
Stralci di inchiesta (4): ideologia e realtà del mercato del lavoro – Intervista sui corsi di formazione al lavoro
Uno dei primi punti da mettere in evidenza nell’intervista è quello relativo al ruolo che svolgono alcune istituzioni nella costruzione del mercato del lavoro. V. infatti racconta la sua esperienza relativa a corsi di formazione promossi e finanziati dalla regione Emilia Romagna, mostrando come oggi l’accesso al mercato sia sempre più regolato da una molteplicità di agenti che spazia dalle agenzie lavorative alle regioni, da scuole e università fino ai numerosi corsi offerti da enti pubblici e privati. Questo conduce a stratificare su tantissimi livelli la forza-lavoro, tanto che alla fine dei corsi di formazione «si è in una posizione diciamo importante, sulla carta» – anche se «poi se uno guarda la realtà alla fine si è in magazzino, a lavorare coi pacchi. Cioè quello è, non è che si stia facendo chissà che cosa di assurdo».
Dall’intervista si possono dedurre alcuni tratti significativi di quella che potremmo definire come “l’ideologia” del lavoro contemporaneo. In un mix di retoriche toyotiste, sull’individuo come “imprenditore di se stesso” e sull’azienda come “corpo collettivo” paritario al suo interno, quella che emerge è la nuova figura di operaio («si supera il concetto dell’operaio come forza fisica per tramutarlo in una forza interna all’azienda») che i corsi di formazione al lavoro cercano di plasmare in termini di soggettività.
A partire dalle parole di V. questa formazione viene descritta come un «bombardamento costante, una rottura di ogni concetto che avevi del mondo del lavoro». E’ una specifica mentalità quella che viene trasmessa, che presenta una doppia faccia: da un lato questi corsi cercano di insegnare come inserirsi “al meglio” nel mondo lavorativo di oggi; dall’altro, assumendone di conseguenza le logiche, formano il lavoratore all’adattamento a un contesto di continua concorrenza e auto-disciplinamento. Non a caso V. ci dice che «gira e rigira al di là della facciata bella è il classico mondo del lavoro: vai avanti solo se ti scanni uno con l’altro tendenzialmente».
E’ proprio all’incrocio tra questa “descrizione oggettiva” del lavoro oggi e gli indirizzi che i docenti dei corsi danno a chi li segue, che emerge l’interesse dell’intervista e che si possono ragionare strumenti per una comprensione critica di quanto si muove in questo mondo. V. ci racconta in particolare che è la costruzione di un «nuovo ruolo dell’operaio» quello che i corsi di formazione consentono di comprendere. Una nuova “filosofia” del lavoro che passa per le immagini che ci propone V., come quella degli organigrammi aziendali che vengono raffigurati con tutte le figure disposte in orizzontale, o addirittura con i dirigenti posizionati al fondo della catena.
E’ la partecipazione all’azienda una delle questioni centrali. Per promuovere ciò la centralità dell’operaio viene spesso messa in rilievo: «l’operaio viene messo con un ruolo centrale all’interno del flusso produttivo di una azienda» e «chi produce è il cuore pulsante dell’azienda», affinché si possa «creare questa cooperazione totale all’interno delle aziende». E’ l’individualità operaia, la sua concezione di se stesso, che deve modificarsi: «tu sei una persona più importante. Tu hai un ruolo. Ciò che conta per andare avanti è te stesso»; «queste cose ti creano un senso di… non di meritocrazia, ma di missione diciamo. Sei tu che ti devi dare una mano per uscir fuori dalla condizione in cui sei». Per sviluppare questa dimensione nei corsi e nei tirocini si fa ripetutamente ricorso a lezioni di tipo psicologico e a giochi di gruppo, che devono creare un senso di cooperazione, ma che al contempo sviluppano anche un senso di “formazione primaria” che riporta il lavoratore allo stato “infantile” – il che può essere anche umiliante, e non a caso V. alla prima occasione in cui gli viene proposto di giocare dice: «io mi rifiutai, cioè “preferisco andà a lavorà perché che cazzo sto a giocà”».
V. ci dice una cosa che, di fondo, ha appreso da questi corsi – imparando a capire “come funziona il meccanismo” -: nel lavoro bisogna, come ripete spesso, «essere furbi», che di frequente equivale all’«essere stronzo».
Nell’intervista si affronta anche la visione del ruolo del sindacato («il sindacalista, visto come il parassita della situazione. Quello che se c’è un problema non lo risolve ma guarda sempre dall’altra parte, che non fa le veci degli operai ma di chi gli mette i soldi in tasca») e una serie di sfaccettature che solo le parole dell’intervistato possono rendere appieno. V. fa emergere anche molti punti critici: «creare una nuova filosofia che però in realtà è sempre quella che c’è nel mondo del lavoro»; «poi il problema principale rimane sempre chi guadagna un milione al mese, il Marchionne di turno»; «qualcuno intascherà sempre più di te, diciamo il padrone che alla fine ti dirà sempre: “tu produci per me”».
Sul finale dell’intervista si apre una riflessione più generale, che introduce a uno dei nodi decisivi per immaginare una critica dell’economia politica del lavoro contemporaneo. V., riportando alcune discussioni e interventi durante i corsi di formazione, dice che il «lavoro di massa» è finito, e che dunque «nel lavoro non c’è più la soluzione, il modo di campare non viene più da lì». E’ ovvio, «trovare dei soldi per campare in qualche modo» rimane la questione centrale del nostro tempo, ma «oggi il lavoro non è una cosa per tutti. Oggi non tutti dovremmo lavorare nella sostanza. Tra l’utilizzo di macchine, particolari tipi di produzione… nella sostanza il lavoro torna ad essere un’élite in qualche modo».
Da un lato il lavoro «è un qualcosa che ti prende totalmente. Sia fuori che dentro l’azienda. E quindi ti porta ad avere un certo tipo di attitudine»; dall’altro però c’è la sostanziale saturazione dei grandi mercati di consumo («prodotti che non vengono fatti più passare per essere necessari, come i frigoriferi, le macchine del caffè, perché quel contesto lì è saturo. Se tutti oggi ce l’hanno una macchina del caffè… Non ha senso produrle») e la potenza produttiva delle macchine (del “lavoro morto”, avrebbe detto qualcuno).
Il paradosso che solleva V. è che le “rivendicazioni” del movimento operaio del passato si sono in qualche modo “realizzate”, ma si sono rovesciate sotto il controllo del capitale. Laddove si voleva avere una maggiore gestione dei propri tempi di vita, oggi c’è la precarietà. Quando si voleva lavorare meno facendo produrre le macchine, ecco che l’automazione produce la disoccupazione di massa. Il punto, ci dice V., sarebbe come riuscire a ribaltare di nuovo questa situazione, e che sicuramente in proposito serve tanta nuova analisi, teoria e pratica. Il problema di fondo rimane quello dell’avere soldi per vivere, come avere un reddito, in un mondo in cui c’è sempre meno bisogno di lavoro. E come far diventare questa condizione, che oggi è giocata contro il lavoro, uno strumento per liberare invece nuove possibilità di vita.
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(Infoaut): Ti chiederei di descrivere la tua esperienza nell’ambito della formazione al lavoro.
V.: Io ho fatto due corsi di formazione, finanziati tutti e due dalla regione Emilia Romagna . Il primo è un corso base, per quanto riguardava l’ambito della logistica in magazzino. Legato alla creazione di un operatore di magazzino merci, che sarebbe il vecchio magazziniere classico, con una qualifica con più nozioni a livello legislativo-burocratico. Lì ho iniziato a notare dei cambiamenti rispetto ad altri corsi di formazione. Questo corso lo feci nel 2011-2012, qualche anno dopo il boom della crisi – licenziamenti di massa e così via. Le prime cose che notai furono che non era inquadrato tanto sulla formazione – nel senso: “ti dico come far le cose e poi trovati un lavoro”, cioè una cosa fatta solo per far girar dei soldi. Sì, dietro c’è anche questo, però si cercava di inquadrare delle nuove figure lavorative. Non c’era solo un ambito di formazione pratica – i metodi classici di movimentazione delle merci, la categoria varia delle merci, i mezzi per il movimento merci e così via – ma c’era anche il dare un imprinting nuovo alla concezione dell’operaio. In quel corso si iniziava a ragionare sul ruolo dell’operaio all’interno dell’azienda. Per farla breve: si superava il concetto dell’operaio come forza fisica per tramutarlo in una forza interna all’azienda. Come parte del flusso della gestione aziendale, come anima viva, non uno che era messo lì con un salario per muovere una macchina o fare qualcosa che gli viene ordinato. La sostanza era quella. Infatti tra le varie materie, diciamo così, c’era anche l’ambito psicologico. Dei docenti psicologi del lavoro che facevano fare delle lezioni incentrate sul superamento dell’operaio classico. Molti esercizi erano pratici, per far uscire fuori quelle dinamiche che si conoscono del mondo del lavoro: scazzi fra colleghi, fra chi lavora un po’ di più e chi di meno, fra chi guadagna di più, fra chi vuole crearsi una carriera, fra chi ha differenti concezioni del lavoro. Anche le situazioni di contrapposizione coi capi, facendo esempi sul come affrontare situazioni x all’interno di una azienda. Quindi notai rispetto ai racconti che avevo avuto di esperienze simili di formazione al lavoro questa nuova visione. Questi concetti di teoria aziendale di solito esistevano solo per i quadri aziendali, per i livelli alti.
Parlando con alcuni, diciamo, docenti, di questo corso, mi accorsi che avevano la visione che avevano non era quella di formare un semplice operaio e di dirgli cosa deve andare a fare, ma fargli capire che ha un ruolo nell’azienda. Quindi andare a tagliare la massa lavoratrice per creare un individuo che si renda conto del suo contesto, in cui crescere, prendere decisioni. In cui è una persona viva e non un soggetto morto all’interno di un contesto lavorativo.
(Infoaut): Insegnavano una sorta di filosofia complessiva…
V.: Esatto. Magari lo si può vedere nelle grandi aziende, nel marketing, o nelle aziende dei social network, da Facebook a Google, o soltanto negli ambiti dei quadri superiori di Apple o cose simili. Però quest’ottica in questi corsi iniziava a trapelare. Alla fine di questi corsi di formazione ci sono i periodi di tirocinio. Le aziende incentrate su un modello di tutela del lavoratore, o che hanno un occhio di riguardo per l’operaio… noi siamo andati in quel tipo di aziende. Questi corsi di formazione sono fatti in questo modo: c’è il magna magna ma c’è anche l’altra faccia. Quando andai in azienda a fare il tirocinio mi accorsi che da persona poco qualificata, con esperienza da magazziniere, mi trovai ad avere un ruolo importante di responsabile di magazzino durante il tirocinio. Cosa che in una grande azienda, anche se hai un’esperienza decennale, non te lo fanno fare. C’è una gavetta devi fare. O sei leccaculo o non ci arriverai mai. […]
Mi accorsi che il problema principale era la logistica, quella interna ed esterna. Alcune aziende si stavano accorgendo che non era più il momento storico per continuare a vivere, a livello tecnico, diciamo “di scorta”. Nel senso: abbassare la propria produzione sul just in time o su un livello di scorta minimo. Dunque a livello di importanza il ruolo del magazzino entrava a far parte della scala gerarchica, tra i dirigenti e gli altri livelli. Una questione molto diversa ad altre esperienze che avevo avuto in passato. Avevo fatto anni prima un apprendistato. Per legge durante l’apprendistato ti devono far fare un corso di formazione, e lì era la classica cosa burocratica: “facciamo queste cose qui, tu stai là, poi te ne torni a lavorare”. Però alla fine anche lì capitò una specie di psicologo del lavoro. La lezione era basata su dei giochi, proprio dei giochi. Tu giocavi… ma erano giochi di gruppo. Giochi in cerchio, dove ti dovevi passare la palla e così via. Io mi rifiutai, cioè “preferisco andà a lavorà perché che cazzo sto a giocà”. Però col senno di poi ho capito il perché di questa cosa: ti davano il superamento mentale di quelle barriere legate al contesto lavorativo. Paradossalmente dal punto di vista aziendale si trattava di creare una cooperazione. Ma non nel senso di una cooperazione tra quelli allo stesso livello, che è normale… In catena col tuo collega che ti sta di fianco. Ma lì ti senti diverso da quello che sta in ufficio. Qui invece si creava una cooperazione a livello aziendale, a ogni livello. Non mi sarei aspettato una cosa così.
Finito quel periodo di tirocinio mi capitò, sempre tramite la regione Emilia Romagna, un altro corso di formazione. Uno strano, perché con la qualifica che avevo preso di operatore di magazzino merci potevo accedere a un corso di formazione di livello superiore. Questi corsi di formazione di livello superiore li può fare o chi ha una qualifica inferiore a quella, o chi è laureato in materie scientifiche. Ingegneria o economia soprattutto. O matematica… comunque insomma materie scientifiche, difficilmente umanistiche. Al limite sociologia, perché forse ti danno un imprinting che ti consente di osservare e capire dei meccanismi. Chi fa filosofia, diciamola così, tendenzialmente da questi percorsi viene escluso.
Questo nuovo corso era sulla catena di produzione, sulla tecnica della produzione industriale, in un’ottica Lean.
[…] Io mi ero iscritto perché i tirocini, e questi corsi di formazione, ti possono dare comunque la possibilità di trovare un lavoro, anche temporaneo, di trovare dei soldi per campare in qualche modo. Riuscii a entrare solo grazie alla qualifica che avevo preso. Mi accorsi che tutti i miei colleghi di corso erano pluri-laureati, con master e altre cose, o venivano da esperienze aziendali dove ricoprivano ruoli molto specializzati. Gente che avresti visto in ufficio, non dietro una macchina. Mi trovai estraniato, spaesato. Non avendo avuto un’esperienza scolastica completa, avendo abbandonato per andare a lavorare, mi trovai in una situazione abbastanza di disagio.
Dalle prime lezioni iniziai a capire che questo Lean, questa ottica Lean, non è nient’altro che un modello di produzione che è stata tirata fuori dalla Toyota. E’ un modello di produzione basato su cinque fondamenti, cinque principi di questo… pensiero lo chiamano alcuni, altri filosofia… Insomma: un concetto di produzione. Dove si definisce il valore, il flusso di produzione… Ma dal punto di vista umano si ribalta la scala gerarchica dell’azienda. In termini pratici: quando uno entra in azienda e vede l’organigramma se lo immagina dal dirigente al capo magazzino… Qui era al contrario, il dirigente stava in basso. Che già a colpo visivo colpisce. Nella parte superiore c’è il cliente. E’ un’ottica in cui la cooperazione tra tutti i livelli di azienda all’interno della produzione è portata ai massimi. L’unica azienda che conosco che lavora a pieno regime con quest’ottica è la Toyota, qui altre aziende tipo la Bonfiglioli, la Ducati… che hanno alcuni settori in ottica Lean ma non su tutto. Anche qui in Italia insomma alcune grandi aziende la tengono sott’occhio, quando la intraprendono magari dura anche dieci anni. Quindi è un cambiamento che è diciamo una rivoluzione aziendale da ogni punto di vista.
Ma al di là di questa filosofia, anche in questo secondo corso la figura del lavoratore era messa al centro delle discussioni. Non c’erano problemi nei docenti nel dire: “Se c’è il caso di dover licenziare qualcuno, lo si deve fare”. Però sottolineavano sempre che quello dev’essere l’ultimo passaggio che una azienda deve prendere per affrontare i problemi. Pure lì insomma la sostanza era far crescere il ruolo dell’operaio dalla macchina al livello dell’azienda. Dicevano che comunque da chi pensa il prodotto, a chi lo disegna, a chi lo fa… C’è comunque qualcuno che lo produce. E chi lo produce è il cuore pulsante dell’azienda. L’operaio che sta alla macchina, che segue il ciclo di produzione, è lui che crea quel prodotto. Nella sostanza è lui che va messo in una condizione abbastanza gradevole lavorativamente.
I docenti dicevano che la stragrande maggioranza delle aziende italiane ha il problema che ha una mentalità vecchia. Non ha un approccio globale di quello che fa. Ha quell’approccio del vecchio italiano contadino che: “io ho faticato, tu devi faticare…” e così via se vuoi guadagnare. E ne davano la responsabilità anche alla questione della crisi. Portavano però l’esempio di quelle aziende che vivevano la crisi soltanto nelle vendite, non in una questione totale con licenziamenti… “C’è crisi di mercato globale, questo è normale. Ma non situazioni del tipo: chiudiamo e ce ne andiamo”. La sostanza era quella.
Il corso era fatto da tre docenti. Uno era più teorico, un altro più tecnico. E qui si vedeva la questione più classica, quel tipo di quadro aziendale che aveva approcciato una filosofia diversa nell’insegnare. Era una doppia faccia: un angelo buono e uno cattivo. In quelle ore di lezione era un bombardamento costante, una rottura di ogni concetto che avevi del mondo del lavoro. Tu uscivi di là e dicevi: “minchia, bello lavorare! Bello andare a lavorare così”. Poi nella realtà dei fatti si è lontani anni luce da quella realtà, fra gente che viene licenziata, situazioni di ipersfruttamento… Insomma in Italia se ne è viste di cotte e di crude. Però questa filosofia nel mondo della formazione va avanti. Comunque continuano a essere investiti dei soldi nella creazione di questo tipo di figure.
[…] Le aziende nel periodo post-crisi, passati i primi quattro anni diciamo così, hanno iniziato ad aprire di nuovo le porte alle assunzioni di personale. Da una parte i vari incentivi statali, Jobs act e altro… Però erano alla ricerca di una figura completamente diversa. Non aprivano le porte alla massa: dovevano produrre poi mandavano via, come poteva essere prima del 2008. Io pure prima: entravi in azienda, ti scadeva il contratto… Ma in manco due settimane avevi trovato un altro lavoro, tranquillamente. Adesso cercano figure professionali, qualificate, in ogni tipo di ruolo. Le selezioni ora sono abbastanza dure.
In questo marasma di cambiamenti molte aziende hanno cambiato il loro modo di vedere l’operaio. Stiamo ovviamente parlando di aziende che hanno una filosofia particolare, attente a certi cambiamenti. Stanno sempre addosso ai cambiamenti e stanno attente a ciò che le circonda. Le cose vanno di pari passo: corsi di formazione organizzati in una certa maniera, aziende che iniziano a cercare personale qualificato, o quantomeno formato in determinati percorsi. Quindi lasciar fuori la mano d’opera scarsa, quella classica diciamo, per cercare quella figura formata, con un approccio diverso da quella del tipo “faccio otto ore, mi arriva lo stipendio a fine mese, e vaffanculo”. Non volevano più gente con la filosofia del “devo farmi otto ore, poi apposto così”. Vogliono gente partecipe all’interno dell’azienda.
Nel corso di formazione c’era un mini corso di problem solving, sempre legato al Lean. Tagliando con l’accetta il concetto era: un’azienda deve saper affrontare i proprio problemi tutti insieme. La teoria è che se c’è un problema nel flusso di produzione, nella catena di montaggio per parlarci in maniera spicciola, l’operaio deve bloccare il flusso e affrontare il problema con tutta la catena. Non è che la catena si ferma e arriva il tecnico, è l’operaio che è autorizzato da solo a poter fermare la catena di montaggio – stiamo parlando, nel senso, di costi! -, e risolvere assieme al tecnico il problema. In questo senso l’operaio viene messo con un ruolo centrale all’interno del flusso produttivo di una azienda.
[…] Prima della crisi molte aziende lavoravano su scorta. Prima uno faceva, per dire, mille porte di frigorifero al mese perché pensava di vendere mille frigoriferi. Adesso no: producono solo nel momento in cui sono sicuri che le cose gli servono, cercando di arrivare al limite zero di surplus. Produrre solo lo stretto indispensabile. Avere un magazzino vuoto, o comunque la merce non deve star ferma troppo a lungo. Tutto dev’essere in continuo movimento o perde valore. Da qui il ruolo centrale del magazzino. E’ paradossale perché riguarda anche il semplice ragazzo o ragazza che sta lì a muovere dei pacchi in magazzino, non solo il responsabile del magazzino o i capi. E’ una cosa costante. Si prova a capovolgere l’ottica, a creare nell’operaio e nell’operaia l’idea che la sua figura è importante. Che non è la ruota di scorta del carro, l’ultimo degli stronzi. E’ una figura da cui dipendono molte cose.
Non a caso questi corsi danno una qualifica importante. Io adesso, per le carte, potrei fare il tecnico di produzione. Sono operaio specializzato di quarto livello. A livello di contratti nazionali tra due anni c’è lo scatto e sarò di terzo livello. Due gradi sopra ci sono i quadri. Si è in una posizione diciamo importante, sulla carta. Poi se uno guarda la realtà alla fine si è in magazzino, a lavorare coi pacchi. Cioè quello è, non è che si stia facendo chissà che cosa di assurdo. Quindi la formazione professionale è incentrata su quest’ottica qui. Questo corso comprendeva infatti vari punti, che fino a prima erano fatti in corsi divisi: il problem solving, la produzione, i vari ambiti… Qui invece era tutto assieme, ti si provava a dare una formazione completa.
Il livello di condizionamento, o comunque di cambiamento mentale al mondo del lavoro. Ti diceva: “tu sei una persona più importante. Tu hai un ruolo. Ciò che conta per andare avanti è te stesso”. Tu alla fine devi essere furbo per capire come funziono queste cose. La sostanza è questa. Questa cosa taglia una gran massa di persone da certi settori lavorativi. Queste cose ti creano un senso di… non di meritocrazia, ma di missione diciamo. Sei tu che ti devi dare una mano per uscir fuori dalla condizione in cui sei. La cosa che ti vogliono creare è questa. Che in parte è vero da quel punto di vista, se uno è capace di capire. Nel senso: è stronzo, per intenderci. Se uno è stronzo e capisce come si deve comportare, avendo avuto questo tipo di formazione e con un po’ di esperienza, riesce a capire come muoversi. […] Anche nei tirocini che ho fatto funzionava così: se uno non capisce come farsi avanti, come farsi furbo, rimane buttato lì. Isolato.
(Infoaut): si è mai parlato del sindacato?
V.: Sì. Nell’ultimo corso, che aveva un’età dai 25 ai 40 anni, sono uscite tutte le tematiche legate al lavoro. Si è anche parlato di sindacati, scioperi… Il ruolo del sindacato veniva attaccato, palesemente attaccato. Ma senza un’ottica di prendere posizione pro o contro a chi era più o meno propenso a scioperare. Ma direttamente rispetto al ruolo del sindacato. Di quella persona: il sindacalista, visto come il parassita della situazione. Quello che se c’è un problema non lo risolve ma guarda sempre dall’altra parte, che non fa le veci degli operai ma di chi gli mette i soldi in tasca. Ma queste discussione venivano fatte anche rispetto ai dirigenti, ai colleghi… Era una cosa trasversale che per assurdo rompeva il concetto di gerarchia all’interno dell’azienda. Non è che il direttore fa sempre bene…
Per tornare un attimo indietro. L’accesso a questi corsi era sempre attitudinale. Valutavano le esperienze, ma i test di ingresso erano tutti attitudinali. Perché vuoi far quel corso, come vedi alcune cose… Per quello dicevo che si deve essere stronzi. Gira e rigira al di là della facciata bella è il classico mondo del lavoro: vai avanti solo se ti scanni uno con l’altro tendenzialmente.
Tornando al sindacato, si parlava di scioperi, di quel che accadeva fuori. Ma non parlando della questione del singolo, ma nel complesso, nell’insieme. Poi capace che queste persone, una volta usciti dal corso, ne potevano parlare in un’altra maniera. Però lì la cosa usciva come un problema a 360 gradi, che riguarda tutta l’azienda. Diciamo che consideravano come assurdo che ci fossero aziende che non rispettavano i contratti, che non pagavano il giusto i lavoratori. […]
Venne un ragazzo a tenere una parte del corso, che lavora in una azienda di cose elettroniche, sensori laser… Un’azienda italiana nel modenese, una delle più importanti a livello mondiale. Lui spiegava che all’interno dell’azienda prima era un semplice operaio, laureato ma semplice operaio, e col corso era riuscito ad accrescere la sua posizione. Dopo cinque minuti di chiacchierata anche lui ci aveva messo a fare cose pratiche, giochetti vari. La costruzione di un qualcosa di carta. La sostanza era: non fermarti a pensare a ciò che hai davanti, ma guardati intorno a 360 gradi e impara a risolvere il problema. Tutte cose basate sul cambiamento mentale della persone, dal contesto lavorativo classico. […] Prima dicevo degli organigrammi aziendali: alcuni erano fatti al contrario, altri in maniera orizzontale, non c’è una gerarchia. Sopra il nome dell’azienda e basta.
(Infoaut): si parlava mai del rapporto tra italiani e stranieri, o tra uomini e donne…
V.: Mmm… no. O diciamo: se ne parlava nel senso “positivo” della cosa. Lì dentro diciamo venivano tagliate ogni tipo di diversità, le diversità venivano lasciate fuori. Tutto era incentrato alla creazione di una persona che sa dov’è e cosa sta facendo. […] Ma non tanto perché i docenti non avessero dei pregiudizi, ma perché non si portano all’interno del gruppo le proprie questioni. Al limite è una mia idea che una persona non mi piace, ma nel mondo lavorativo ciò che conta è l’azienda, ciò che tu stai facendo là dentro. Se anche mi fai schifo, l’azienda deve andare avanti per un obiettivo. Una cosa classica che ti dicevano è che una azienda deve avere un obiettivo, se non ce l’ha non va da nessuna parte. Quindi tutte queste dinamiche erano escluse per creare questa cooperazione totale all’interno delle aziende e dell’aula, dove ti abituano a quel contesto lì.
Poi parliamoci chiaro. In aula uscivano delle discussioni e io ho posto qualche dubbio. Dissi: “sì, se vogliamo parlarne così, è bello. Perché ognuno ha un ruolo, posso essere ascoltato, pagato anche bene. Posso essere sereno senza sentirmi in una gabbia costante – anche se questo poi può accadere uguale – però, c’è chi guadagnerà sempre più di me. Nel senso: dalla fatica che io faccio qualcuno guadagnerà sempre più di me rispetto a quello che io sto facendo. E comunque c’è chi proverà sempre a crescere più di me. E qui diciamo cascava un po’ il castello di carte. Loro rispondevano che alla fine sì, è giusto che c’è chi guadagna più di te, che c’è il merito di chi riesce ad andare davanti rispetto ad un altro.
Alla fine il discorso era qui: creare una nuova filosofia che però in realtà è sempre quella che c’è nel mondo del lavoro. Qualcuno intascherà sempre più di te, diciamo il padrone che alla fine ti dirà sempre: “tu produci per me”. Cambia un po’ il contesto, però…
[…] Alla fine quando si andava a fare discorsi un po’ più complessi con alcuni docenti usciva fuori il discorso che oggi il lavoro non è una cosa per tutti. Oggi non tutti dovremmo lavorare nella sostanza. Tra l’utilizzo di macchine, particolari tipi di produzione… nella sostanza il lavoro torna ad essere un’élite in qualche modo. Questo dicevano. Facevano i paragoni con l’antichità. Oggi il muratore per esempio è visto come l’ultimo lavoro, un lavoro particolare, come li calzolaio. Comunque lavori particolari, che vengono visti come l’ultimo lavoro che uno può fare per guadagnare, per avere un reddito. All’epoca però erano lavori nobili, che dovevi saper fare e avere l’intelligenza. Io allora dicevo che da un punto di vista è giusto, che non ha più senso continuare a produrre diecimila macchine all’anno se in un paese di diecimila persone hanno tutti la macchina. La sostanza insomma era questa che si chiacchierava… e si diceva che le persone dovrebbero sapersi dedicare ad altro. Ma per campare gira e rigira servono dei soldi. Quindi in qualche modo in questi corsi di formazione si trova pure, un nuovo tipo di operaio. E’ chiaro: non è la massa totale di chi lavora oggi. Stiamo parlando di determinati settori, ma è un concetto che esiste. In Italia se vogliamo è una cosa più nuova rispetto ad altri paesi. Ma paradossalmente si parlava di quando Venezia, nell’antichità, aveva una produzione industriale navale che faceva invidia a chiunque. […]
Il punto è che con questa cosa si crea la mentalità che è colpa tua se non ti dai da fare. I docenti ti dicevano che oggi non tutti devono lavorare. O sono in grado di farlo, o comunque lo vogliono fare, ma la stragrande maggioranza della popolazione non dovrebbe lavorare. Anche se questa cosa non esce mai fuori. […]
In questo senso io avevo capito che per andare avanti mi servivano questi corsi di formazione, per avere un po’ più soldi, però dovevo andare avanti in quell’ottica lì, essere furbo in quest’ottica. Tutto poi ricade sull’individualismo di una persona che è più capace di capire le cose rispetto a un altro. Ti fa scontrare al tuo stesso livello, coi tuoi colleghi. Non è che devi essere bravo a lavorare, nella sostanza devi essere furbo a lavorare. Infatti poi le cose si vedono nelle accuse reciproche tra colleghi…
Io ora ritengo che il problema è che ognuno è lasciato a se stesso, quindi tutto è basato su se stessi. Quindi o si riesce a creare una cooperazione tra gli operai e le operaie che fa capire il contesto in cui si è… Il problema però è che c’è un fattore scatenante… Diciamo… non di classe ma di ignoranza. Di ignoranza di formazione, di uno scarto mentale. Il mondo del lavoro, per come la vedo io, non è più quello della massa, dove devi stare lì a produrre produrre per arrivare fino a fine mese, poi me ne vado a casa. E’ un qualcosa che ti prende totalmente. Sia fuori che dentro l’azienda. E quindi ti porta ad avere un certo tipo di attitudine. Però è facile prendere il fraintendimento di chi diciamo vuole crescere all’interno dell’azienda… E’ sempre una questione di rendersi furbi. Se non vuoi più stare a scaricare pacchi otto ore al giorno: o vinci il Super Enalotto, o trovi un altro lavoro dove non fai quello, o da quello devi saper capire come arrivare a far qualcos’altro. Ormai non si è più in un contesto sociale in cui tutti debbano lavorare, detta come va detta. E’ un conteso in cui solo alcuni devono lavorare, non so come potrebbero essere catalogati: tra chi gli piace il lavoro e chi non gli piace… Questo non lo so. Però sta di fatto che ormai è sempre più evidente che non c’è più posto all’interno del lavoro di massa. Diventa sempre più inconcepibile il fatto di avere soldi legati al lavoro. Il paradosso è aver imparato queste cose tramite formazioni… La formazione viene fatta così: l’esser stronzi sta nel momento in cui tu capisci come stanno veramente le cose. Non tanto nel dire: “mò c’ho una bella qualifica, faccio un bel lavoro, sono fico, yeah!”. No, da operaio che ti accorgevi una volta che ti sfruttavano, quindi o mi pagate decentemente o si blocca tutto… Ora invece nel mondo del lavoro sta tutto nell’ambito formativo e psicologico della persona. E’ difficile, il lavoro sta diventando una cosa di élite. Poi c’è la stragrande maggioranza di masse che per avere dei soldi devono lavorare.
Poi in Cina sarà diverso nelle grandi fabbriche, ma nei centri nevralgici, in Europa, negli Stati Uniti, e non solo, il lavoro sta tornando ad essere un’élite in qualche modo legata a chi lo sa fare veramente. Le grandi aziende che si spostano e se ne vanno sono quelle che ancora vanno avanti per grandi produzioni, che hanno una produzione di massa. […] Che fanno prodotti che non vengono fatti più passare per essere necessari, come i frigoriferi, le macchine del caffè, perché quel contesto lì è saturo. Se tutti oggi ce l’hanno una macchina del caffè… Non ha senso produrle. Quindi c’è questo scontro non detto nel lavoro, che non tutti ormai devono lavorare. Però alle parti più basse questa cosa non viene capita […]. Il problema è che la soluzione per campare non sta più nel lavoro, è difficile trovare una posizione lavorativa buona sia dal punto di vista fisico che economico. E’ veramente difficile. Anche in quei lavori, diciamo, cognitivi, si è creata una sovrapproduzione di menti che aspettano di poter entrare in qualcosa che non c’è. Ormai è difficile concepire che tutti possano campare di lavoro. Poi il problema principale rimane sempre chi guadagna un milione al mese, il Marchionne di turno, quello rimane il problema principale. Ma come d’altra parte il fatto che nel lavoro non c’è più la soluzione, il modo di campare non viene più da lì. Per come l’ho capito io. Probabilmente mi sbaglierò, ma mi rendo conto che è sempre più così.
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