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Sicilia: grandi crolli o grandi opere? Chi decide sulla spesa pubblica

Solamente l’ultimo dei numerosissimi episodi di crolli, frane, cedimenti che hanno colpito le arterie del trasporto siciliano: ricordiamo, ad esempio, il caso che, il 6 gennaio scorso, ad appena una settimana dall’apertura, ha visto cedere il ponte ”scorciavacche” situato sulla Palermo-Agrigento; strada provinciale già tristemente nota per il crollo del viadotto Petrulla che aveva causato il ferimento di 4 persone nel luglio 2014. E ancora, a dimostrazione della pessima gestione delle infrastrutture e arterie stradali siciliane il fatto che, tutte le strade alternative individuate alla A19, presentano di fatto qualche tipo di inagibilità, interruzione o impercorribilità (non stiamo né esagerando e neppure scherzando!).

Nelle ore immediatamente successive ai fatti della A19 non è mancato il consueto rimpallo di responsabilità tra Anas, Governo regionale e provinciale, che ha toccato vette di comicità surreale quando l’assessore alle infrastrutture del governo Crocetta, Giovanni Pirro, ha dichiarato che “non sono le nostre strade a crollare, ma le montagne a cadere per gli effetti del cambiamento climatico”. Come se non fosse eventualmente compito delle amministrazioni monitorare e intervenire in situazioni potenzialmente disastrose, soprattutto in un territorio (siciliano e italiano tutto) che si sa, ha il più elevato dissesto idrogeologico e il più alto numero di frane d’Europa (delle circa 500.000 frane avvenute in Europa quest’anno, 480.000 hanno interessato solo il territorio italiano!).

Basti pensare alla tragedia del paese di Giampilieri, devastato nel 2009 da un alluvione a causa della quale persero la vita 37 persone. Emblema, quest’ultimo, di un modello di sviluppo incentrato su disinvestimento strutturale, appalti facili e cementificazine diffusa, e che non si ferma neanche davanti alla messa in pericolo della vita di migliaia di persone, ampiamente salvaguardabile con previa preservazione dei territori.

Sull’economia siciliana si abbatte così un’ulteriore batosta: l’impossibilità di comunicazione tra i due poli economici della regione va a colpire settori centrali nell’economia isolana, che vede nell’agricoltura e nel trasporto di merci su gomma i due assi portanti. Non dimentichiamo inoltre i disagi che si troveranno ad affrontare i lavoratori pendolari e gli automobilisti, che al momento si trovano dinanzi alla possibilità di dover affrontare 5 ore di treno per attraversare poco più di 300km.

Ma l’emergenza siciliana sembra anche emblema di un paese, di un sistema e di una classe dirigente. Vediamo come.

Siamo di fronte infatti, a una classe dirigente che ha completamente abbandonato anche qualsiasi velleità di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica, il giro d’affari e la devastazione di territori che soggiace a un’accumulazione capitalistica e finanziaria che – nell’immanenza della crisi – si nutre famelicamente di “Grandi opere” e “Grandi eventi”. Miliardi e miliardi di euro per la realizzazione di “Grandi Opere” tipo la Tav in Val Susa, o l’imminente appuntamento di Expo Milano. Opere e appuntamenti la cui utilità e impatto urbanistico e territoriale sono quotidianamente messi in discussione dall’evidenza dei fatti e dalla volontà di migliaia di persone che ne inficiano la legittimità.

Nel caso siciliano, assume notevole rilevanza il ruolo ricoperto dall’Anas, prima società per numero di appalti in Italia. Il che non rappresenterebbe un problema, in quanto azienda pubblica, se solo si potesse viaggiare sulle strade extraurbane in Italia senza il rischio che una montagna forse un giorno possa crollarti addosso! Soprattutto se da anni, nel caso della A19, sono centinaia le segnalazioni all’Anas da parte di chi percorre quotidianamente l’autostrada. Ma quello che accade in Sicilia non è che il diretto riflesso ed esasperazione di ciò che diventa sempre più palese anche a livello nazionale. In Val di Susa, come a Messina per il ponte (miliardarie consulenze a possibili ditte appaltatrici si sono susseguite per vent’anni), senza dimenticare i miliardi messi in campo per l’organizzazione del già citato Expo milanese, in cui i rapporti tra l’ex ministro Lupi e Ercole Incalza, dirigente dei Lavori pubblici per 7 governi (adesso in carcere), hanno portato in evidenza, per l’ennesima volta, la corruzione sistemica alla base della realizzazione di tali appuntamenti. Ma potremmo parlare anche degli sporchi affari del Mose o delle discariche e inceneritori campani. Insomma, viene puntualmente avanzato e imposto un modello di sviluppo funzionale solo all’arricchimento di cricche di potere strettamente connesse quando non immediatamente interne al sistema di governo. Un modello di sviluppo che ha visto la Sicilia come territorio privilegiato di saccheggio di risorse economiche e umane, in nome del superamento di un’“arretratezza” su cui le politiche degli ultimi 30 anni hanno creato i presupposti ideologici dello stato d’emergenza su cui lucrare.

Una delle regioni con il più alto costo tributario sostenuto dai cittadini sta cadendo materialmente a pezzi; e malgrado ciò i governi susseguitisi nel corso del tempo non hanno mai posto realmente rimedio a uno solo dei problemi che affliggono questo pezzo di meridione.

Perché destinare miliardi di euro per la costruzione di un treno ad Alta velocità in Val Susa, quando in Sicilia le linee ferroviarie hanno tempi di percorrenza che risalgono ai treni a vapore? Perché investire miliardi sull’Expo dovrebbe essere una priorità rispetto alla messa in sicurezza infrastrutturale di strade e territori che allo stato attuale mettono a repentaglio vite umane ed economie di intere regioni?

La risposta appare nella sua crudezza ogni giorno dinanzi ai nostri occhi: il modello di sviluppo portato avanti nei nostri territori è un modello che trova nel sistema capitalistico la sua ragion d’essere e che ruota intorno a due cardini: da una parte una gestione delle risorse che si basa esclusivamente sull’accumulazione di ricchezze e grossi capitali; dall’altra la distruzione di territori e la completa indifferenza nei confronti degli uomini e delle donne che questi territori li abitano e che diventano solo corpi e menti da soggiogare e sfruttare. Un menefreghismo criminale che, per il guadagno di pochi, mette a repentaglio non solo condizioni di esistenza dignitose ma addirittura la vita stessa degli abitanti (cosa sarebbe successo se non si fosse tempestivamente chiuso il tratto della A19? Quanti i morti!?).

Si palesa così come il principale motore del tanto acclamato “sviluppo” non sia altro che il tentacolo di un sistema, in cui politica, affaristi e appaltatori costituiscono un unico intreccio e concorrono per gli stessi interessi e profitto indiscriminato sulle spalle dei cittadini.

In Sicilia e più in generale nel meridione, ci troviamo di fronte a una condizione di sottosviluppo, di arretratezza e di precarietà delle strutture e infrastrutture che va pensata come una condizione imposta, derivante direttamente da una metodologia in stile coloniale portata avanti dal sistema capitalistico. Un sistema che fonda la propria esistenza sulle disuguaglianze, sullo sviluppo di alcuni territori a danno di altri che devono sistematicamente rimanere sottosviluppati e che vanno utilizzati alla stregua di colonie appunto, come bacini da cui trarre risorse umane e materiali da sfruttare. Questo sembra essere il passo successivo e conseguente nel capitalismo della crisi permanente, per una terra, come la Sicilia e il meridione tutto, che da territori di brutale sperimentazione di accumulazione e sfruttamento, si trasformano in vere e proprie discariche, effettive e di immaginario collettivo, delle insanabili contraddizioni e degli ormai incolmabili costi di un sistema Italia in profonda crisi. Costi e contraddizioni da scaricare, manco a dirlo, su popoli e territori.

Se infatti la creazione di veri e propri serbatoi di ammortizzazione sociale in settori nevralgici (come la pubblica amministrazione e il settore dell’edilizia) hanno segnato per quasi mezzo secolo la capacità delle governance di contenere gli effetti della devastazione sociale dell’isola, lo sgretolarsi di un meccanismo così rodato ha reso la Sicilia luogo di saccheggio privilegiato, priva delle forme di bilanciamento e contenimento sociale già menzionate. In poche parole, si prende tutto ciò che si può da queste terre senza preoccupazioni; né di consenso né di ridistribuzione sociale delle briciole tanto meno di messa in sicurezza delle infrastrutture più essenziali.

In questo quadro è necessario ribadire la centralità politica del tema della gestione delle risorse e delle priorità di investimento della spesa pubblica. Perché in una fase in cui il capitalismo fatica a riprodursi nelle sue forme tradizionali, trova invece sempre più, nella gestione indiscriminata e predatoria di territori e flussi di denaro liberi di muoversi, il nuovo modello di riproduzione e accumulazione nell’era della crisi.

A questo punto non sarà sicuramente la sostituzione per via giudiziaria di singoli personaggi all’interno di apparati consolidati di potere a determinare una differente gestione delle risorse e dei luoghi. Da qui la necessità di costruire e avanzare ipotesi di nuovi e altri modelli di gestione del territorio che vedano al centro, non più il profitto per amici dei vari governi, ma bisogni e possibilità reali di gestione dei territori da parte di coloro che li vivono.

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