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Turchia: la geometria variabile del network

«Pensi davvero che il blackout imposto a Twitter da Tayyip ci abbia messo fuori gioco?»K. quasi si fa scherno di me quando gli domando quali siano state le conseguenze del blocco di Twitter e YouTube voluto da Erdoğan nei giorni che hanno preceduto le elezioni amministrative del 30 marzo in Turchia. Una mossa che secondo molti aveva l’obiettivo di impedire la diffusione di alcune intercettazioni circolate sui social media, che mettevano in luce il diretto coinvolgimento del primo ministro in diversi episodi di corruzione governativa. «Stronzate» è il suo commento lapidario «chiunque in Turchia era a conoscenza di quei leak al momento del blocco».

K. ha poco più di trent’anni e dopo aver girovagato a lungo per l’Europa è tornato ad Istanbul quando Gezi Park è esplosa lo scorso giugno. Scambio alcune battute con lui davanti alla webcam e mi rendo subito conto di non avere a che fare con un hacker né con un techie (cioè una persona particolarmente incline all’uso delle tecnologie digitali). Eppure, spiega K., per lui utilizzare un proxy o altri sistemi per aggirare la censura in rete «è come mettere i calzini quando mi sveglio la mattina. Ogni settimana un nuovo sito viene reso inaccessibile. E ogni settimana cambio la configurazione del mio computer, navigo senza troppi problemi e mi faccio una bella risata alla faccia dell’AKP (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che guida la Turchia da 12 anni, nda)».

Un fatto che, a ben vedere, non dovrebbe destare troppo stupore. I reiterati tentativi delle autorità di Ankara di mettere il lucchetto al web non sono certo una novità per il popolo turco. I primi risalgono al 2007 quando il parlamento approvò la legge 5651, imponendo alle aziende locali che forniscono connettività di filtrare i siti web ritenuti “inopportuni” dalla BTK, l’autorità amministrativa delle tecnologie d’informazione e comunicazione. Un quadro aggravatosi a febbraio con il varo di un emendamento alla direttiva in questione, teso ad ampliare a dismisura il potere sanzionatorio dell’authority.

Tuttavia, come sovente accade, più la censura stringe il pugno più la sabbia le scivola tra le dita. «Vedere costantemente messa sotto attacco la mia libertà d’informazione» dice K. «è stato ciò che mi ha spinto ad alfabetizzarmi da un punto di vista informatico. Mi tolgono un diritto? Io provo a riprendermelo». Detta in altre parole, lo stato di censura in cui versa da anni l’infosfera turca ha provocato l’emersione di un sapere socialmente diffuso che reca in sé gli anticorpi per bypassarla. La riprova si è avuta il 20 marzo: mentre Erdoğan in televisione minacciava di voler “sradicare Twitter”, i muri di Istanbul e i manifesti elettorali dell’AKP venivano tappezzati di scritte che spiegavano ai cittadini come continuare agevolmente a comunicare in 140 caratteri. Nel frattempo centinaia di migliaia di persone scaricavano sui loro computer applicazioni come Hotspot Shield e Tor per scavalcare il muro della censura con pochi click.

«Col tempo, e in particolar modo in seguito ai fatti di piazza Taksim, è maturata una presa di coscienza collettiva che ha portato ad individuare la rete come un campo di battaglia. Credo sia questo» conclude K. prima di chiudere la sessione di chat «il vero motivo per cui Tayyip sta cercando di ricondurla sotto il suo controllo. Anche se per ora le sue mosse hanno avuto come unico effetto quello di tenere lontano da Twitter solo i sostenitori dell’AKP».

Politica del fango, nubi tossiche, tasse e sovranità digitale.

Il “sultano” di Ankara quindi ha fatto un buco nell’acqua? La sua vittoria alle amministrative suggerirebbe al contrario che abbia conseguito un risultato attentamente ponderato. Sebbene sia uno statista dispotico e sanguinario, Erdoğan non è affatto uno stupido. Zeynep Tufeckci, sociologa della tecnologia di stanza ad Harward, ha sostenuto che il governo turco è sempre stato consapevole dell’impossibilità di oscurare completamente le informazioni scottanti che lo riguardavano. Una tesi condivisa anche da Paolo Gerbaudo, ricercatore presso il King’s College di Londra ed autore di Tweets And The Streets, libro che analizza le forme odierne dell’attivismo digitale. «È improbabile che gli ultimi attacchi contro i social in Turchia avessero l’ambizione di produrre ricadute pratiche. Mi pare sia stata piuttosto un‘operazione di reputational damage: un tentativo di dipingere le reti sociali come spazi in mano a criminali ed esagitati eterodiretti da potenze straniere». Dunque fango contro fango. Una vera e propria campagna di delegittimazione posta in essere con numerosi obiettivi: screditare i movimenti sociali per farli apparire come pupazzi manovrati da interessi più grandi di loro, denigrare un sistema di comunicazione che il governo non riesce a controllare, mantenere il consenso nel proprio elettorato proiettando un’immagine di forza e giocando la carta anti-imperialista.

Insomma, che la rete sia un terreno di lotta non è una consapevolezza esclusiva dei ragazzi di piazza Taksim e la strategia elaborata dall’establishment sembra confermarlo in pieno. Censura e sorveglianza del resto sono solo alcuni dei tasselli che la compongono. L’esecutivo per esempio mantiene un atteggiamento ambivalente verso i social: tollerante con quelli più generalisti e propensi a collaborare col governo (come Facebook, largamente utilizzato da settori della classe media vicini all’AKP), intimidatorio con quelli presidiati dal movimento. È il caso di Twitter, accusata da Erdoğan – probabilmente non a torto – di evasione fiscale e minacciata per questo motivo di ritorsioni economiche. Per evitare che in futuro possa ripetersi un altro blackout prolungato, l’azienda californiana ha inviato in missione diplomatica nel paese il vicepresidente Colin Crowell con la promessa di rispondere in modo più sollecito alle richieste censorie avanzate dalle autorità. E in vista di un maggio ad alta tensione (i sindacati hanno chiamato una piazza di conflitto per la festa del lavoratori, mentre il 31 sarà l’anniversario di Piazza Taksim) l’AKP si prepara ad intossicare la sfera pubblica di Internet con flussi di notizie filo-governative: sono 6000 le persone assunte nel settembre 2013 per infiltrare i social media, “contrastare Gezi” e rileggere positivamente il conflitto in Siria. «Di fronte al potere predatorio di multinazionali e agenzie di sicurezza statunitensi» dice Gerbaudo «alcuni paesi stanno cercando di controllare maggiormente la propria economia e il proprio flusso dati per riacquisire una sorta di sovranità digitale». E aggiunge: «Questa tendenza indica una crisi di consenso della globalizzazione ed è segno, ad Ankara come in altri stati, di un ritorno dello stato forte che assume dimensioni inquietanti».

L’oligopolio della sorveglianza

In Turchia la lotta per l’egemonia in rete si lega a doppio filo anche col possibile sviluppo del mercato delle telecomunicazioni. L’emendamento alla legge 5651 prevede l’obbligo per gli ISP locali di tenere traccia per due anni delle attività degli utenti, in modo da consentirne il monitoraggio al governo. Una misura la cui implementazione non sarà certo indolore per molte aziende di media dimensione che, costrette a sobbarcarsi il costo di dispendiose strumentazioni di sorveglianza, rischieranno di fallire e vedere occupato il loro posto da un esiguo numero di major. All’orizzonte si profila una situazione di oligopolio che non potrà che facilitare l’opera di controllo della BTK. Uno scenario che ricorda su scala ridotta la condizione in cui versa il mercato globale dell’ICT: a dispetto delle frequenti perorazioni a favore della “libera concorrenza”, gli attori in grado di fare il bello e il cattivo tempo si contano ormai sulle dita di una mano. Quello che un tempo era “il network dei network” è stato trasformato in un aggregato di pochi supernodi centralizzati, dotati di enormi poteri e sempre pronti a collaborare con istituzioni politiche e militari.

Basta la tecnologia digitale per tracciare possibili vie di fuga da questo contesto? «È uno degli elementi del cocktail» sostiene Arturo Filastò, giovane sviluppatore italiano di Tor (software che rappresenta lo standard per l’anonimato on-line) «perché può essere utilizzata come strumento politico per ridurre l’ingerenza degli stati sulla rete. Non credo però sia la soluzione ultima: tutt’oggi permane infatti una forte disparità sociale tra i cittadini che hanno le competenze tecniche per aggirare i sistemi di censura e quelli che invece ne sono sprovvisti». La pensa allo stesso modo Leonardo Maccari, hacker di Ninux.org, progetto diffuso in tutta Europa e nato con l’intento di creare dal basso reti comunitarie, autogestite e neutrali: «Pensare che la tecnologia si sostituisca alle dinamiche sociali significa ragionare in maniera minoritaria. Crittografia ed anonimato sono oggi più necessari che mai, ma è illusorio ritenere che siano sufficienti per eludere la sorveglianza globale. L’obiettivo vero» conclude «non è produrre uno strumento che funziona per l’1% della popolazione di Internet, ma renderne più democratiche le logiche che la governano».

 

da: http://ctrlplus.noblogs.org

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