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UIC Strike: un’intervista

 

Com’è stato possibile unire tenure e non tenure tracks [professori di ruolo e precari]?

Effettivamente è inusuale, di solito sono opposti, i precari vedono i docenti di ruolo come nemici. Il punto è che nella nostra scuola c’è stato proprio questo progetto che voleva tenere assieme i tenure e i non tenure tracks. L’amministrazione universitaria ci ha combattuto per questo, dicendo che era una cosa illegale. Loro vogliono usare il divide et impera. Abbiamo portato la cosa in tribunale, ma abbiamo perso di fronte alla corte suprema dello Stato. Quindi abbiamo formato due sindacati, che però abbiamo sempre visto come coordinati e uniti. All’inizio negoziavamo separatamente, ma dopo un po’ è diventato naturale trattare assieme […]. Molti precari erano sospettosi, e penso che lo sciopero sia stato molto importante perché eravamo fuori insieme per due giorni, marciando, cantando… E dunque hanno pensato “Ehi, in realtà questi professori sono realmente coinvolti con noi”. Noi professori abbiamo più potere, e possiamo usarlo per unificarci.

 

Mi sembra che le rivendicazioni dello sciopero non fossero corporative?

Sì. Infatti in molti hanno usato il termine “storico” per questo sciopero, e io penso lo sia stato. Non so come sia in Italia, ma negli ultimi quaranta-cinquant’anni c’è stata un’evoluzione che ha portato alla situazione attuale… Hai presente: se metti una rana nell’acqua calda schizza fuori, ma se la metti nell’acqua fredda la puoi portare a bollore… E penso che questo sia successo: una lenta evoluzione del sistema. Una volta i “precari” erano rari, tutti erano professori di ruolo. A causa delle misure di austerità […]. Ad esempio nel mio dipartimento (io ero a capo del mio dipartimento) vent’anni fa avevamo una quarantina di professori di ruolo, ora meno di venticinque. Quello che è successo, immagino in Italia sia simile, è che: uno fa il dottorato, non trova lavoro e: “Ehi! Che ne dici di insegnare in un corso?”. Sembra che ti aiutino, in realtà ti stanno danneggiando. Ora ci sono persone che hanno due o tre lavori, devono spostarsi di continuo, fanno pochi soldi […]. Qui inoltre c’è la questione del debito studentesco, quando uno finisce ha debiti enormi! […] E’ una forma di schiavitù […].

 

Mentre rispetto a presidi di facoltà e rettori…

Sono manager. […] Io insegno all’università statale, e quando ho iniziato circa il 60% delle entrate veniva dallo Stato e il resto dalle rette universitarie. Lo Stato dopo le misure di auterity ha fatto i tagli, e adesso abbiamo circa il 50% dei fondi dallo Stato e il resto dalle tasse, quindi una delle cose successe è che l’università deve fare found raising e dunque c’è un coinvolgimento di figure manageriali, e le università diventano più simili a money-making corporation.

Ma torniamo indietro. Un’altra questione è che i professori hanno perso molto potere: non abbiamo il diritto a determinare nulla nell’università… Voglio dire, noi siamo l’università […] e all’oggi c’è anche una sproporzione incredibile nelle retribuzioni tra professori e rettori o presidi […].

Non decidiamo sulla composizione delle classi, sull’allocazione delle risorse […]. Molte università hanno senati accademici, istituiti dopo le rivolte studentesche degli anni ’60 […] ma non hanno nessun potere […]. Io posso scegliere che corso insegnare, ma non ho alcuna possibilità di influire su dove vanno spesi i soldi […] Non so se questo scioperò aiuterà a risolvere questa situazione, è una questione di lungo periodo, ma una delle cose che stiamo cercando di fare in questa vertenza è […] legarci direttamente all’università (dove sta veramente il potere) e non alle singole facoltà […]. Loro non vogliono mollare su nulla, vogliono avere managerialmente il controllo completo […]. E’ una grossa battaglia […].

 

Voi avete praticato iniziative (lo sciopero, il picchetto ecc…) che paiono forme di lotta inedite per professori universitari.

Sì, questa è una cosa importante. Prima la maggior parte dei professori si considerava come professionisti […], ma da quando è iniziato il processo di sindacalizzazione […] si è iniziato a dire: “siamo trattati come lavoratori adesso”, così ci tratta questa struttura aziendale […]. Inoltre negli USA negli anni ’60 fu garantita la possibilità di sindacalizzarsi, e ci fu una grossa ondata di sindacalizzazione degli impiegati pubblici […]. Ma non c’è mai stato un unico sindacato dei professori. Credo che le persone fossero sostanzialmente soddisfatte […]. Le persone che si sono sindacalizzate negli anni ’60 venivano da un periodo di vasta sindacalizzazione datasi negli anni ’20 su tutti i livelli del lavoro. Quindi non era un salto troppo grosso sindacalizzarsi per i professori. Ma dopo c’è stato questo grosso salto di generazioni in cui non c’è stato più nessun contatto col sindacato […]. Io vengo da una famiglia working class […], il sindacato mi ha mandato al collage […], ma dopo di me le persone guardavano al sindacato come a qualcosa dei guidatori di bus o degli insegnanti scolastici […] e l’idea di avere un sindacato, di fare sciopero, era qualcosa di lontano […]. Poi è iniziata questa proliferazione di differenti contratti […] e considera che negli ultimi cinque anni non abbiamo avuto un aumento […] e hanno inserito delle modalità per le quali di fatto spesso si lavora senza essere pagati […]. Tutte queste cose hanno fatto montare la rabbia e comprendere che siamo trattati esattamente come i lavoratori che sottostanno alle decisioni manageriali […]. Tranne le persone dall’Europa dell’Est e dalla Russia, che odiano il sindacato perché gli ricorda il Socialismo (e dalla Cina) […] questo ha reso più semplice la radicalizzazione delle facoltà e l’iscrizione al sindacato.

Un’altra cosa che abbiamo realizzato è che se sei semplicemente un singolo professore non hai potere, ma se sei una Union hai qualche potere. […] Ai picchetti […] abbiamo avuto connessioni con molti sindacati dei lavoratori del Campus […] e anche con molti altri sindacati dalla città e non solo. E’ stato sorprendente […].

 

Qual è lo stato del sindacalismo negli Stati Uniti?

C’è una grossa spinta da parte della destra che cerca di disfarsi dei sindacati […]. Persone come i Koch Brothers [Ndt. La seconda più grossa compagnia multinazionale privata degli Usa] pensano sia la volta buona per riuscirci […]. Ad esempio a livello statale utilizzano questo eufemismo del “diritto al lavoro” […] o le leggi del “fair share laws” [Ndt. Leggi profondamente antisindacali che di fatto minano l’esistenza stessa del sindacato. Per un minimo approfondimento giornalistico: http://www.npr.org/2014/01/21/264575979/high-court-considers-legality-of-fair-share-union-fees] […] e stanno mettendo un sacco di soldi per modificare le leggi […]. E’ per questo che i sindacati vedono le università come i luoghi opportuni da dove partire per rovesciare la questione. […] Guarda, noi siamo tutte persone che vengono dagli anni ’60, molti di noi. Siamo radicals o ex-radicals combinati con giovani persone precarie sfruttate… Good combination… […]. Non c’è più nessuna tradizione del sindacato, fino a vent’anni fa il 50% dei lavoratori pubblici erano iscritti al sindacato, adesso è circa il 15, e la maggior parte sono nell’educazione. […] Non so come sia in Italia, ma qui è come se i lavoratori fossero diventati una forza regressiva invece che progressiva […].

 

Dicevi che l’università oggi è un motore della diseguaglianza…

Sì […]. Il punto è che proprio nei livelli alti dell’educazione avviene una forte selezione di classe. Considera che quando sono andato io all’università questa costava 5000 dollari l’anno, ora 50.000. Se vuoi andare ad Harvard, Princeton o in qualsiasi università privata tantissimo di più […]. Ci sono posti come il nostro [Ndt. L’università in cui insegna] che sono veramente più inclusivi, ed è per questo che per noi è importante […] siccome noi abbiamo working class students e spesso first generation educated, gli studenti non vanno bene, impiegano più tempo a laurearsi (in media 6 contro 4 anni) perché lavorano, vivono a casa, a volte hanno figli… Il maggior tasso di abbandoni è tra il primo ed il secondo anno. Le persone si iscrivono ma non rimangono […]. La stessa università si focalizza sul problema, ma la cosa ironica è che i corsi di queste prime annate sono tenuti dalle persone che guadagnano meno e che spesso devono fare anche altri lavori […].

 

Rispetto agli studenti…

La cosa bella è che allo sciopero sono venuti molti studenti, ma è molto difficile per loro organizzarsi, perché vivono in parti distinte della città, impiegano molto tempo per venire al Campus, lavorano per McDonalds, Gap… lavorano per tutte le corporations, non hanno il salario minimo, devono lavorare e non stanno assieme… E’ difficile organizzarsi per loro. E non hanno una prospettiva radicale […]. Tu vieni dall’Italia che è una cosa diversa […]. Voglio dire: Occupy è stato molto importante, ma aveva i suoi limiti. La generazione in cui sono nati non ha avuto una filosofia di “socialismo” [Ndt. Negli Usa il termine ha un senso completamente differente dall’Italia], erano contro un’idea di collettività, contro il sindacato, pro-azienda, la cosa migliore che puoi fare per te stesso è prendere un telefono della Apple, la giacca Northface, le scarpe della Nike… Non c’è stata nessun tipo di analisi alternativa (o marxista) […] quindi è davvero difficile organizzarsi per loro. […] Magari però in Italia avete avuto la generazione Berlusconi quindi lo sapete… […] Un’altra cosa: le università in Italia e in generale sono ancora abbastanza radicali, negli Stati Uniti no […] ma probabilmente le università italiane stanno inseguendo il nostro modello.

 

 

Abbiamo riportato la lunga intervista con molti tagli per una maggiore leggibilità. Chi dovesse essere interessato alla versione originale può contattarci su Facebook.

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