della conoscenza collettiva.
Inoltre i sistemi di IA, addestrati su dati storici che riflettono i pregiudizi della società, vengono impiegati in settori critici come la selezione del personale, la concessione di prestiti o la valutazione del rischio di recidiva. Il risultato è una discriminazione su scala industriale, che automatizza e rafforza le disuguaglianze razziali e di genere con una patina di oggettività tecnologica.
In conclusione, etichettare la frenesia per l’IA come una semplice “bolla” finanziaria è riduttivo. Sebbene i segnali di una speculazione insostenibile siano evidenti, il vero nocciolo della questione è altrove. Non siamo di fronte a un’innovazione tecnologica il cui valore è stato temporaneamente sovrastimato, ma a un progetto strategico di riconfigurazione del potere.
Lo scoppio di questa bolla, quando avverrà, non sarà un semplice riassestamento di mercato. Lascerà dietro di sé un’infrastruttura tecnologica ancora più centralizzata nelle mani di pochi colossi, un ecosistema informativo inquinato da contenuti sintetici e cicatrici sociali profonde causate dalla discriminazione algoritmica e dalla svalutazione del lavoro. Il vero costo di questa operazione non sarà misurato in punti percentuali persi negli indici di borsa, ma nel consolidamento di un potere tecno-capitalista che, in nome di una promessa di efficienza mai mantenuta, ha reso le nostre società più fragili, diseguali e meno libere.
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