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“Noi siamo debito!”

Dopo l’intervista a George Caffentzis, proponiamo questo montaggio di due lunghe chiacchierate che abbiamo fatto con quattro giovani compagni maturati politicamente in questi anni di crisi. Impegnati su differenti fronti di lotta, privilegiano forme d’intervento territoriale come l’esperienza delle assemblee di quartiere e di nuovi, piccoli, sindacati di base. Le riflessioni che propongono mostrano la profondità di sguardo e analisi sedimentatisi dopo il 2008 e il 2011 in alcune delle leve più giovani del movimento greco.

[abbiamo rubato le foto che illustrano l‘intervista qui: POWER of OXI – I sussurri dei muri di Atene]


Un voto di classe


G: La gente è stata polarizzata intorno alla questione politica centrale posta dal referendum, intorno al Sì o al No. Abbiamo assistito a qualcosa che non si era visto negli anni passati: una parte dei grandi capitalisti greci ha tentato di organizzare il livello della piazza. E poi, ovviamente, c’era il piano dei media, utilizzati da questi per terrorizzare la gente. Abbiamo quindi visto due tipi di manifestazioni: quelle per il No, che provenivano dall’intero spettro politico (da Alba Dorata all’estrema sinistra fino ad alcuni anarchici), differenti strati sociali (proletari, piccolo borghesi, middle class) e una parte del capitale greco (tipo l’industria dei farmaci, duramente colpita dalle politiche della Trojka).

 

Chi ha votato per il sì?

G: Gli altri partiti, si tratta comunque di un voto decisamente più omogeneo, espressioni degli interessi del grande capitale greco, che ha guadagnato dall’austerity. Sostenuto dai tre grossi partiti politici greci (Pasok, Nea Demokratia, To Potami) e dal media mainstream: canali televisivi, radio fm, dai principali quotidiani; dai banchieri e da quella parte di middle class che si è lasciata terrorizzare. É soprattutto questa ad essere polarizzata, spaccata in due. Ha votato Sì anche una parte (più piccola) della classe operaia, ricattata dai propri capi; i quartieri ricchi, principalmente suburbs del nord e del sud, Kolonnaki qui in centro città.

L’Oxi del referendum ha certamente caratteristiche di classe ma non si può dire supporti direttamente interessi di classe. La maggioranza della classe operaia ha votato No, ma è un No filtratto da interessi di unità nazionale, come blocco contro l’Unione Europea; hanno votato così anche molti piccolo borghesi perché l’austerità ha di fatto svalutato il capitale greco.

Parliamo invece del “movimento”. C’è stata una netta divisione su questo punto: per la prima volta – la prima anche in cui un referendum è stato effettivamenet indetto – il movimento ha provato ad interrogarsi su cosa il No o il Sì rappresentassero in termini costituenti, quali le ragioni del referendum, gli interessi che gli stavano dietro, che venivano mediati dal No e dal Sì. Si tratta ora di spiegare perché c’è stato il referendum e su cosa verteva nei fatti. Lo faccio riportando le differenti analisi espresse dal movimento. Ci sono quelli che hanno sostenuto apertamente il No e quelli che sostenevano invece che la classe operaia non doveva votare. Partiamo da chi ha dato indicazioni per il No, non solo gli ambiti di movimento (anarchic*, autonom*, anti-autoritar*) ma anche l’intero spettro della “sinistra”. I partiti della sinistra che stanno fuori dal Parlamento (Antarsya…ecc) hanno colto l’occasione per esprimere le loro analisi e le loro tesi contro l’Unione Europea, presupponendo come direzione il grexit. Una parte significativa degli anarchici ha sostenuto la necessità di votare No al referendum, situandosi nel blocco anti-europeo, facendo propria di fatto l’ipotesi di uscita dall’Unione Europea. Si tratta di una nuova tendenza emersa negli ultimi mesi in seno al movimento anarchico, soprattutto dopo le elezioni di inizio anno che hanno messo Syriza e Anel al governo. Hanno in sostanza assimiliato l’analisi anti-imperialista propria dell’ortodossia marxista-leninista. Un’altra parte, ha sostenuto che la classe operaia doveva votare No perché le conseguenze dell’austerity imposte dal memorandum sarebbero state terribili. La classe operaia, dicevano, deve dare un altro senso al No: non supportare Syriza quanto dare una “forza psicologica” alla classe. Non c’era ovviamente nessuna illusione che il referendum avrebbe cambiato qualcosa.

C’è stata poi una parte che ha sostenuto l’astensione, non solo anarchici ma anche autonomi e piccoli partiti della galassia marxista-leninista-maoista (oltre ovviamente al Kke). Perché non hanno partecipato? Perché, sostenevano, il referendum era un falso dilemma. Cosa abbiamo visto dopo il referendum? Abbiamo visto Tsipras prendere il No e il giorno dopo chiamari i segretari di tutti i partiti per dire “dobbiamo essere uniti contro la Trojka, condivider alcuni punti per andare a trattare il nuovo memorandum”.. il discorso, insomma, dell’unità nazionale. Come era già chiaro prima, il No di Tsipras era di questo tipo qui: il No era un Sì, Tsipras voleva restare in Europa e firmare.

 

Voi avete votato?

 

G: Io ho votato No… ma non lo posso supportare pubblicamente, in termini politici. Posso anche capire chi ha votato Sì, per le pressioni ricevute nella scorsa settimana, terrorizzati dai loro capi e dai mass media. Penso che il referendum possa essere un inizio, una spinta per riprendere la lotta ma senza illusioni.

 

N: io non ho votato, perché penso si sia trattato di un falso dilemma imposto alla classe operaia, un dilemma tutto interno al capitale greco. C’è una parte cha ha visto incrementare il proprio saggio di profitto durante l’austerity ma c’è anche una parte, di strati piccolo-borghesi, molto diffusa in Grecia che ha visto svalorizzare il proprio capitale. C’è stata insomma una svalorizzazione non solo della forza-lavoro ma anche del capitale, quello nazionale, del piccolo commerciante…ecc. Questo sta dentro lo stesso processo di ristrutturazione del capitale. Penso inoltre che il partito Syriza serva soprattutto a mediare questi interessi piccolo-borghesi contro il grande capitale, e che firmerà dunque un accordo nei prossimi giorni. Non poteva farlo nei giorni scorsi. Non potendo trovare una soluzione mediana tra questi interessi intra-capitalistici, la coalizione di governo ha fatto ricorso al referendum.

 

M: Io penso invece che il movimento non avrebbe comunque dovuto sostenere il non-voto, perché non aveva il potere reale di cancellare il quesito, imponendo la non-partecipazione: bastava il 40%! Il movimento non aveva la forza di porre altrimenti la questione, diventava una posizione inutile; allo stesso tempo non credo, per le stesse ragioni, che dovesse sostenere di votare, perché la cosa implicava molte trappole: unità nazionale, legalizzazione sociale delle misure volute da Syriza, legittimazione del referendum, della società civile, dello Stato, “delle libertà civili”… tutte trappole per la classe lavoratrice; per questo non avrei comunque sostenuto pubblicamente e apertamente il No. La miglior cosa che il movimento poteva fare era chiamare assemblee popolari di quartiere sul tema, come abbiamo fatto nel nostro: hanno partecipato militanti di Syriza, persone normali senza un’idea preformattata, ne abbiamo discusso apertamente. Per me era questa la cosa migliore da fare, non dire semplicemente: “votate No!”. Il nostro slogan di convocazione era: “le speranze non vengono solo dal referendum ma anche dalle lotte e dalle strade”. Distruggere le illusioni riformiste ma anche discutere insieme cosa fare dopo il No. Ok, Tsipras, ok le negoziazioni… ma poi? Cosa facciamo quando si potrà prelevare solo 20 euro? E i supermercati, quando saranno vuoti, cosa facciamo? Dobbiamo continuare a discutere pubblicamente, apertamente di questi problemi pratici.

 

Syriza ovvero il limite delle nostre lotte


Riguardo al risultato del referendum, quali opportunità pensiate si possano aprire (se se ne possono aprire)?

K: Dobbiamo vedere cosa succede. L’umore sociale che si è espresso nell’Oxi non è diverso da quello che abbiamo respirato negli anni precedenti, perché tra scioperi genrali, piazze e assemblee abbiamo già percepito questa tendenza, ma allora era contro il governo in carica, non con il governo. Non sono molto ottimista sulle possibilità di un uso di classe, in termini organizzativi, del dopo-referendum, con questa Syriza superstar supposta salvare la gente e cose del genere. Penso che quello che abbiamo fatto negli ultimi tre anni, dobbiamo ora farlo meglio: assemblee di quartiere, rinforzare le lotte di base, tutte quelle pratiche che abbiamo sperimentato e messo in piedi devono ora essere riprese in forma più chiara e organizzata. Ora ci troviamo un passo indietro. Dobbiamo fare le stesse cose, meglio. Piccole cose, ben fatte, non spettacolarizzate, grandi dichiarazioni o cose di questo genere.

 

G: qualunque sarà il risultato delle negoziazioni tra governo e Trojka, maggiori difficoltà sorgeranno e i nostri bisogni elementari saranno sotto attacco. La nostra resistenza deve organizzarsi sul livello del quotidiano, di vicinato. Cosa faremo nel momento in cui le banche non erogheranno più 60 euro ma 20 ? Cosa faremo di fronte a nuovi licenziamenti? All’abbassamento dei salari? Come ci procureremo le medicine? Dovremo ricominciare a chiedere queste cose (salari, medicine, cibo), cose che oggi non siamo in grado di gestire.

 

K: Come dicevo prima, dobbiamo riprendere le esperienze già tentate ma in termini concreti, materiali non solo teorici o simbolici: centri di medicina autogestiti… una buona idea, ma non può essere sufficiente una singola struttura, la nostra, nella sua piccola scala. Tutte queste buone pratiche devono essere tirate giù dal cielo dell’ideologia, per essere ancorate ai bisogni della vita quotidiana. Abbiamo accumulato una buona esperienza di pratiche, lotte, rivendicazioni, creatività, autorganizzazione… che ora devono essere sviluppate su scala più ampia contro il cannibalismo sociale. Perché quello sarà lo scenario greco se verranno a mancare i soldi, un grande caos. Sicuramente risorgeranno i fascisti, le mafie, racket di questo tipo.

 

G: Per esempio, dovremmo imporre al governo di Syriza la garanzia del trasporto gratuito, valido non solo per il periodo del referendum. Lavoratori e disoccupati non dovranno pagare più i biglietti. Dobbiamo saper imporre delle domande di classe. Una parte del movimento si impegna in queste attività autorganizzate, economia solidale ma se queste pratiche non sono accompagnate da lotte, sono poco efficaci.

 

K: quella del trasporto gratuito era una domanda dei movimenti che il governo ha fatto propria per questi giorni. Bisognerebbe invece dire: “trasporto gratuito per tutti, da oggi a data da destinarsi”. Dobbiamo riuscire ad essere pù aggressivi, in termini dannatamente concreti: il pane deve costare meno. E dobbiamo imparare a fare da soli, senza necessariamente passare dal supermercato… e certo queste pratiche devono esprimersi su un livello di solidarietà chiara e percepibile dalla gente, non agendo ognuno per sé. Esempio: saccheggiare un supermercato, oggi, non è la cosa migliore da fare, non indica una direzione… fa pensare più all’arrafare solitario, uccidendo chi ti sta vicino. Vogliamo mangiare a basso prezzo, poter essere medicati, muoverci con trasporti gratuiti. Abbiamo bisogno di tutte queste cose per poter lottare di più (per avere di più). Non per riempire il vuoto lasciato dallo stato sociale. Syriza cercherà probabilmente di mettere tutte queste esperienze di autorganizzazione sotto il proprio ombrello – sta nel loro programma – ad esempio dicendo a una volontario di una struttura sanitaria di base (in alcune di queste ci sono anche primari) : “Bravo! Buon lavoro, prendi questo e lavora meglio”. Si crea un problema di salarizzazione dell’attività autonoma e al contempo si abbassa il valore del lavoro.

 

Qual è stato l’impatto di Syriza sul movimento e cosa può succedere dopo?

 

K: La prima cosa da sapere è come Syriza ha condizionato il movimento prima delle elezioni. Dal dicembre 2008 al 2012 abbiamo avuto un lungo ciclo di lotte. In questi quattro anni abbiamo avuto qualcosa come 28 rivolte. Le prime non furono esplicitamente contro la crisi, perché spesso i sintomi non sono chiari. È qualcosa che si è accumulato per anni, tra i giovani, i poveri e migranti ed è poi esploso nel dicembre 2008 con l’uccisione di un ragazziono ad Exarchia. Nel 2009, quando Papandreu ha detto a Kastellorizzo che i greci avrebbero dovuto andare al referendum, qualcosa ha iniziato a muoversi a livello sociale e negli ambiti di movimento. Iniziavano a porsi pubblicamente delle domande: cos’è la crisi? Quali sono le sue conseguenze? Cosa dobbiamo fare? Quando furono applicate le prime misure, a fine 2009/inizio 2010, abbiamo avuto un ciclo di anno e mezzo di sciopero generali; all’inizio uno sciopero generale al mese, quindi due al mese accompagnati da altre grandi manifestazioni. In questo contesto, il movimento delle assemblee di quartiere inizia a svilupparsi, dal dicembre del 2008 e in maniera più decisa durante questo periodo del 2010. Queste assemblee si sono prodotte due modi: un primo modo è stato questo, a livello di quartiere, sganciate dalla dinamica sindacale, in una forma terra-terra, nelle relazioni quotidiane, discutendo della crisi e dei suoi effetti. In questo periodo, intenso dal punto di vista della lotta, c’erano molte speranze. La classe operaia riempiva costantemente le strade ma non metteva mai in discussione la propria identita nazionale, di cittadino greco, di lavoratore: “io, greco, operaio di tale fabbrica… ecc”, un sindacalismo nel senso più tradizionale del termine. Ovviamente, queste lotte sono state sconfitte. La logica di queste lotte non consiteva nel costruire qualcosa di nuovo. Certamente, in queste lotte potevi osservare che qualcosa nasceva, che si era all’inizio di qualcosa ma la logica di fondo era tornare allo stato sociale, ai diritti che avevamo prima.

Dopo questo periodo, la repressione statale è stata molto dura: gente picchiata per strada, illegalizzazione degli scioperi generali nei settori dei trasporti, della scuola, della sanità. C’era una cappa di oppressione. Arriviamo qundi al 2012, alle prime misure applicate. Mi ricordo di uno sciopero generale durato due giorni, il venerdì e il sabato, seguiti da una manifestazione la domenica in piazza Syntagma. Lo sciopero non andò bene, in termini di adesione e partecipazione ma la domenica ci fu un enorme concentrarsi di persone in piazza Syntagma. Tutto ciò che si era mosso nei quattro anni precedenti si è incontrava in un giorno solo. È stata la fine di quel movmento, dopo non ci sono più state grandi scioperi o manifestazioni. Dopo febbraio 2012 le manifestazioni riguardavano solo più la battaglia antifascista. L’ascesa di Alba Dorata corrispondeva infatti alla risposta dello stato al “movimento delle piazze”, c’è stato un tempismo perfetto. Syriza era interna a questo movimento, non esplicitamente, ma era dentro a livello di militanti. É un fatto ricorrente nella storia delle lotte. Quando queste raggiungono un limite, arriva qualcuno che prende questo limite e dice “la soluzione è entrare in un partito, cambiare le cose dall’interno”. È l’agire storico, su scala mondiale, della social-democrazia. Non è successo solo ora. Già nel 2012, le elezioni affossarono il movimento. Il processo che porta alle elezioni cattura le forze, che vengono incluse in questo pattern. Ma si può dire che il movimento era già morto allora e appariva piuttosto impotente. Syriza non è stata altro che l’espressione di tutte le nostre sconfitte, delle lotte battute dei 6/7 anni passati perché tutte queste lotte sono state incapaci di unificarsi, di andare oltre i propri limiti.

 

M: Syriza ha portato di nuovo la “democrazia” nel movimento.

 

K: Sì, non si è mossa sul livello di guerra di classe. Più precisamente, non penso che Syriza abbia posto un limite alle lotte, erano le lotte stesse ad essere limitate. E tali restano se non oltrepassano l’identità stessa che le fonda: “ sono un lavoratore” e non “non voglio più essere un lavoratore”… Dopo le elzioni, non tutte le lotte andarano male, dal pinto di vista strettamente sindacale. Perlopiù non ebbero risultati, per quanto le lotte producano sempre risultati. La gente prese allora a porre le proprie speranze nel governo, come soluzione finale contro l’austerity. Ma io penso che il movimento fosse comunque già esaurito.

 

Non si può forse dire che la vittoria di Syriza non è stata segno di un’ascesa e di un entusiasmo quanto piuttosto di una disperazione…?

 

K: Sì, ma non si tratta solo di disperazione ma anche di sconfitta, nella misura in cui essi l’hanno raccontata così. Ovviamente i due maggiori partiti preesistenti sono crollati miseramente dopo le elezioni, a causa delle misure di austerity che hanno imposto. La gente voleva un nuovo partito, un partito che soddisfasse i bisogni della middle class in via di impoverimento. Lo Stato è diventato Syriza. I grossi posti di comando sono passati nelle sue mani e molti social-democratici sono entrati nel partito. Per un altro verso, al di là del venir meno delle lotte, le cose non sono poi cambiate molto, nella gestione dell’economia e del resto. È sempre lo stesso corpo, cambia forse la testa ma il corpo, la struttura [dello Stato] restano le stesse.

 

Rimaneva identico il quadro d’insieme…

 

K: Identico ma pressato dalle lotte perché il programma di Syriza era pesantemente condizionato dalle lotte dei cinque anni passati: chiusura dei campi d’internamenti per migranti, aumento della paga minima, divieto del lavoro domenicale, chiusura degli spazi dei fascisti, minor pressione della polizia, abbassamento delle bollette della luce (questione posta dal movimento delle assemblee). Ora la linea di Syriza è l’unità nazionale. No ci sono più lotte, o meglio ce ne sono ma piccole, nei quartieri. Ma il vero problema è questo discorso dell’unità nazionale: capetti e lavoratori assieme, le multinazionali devono partire… così che i lavoratori possano lavorare di più! Quando, ad esempio, un lavoratore immigrato è morto in una raffineria di petrolio, il discorso del governo è stato: “dobbiamo restare uniti, la fabbrica deve andare avanti, essere funzionante”.

 

Composizione giovanile, assemblee di quartiere e nuove forme sindacali

 

Quello che colpisce, arrivando ad Atene, è l’ampiezza della partecipazione giovanile; la sua presenza nelle lotte, nei conflitti, nelle strade…

 

K: È il risultato del “sogno” degli anni ’90, della bella vita promessa dal Pasok e da Nea Demokratia. Ora si realizza che i sogni sono crollati: i giovani sono scioccati, soli, impauriti. È il crollo della Big Society: possono diventare fascisti, una parte va con loro, un’altra rimane sola, impauriti; una parte crede ancora nei capi, nei partiti, in Syriza; una parte, invece, ha partecipato alle lotte i questi anni. È cominciato con la grande esplosione del dicembre 2008 (in parte già col movimento studentesco del 2007).

 

Le università sono state un luogo importante per la soggettivazione di questa parte di gioventù? C’è una relazione tra l’ampiezza della promessa, l’alta alfabetizzazione di una parte consistente dei giovani greci e la mancanza di prospettive?

 

N: Nei riots del 2008 la maggioranza dei partecipanti erano studenti, giovani ma anche molti immigrati,tutti i “senza futuro”. La vera questione che si è posta in quell’occasione è: perché giovani precari, studenti, migranti non sono riusciti a gettare le basi per una futura connessione di classe?

 

K: Tutto quello che vedi ora, in termini di strutture ed esperienze è il risultato del dicembre 2008, le stesse assemblee di quartiere. Dopo il dicembre, molti squats aprirono in tante città della Grecia, centri sociali, prima queste esperienze erano confinate alla sola Exarchia, chiuse su un livello ideologico-identitario. Da allora, si inziò a sperimentare un intervento/presenza nei quartieri. Possiamo dirla così: alcune esperienze (come questa) del 2011 non sarebbero probabilemente sorte senza il precedente del 2008, anche l’oggi, benché i tempi siano più concentrati. C’erano lotte, nelle università, nel 2006/7, gli anni ’90 ma erano soprattutto grandi scadenze: Salonicco 2003, nei 2000 un movimento contro l’abbasamento delle assicurazioni, dopo il 2008 la lotta si è posta più su un piano di vita quotidiana.

 

Le assemblee di quartiere sono quindi state un po’ anche una risposta a questa necessità? Tu sei impegnato in un sindacato di base, che si organizza spesso con queste assemblee. Come sono iniziate queste esperienze?

 

K: Le assemblee di quartiere raggruppavano istanze anti-governative, cui partecipavano anche gente comune, militanti di Syriza. Dalla discussione collettive emergeva la consapevolezza che dovevamo concentrarci sul trovare una strada per la soddisfazione dei nostri bisogni di proletari. Negli ultimi tre anni c’è stato un ‘incontro tra assemblee di quartiere, occupazioni e nuovi sindacati. Prima i percorsi erano separati: i sindacati, le assemblee, ognuono per proprio conto. Ora si lavora assieme.

 

Il sindacato in cui sei impegnato è un prodotto del ciclo di lotte recenti o arriva dal passato? Cos’ha di diverso dagli altri?

 

K: Esiste da otto anni. Tutte le scelte e le azioni sono discusse in assemblea, una volta a settimana. Ora in periodo di crisi, molta gente viene al sindacato. Perché i salari si abbassano, molti padroni non pagano, non ci sono assicurazioni sul lavoro. La gente viene per capire cosa può fare, i sindacati sono una modo per agire e la gente viene per partecipare e prendere quel che gli serve. Questo è un primo aspetto. L’altro aspetto è che questa gente sta nel sindacato e inizia a lottare. Molta gente viene perché vede nel sindacato un buon avvocato per negoziare, ma la lotta di questo sindacato non permette esattamente questa logica. La gente viene e porta il rpoprio problema ma la nostra risposta è: “Ok, scrivi un testo; proponi cosa possiamo fare tutti insieme e mettiamola in moto”, così fanno esperienza su come agire, autorganizzandosi. La struttura di questo sindacato è totalmente autorganizzata. Le pratiche che mettiamo in campo sono molto dirette: andiamo dal negozio con cui uno dei nostri ha problemi (caffetterie, bar, fast-food) e facciamo un’azione pubblica di boicottaggio, denunciando il loro comportamento ai clienti.

 

Quanti siete? Siete tutti giovani o ci sono anche iscritti più anziani?

 

K: Nel mio siamo tendenzialmente giovani ma negli altri settori ci sono anche persone meno giovani. Siamo una trentina a portare avanti le cose in termini più di struttura, gli iscritti sono più o meno 500. Parlo del mio settore, che organizza lavoratori dell’industria del cibo (camerieri, baristi, lavapiatti, cuochi). C’è poi quello dei porta-consegne (corrieri), quello dei lavoratori del libro, uno di avvocati. In Grecia è facile creare un sindacato di settore, bastano 25 membri, (in un settore, non in un posto di lavoro). Prima dell’ascesa al governo di Syriza, Nea Demokratia voleva approvare una legge apposita per far fuori questi sindacati ma non ce la fecero in tempo. Abbiamo quindi costruito una confederazione di questi sindacati (confederazione di base dei lavoratori).

 

Come avviene la mobilitazione: modalità informali, internet..?

 

K: No, non internet, attraverso le nsotre assemblee e la conoscenza personale. Un ottimo veicolo sono le assemblee di quartiere. In ogni quartiere in cui andiamo a praticare un boicottaggio, l’assemblea di quel quartiere, lo squat locale, vengono e danno una mano. Tante volte facciamo assemblee comuni, se la vicenda è grossa, tentando di andare oltre il livello della “solidarietà”. Questi pezzi partecipano, ma prendono parte all’azione e ai momenti decisionali. Non si tratta di relazioni formali ma costruite nelle lotte. Ne abbiamo avuto molti esempi in questi ultimi anni. Queste sono le uniche lotte che danno qualche speranza. Lotte sul lavoro non meramente sindacali, e portate avanti non solo dai sindacati di base. Per esempio, nella nostra assemblea di quartiere arriva uno che è stato licenziato dal supermercato: l’occupazione, i lavoratori del mercato, tutti questi gruppi creano un’assemblea per fronteggiare il caso. Tante volte vedi che quando un lavoratore ha un problema, prima va all’assemblea di quartire, solo in seguito al sindacato. Sono dei veri punti di riferimento. Perché sai, il sindacato non è più come un tempo, non c’è più la fabbrica e il quartiere di fianco in cui vivono i suoi operai, oggi è la città ad essere una grande fabbrica. Io magari lavoro due ore in un ristorante al Pireo.

 

Le lotte su cosa vertono, sul salario?

 

K: Tutte queste lotte sono lotte difensive, per ottenere i soldi che i padroni non vogliono sganciare. O per contrastare dei licenziamenti. Sono lotte interssanti dal punto di vista organizzativo ma restano lotte di resistenza. La maggiornaza di esse, comunque, sono vincenti.

 

Quando la lotta si conclude, la gente resta nel sindacato, continua a lottare?

 

K: A volte sì, a volte no. Però capità di vedere gente di cinquant’anni o più, con famiglia, cui la lotta, letteralmente, ha aperto gli occhi.

 

G: Per chiudere questa chiacchierata, voglio dire ancora una cosa io sulla questione politica principale, quella del “debito”. È un aspetto importante, di cui non si parla. È Syriza ad aver portato la discusione sul nodo del debito ed è una cosa pericolosa. Syriza sottintende con questo che le politiche di austerità sono fallimentari, che non troveranno il modo di uscire dalla recessione economica, che non tentano di risanare l’economia ma solo svalorizzare la forza-lavoro. Il debito non è una questione logistica [tecnica] cui dovremmo trovare una soluzione. È soltanto un mezzo di chi comanda per svalorizzare il potere della forza-lavoro. Syriza ha creato comitati statali per dimostrare che il debito non è dello Stato e del capitale greco. Vuole dimostrare che Pasok e Nea Demokratia hanno creato il debito con le loro politiche forsennate. Sta cercando di spostare le linea di inimicizia di classe fuori dal contesto nazionale: Unione Europea, Trojka. Il debito è certamente un mezzo di chi ci comanda ma, questa la differenza, noi stessi ne siamo parte, noi siamo debito. Se capiamo questo, facciamo un passo avanti nella teoria rivoluzionaria. Nel senso che noi siamo un problema per la gestione e il comando capitalistici. Antarsya, altri gruppi anarchici dicono “rifiutiamo il debito”, nessuno che dica “la lotta di classe, in Grecia, oggi, incrementa il debito”. E invece il debito è stato un prodotto della guerra di classe, della lotta dei lavoratori e dei non lavoratori degli anni passati. Il debito è un aspetto positivo della lotta di classe, e certo pone problemi al capitale greco e allo Stato.

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