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L’europeismo “autonomo” di Toni Negri

 

da: http://sebastianoisaia.wordpress.com/2013/09/06/leuropeismo-autonomo-di-toni-negri/

Oggi userò l’interessante – anche se non del tutto condivisibile – Elogio della politica profana (Alegre, 2013) di Daniel Bensaïd contro Toni Negri, il quale si ostina a voler «far politica sul terreno dell’autonomia» mentre continua a dimostrare che quel terreno gli è del tutto estraneo. Egli, infatti, si muove piuttosto sul terreno della mosca cocchiera del Dominio capitalistico, e lo fa con una leggerezza e con una disinvoltura davvero ammirevoli, per così dire…

Intanto, cosa significa per Negri autonomia? È presto detto: significa assumere «il punto di vista del soggetto sovversivo e di conseguenza analizzare le figure e i modi di agire del proletariato precario-cognitivo» (Global Project, 1 settembre 2013). Com’è noto, per l’intellettuale padovano il «proletariato cognitivo» è il soggetto sociale «virtualmente egemonico nell’analisi dei movimenti della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine capitalista». Parole rigorosamente alla moda radical-chic (o radical-cognitiva) che, come vedremo, hanno poca pregnanza sul terreno dell’autentico anticapitalismo.

Prima citazione di Bensaïd: «Nonostante la loro valutazione assai approssimativa del posto che occupa il “lavoro immateriale”, Negri e Hardt gli attribuiscono una misteriosa virtù liberatrice. Nulla tuttavia consente di affermare che il lavoro individualizzato di un operatore telefonico, di un pubblicitario a tempo determinato, di un venditore a domicilio, sia più liberatore rispetto all’organizzazione collettiva sul posto di lavoro» (pp. 330-331).  Questo significa forse, almeno per chi scrive, nutrire qualche pallida «nostalgia della vecchia classe operaia»? Solo chi non ha mai conosciuto la maledizione del lavoro salariato può cullare sentimenti positivi nei confronti della “vecchia” come della “nuova” classe operaia.

È ovvio che su questo punto, come d’altra parte su molti altri, Negri polemizza con i suoi vecchi compagni di strada operaisti, così come negli anni Settanta polemizzava con il PCI e con il sindacato collaborazionista di riferimento (la CGIL) senza coglierne la reale natura reazionaria, dimostrando con ciò stesso di non essersi emancipato, per l’essenziale, dalla tradizione togliattiana che pure formalmente criticava.

Scrive Negri: «Nel distacco storico che si era affermato tra oggettività del comando (e del capitale costante) e soggettività della forza-lavoro (soggetta al capitale variabile) si dà, da parte delle singolarità, una riconquista di capitale fisso, un’acquisizione irreversibile di elementi macchinici sottratti alla capacità valorizzante del capitale – per dirlo brutalmente, un furto continuato di elementi macchinici che arricchisce di capacità tecnica il soggetto, meglio, che il soggetto lavorativo incorpora. Con ciò si mostra quanto il lavoro immateriale sia corporeo, della sua capacità di assorbire con rapidità e virtuosità stimoli e potenze macchiniche». Mentre si approfondisce sempre di nuovo non solo la sussunzione totalitaria della capacità lavorativa manuale e intellettuale al Capitale, ma la sussunzione totalitaria capitalistica dell’intera società, Negri vede agire hic et nunc misteriose controtendenze emancipatrici: dinanzi a una simile esibizione di fantasia occorre inchinarsi pieni di ammirazione.  Ma sulla critica delle fisime postcapitalistiche di Negri rimando ai miei diversi post pubblicati su questo blog (ad esempio Quel che resta di Negri) e allo studio Dacci oggi il nostro pane quotidiano, nel quale si trova una critica del cosiddetto Capitalismo cognitivo.

Arriviamo così al punto forse più sfizioso dell’articolo di Negri qui preso di mira: l’Europa, declinata anche in una chiave geopolitica schiettamente antiamericana, cosa che forse rappresenta una rettifica del suo precedente punto di vista “imperiale”. Forse, per carità.

Egli polemizza con la “sinistra sovranista” (nazionalista), e qui non può che vedermi solidale al cento per cento: «Il sovranismo è duro a morire e ci sono ancora socialisti disponibili, fin dal 1914, a ripetersi nel difendere la sovranità nazionale oltre ogni vergognoso limite!» Bella tirata, non c’è che dire; al netto dell’improponibile paragone tra i socialisti che votarono i crediti di guerra nel 1914 e gli odierni socialnazionalisti (del tipo di quelli che sostengono il macellaio di Damasco): la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Ma da quale prospettiva Negri scaglia le sue lodevoli frecce antisovraniste? Egli si muove «sul terreno dell’autonomia», come ci aveva promesso? Vediamo.

Per i sovranisti antieuropei «si tratterebbe di ritornare (temporaneamente?) agli Stati-nazione, di restaurare una sovranità nazionale (protetta dall’Europa dentro e contro la globalizzazione?) e così di riconquistare potere sulla moneta […] Per noi il problema non si risolve ritornando indietro: pensiamo infatti che l’Europa sia il contenente minimo per un’azione politica rivoluzionaria che si collochi nella globalizzazione. Lo spazio (proprio in seguito alla globalizzazione) è ritornato ad essere una dimensione politica essenziale, primaria. È solo costruendo e consolidando la forza di un ordinamento in uno spazio determinato fra soggetti che cooperano, che la legittimità (quella sovrana, certo, ma anche quella rivoluzionaria), si afferma. Non c’è alternativa. L’Europa è questo spazio». Ora, ditemi voi se questo è un modo «autonomo» di impostare la lotta al Sovranismo! Per Negri o si è sovranisti o si è europeisti nel senso più borghese e capitalistico del concetto. Egli, dunque, nemmeno immagina che si dà la possibilità di condurre una lotta contro i sovranisti di “destra” e di “sinistra” da un punto di vista autenticamente autonomo, ossia remando contro tutte le fazioni intercapitalistiche, contro quelle che spingono verso una maggiore integrazione europea, anche in chiave antiamericana, e quelle che all’opposto hanno interesse a “rinazionalizzare” le politiche economiche e la politica estera dei Paesi che oggi aderiscono all’Unione europea.

Evidentemente per l’intellettuale padovano l’autonomia di classe è solo uno slogan gradevole dal punto di vista estetico, è un vecchio slogan che conserva un certo appeal. Per meglio comprendere la posizione europeista di Negri può forse tornare utile leggere i passi di Bensaïd che seguono.

«Se l’imperialismo classico significava l’espansione dello Stato-nazione fuori dalle sue frontiere, nell’era imperiale non ci sarebbero più [per Negri e Hardt ] Stati-nazione né l’imperialismo. Il nuovo dispositivo “sovranazionale, mondiale, chiamato impero” non è americano ma “semplicemente capitalistico” […] L’appello a rinunciare alle illusioni terzomondiste si traduce allora in una rottura con la tradizione anti-imperialista, in base al falso pretesto secondo cui l’Impero oggi rappresenterebbe “un progresso, allo stesso modo in cui il capitalismo secondo Marx costituiva un progresso in rapporto alle forme sociali e ai modi di produzione precedenti” [T. N., Intervista a Le Monde, 22 gennaio 2002]». Anch’io, nel mio piccolo, conduco da sempre una battaglia contro le «illusioni terzomondiste», senza tuttavia scadere nell’apologia del Capitalismo come modo di produzione «oggettivamente» rivoluzionario.

Ricordo che alla fine del XIX secolo si affermò nel seno della socialdemocrazia tedesca una forte corrente di pensiero che sosteneva sul terreno politico-ideologico l’ascesa mondiale del colonialismo e dell’imperialismo in quanto essi avrebbero esteso il dominio capitalistico su tutto il mondo, liberandolo dai modi di produzione precapitalistici, rafforzando così «oggettivamente» la prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale. Un determinismo economico molto funzionale agli interessi del Dominio sociale capitalistico. È quella che definisco dialettica della mosca cocchiera, la quale ha in Toni Negri uno dei suoi maggiori esponenti.

Il fatto che da moltissimo tempo (per Marx a far data dal 1871, dalla Comune di Parigi in poi, per quanto riguarda la moderna Europa borghese) il Capitalismo non ha da implementare alcuna funzione storicamente progressiva, e che merita solo il trattamento mortifero del suo becchino (peraltro in tragico ritardo sui tempi), è qualcosa che supera la capacità di comprensione del marxista postmoderno, il quale è sempre alla ricerca di una fantomatica «fazione progressista» della borghesia da egemonizzare in vista della «rivoluzione proletaria», o quantomeno di «rapporti sociali più avanzati». Sul terreno dell’«egemonia» e dei «rapporti sociali più avanzati» Gramsci ha fatto molti danni. Ma riprendiamo la citazione.

«Questo apprezzamento del ruolo “progressista” dell’Impero rispetto all’Imperialismo “classico” fa luce su una presa di posizione sorprendente, quantunque logica, nei riguardi della guerra illimitata dichiarata da George W. Bush: la reazione americana agli attentati dell’11 settembre rappresenta, secondo Negri, “un passo indietro rispetto alla tendenza imperiale, un contraccolpo, un ritorno in forza dell’imperialismo legato a una vecchia struttura di potere e a vecchi metodi di direzione contro l’Impero ”. Di conseguenza, per lottare contro la guerra occorrerebbe esaminare “le possibili alleanze con l’aristocrazia imperiale riformista” [T. N., intervista a Il Manifesto, 14 settembre 2002]».

«Le peggiori tragedie della storia umana accadono, afferma Michael Hardt, “quando le élite sono incapaci di agire nel proprio interesse”. Sarebbe questo il caso dei dirigenti americani. Guidati da un calcolo poco lungimirante, essi si sforzerebbero di ricostruire “un potere imperialista basato sul vecchio modello europeo, ma a livello planetario”, invece di integrarsi alle nuove élite senza frontiere dell’Impero mondializzato. L’alternativa a questo imperialismo regressivo risiederebbe dunque nell’organizzazione “del potere globale decentralizzato che Negri e io chiamiamo Impero […] Opporsi all’Impero non significa che bisogna preferire l’Imperialismo antico” [M. H., The Guardian, 18 settembre 2002]». Non c’è il minimo dubbio: contro l’Impero cosmopolita e «progressivo» e contro l’«Imperialismo antico e regressivo»; ma il fatto stesso che Hardt senta la necessità di precisare questa posizione, che dovrebbe essere un punto acquisito nella dotazione dottrinaria di un “marxista medio”, la dice lunga sul dibattito in corso dentro la “sinistra radicale” tra “internazionalisti” e “sovranisti”. Riprendiamo, per concludere, Bensaïd.

«In occasione del referendum costituzionale europeo del 2005 in Francia, Negri si è logicamente pronunciato a favore dell’approvazione del trattato liberale ritenendo che ogni passo che vada in direzione del superamento degli Stati nazionali sia necessariamente positivo […] Non se la prendano gli autori di Impero, ma il concetto di Imperialismo, caduto in disgrazia dagli anni Novanta, è tornato alla ribalta prepotentemente nel nuovo secolo». Più volte ho scritto che nel caso del Capitalismo e dell’Imperialismo le aggettivazioni che pretendono di fotografarne e congelarne l’essenza in un preciso momento storico (post capitalismo, neoliberismo, impero, imperialismo globale, ecc.) sono prive di senso, devono necessariamente rimanere ben al disotto della dinamica sociale reale, perché il continuo cambiamento, “strutturale” e “sovrastrutturale”, è immanente al concetto stesso di Dominio capitalistico.

Ridiamo alla fine la parola al sempre ottimista e speranzoso Negri: «Lo dico con molta prudenza ma anche con molta speranza: perché è ben vero che l’Europa è stata provincializzata e che il proletariato europeo ha perduto la sua battaglia di emancipazione che per alcuni secoli aveva condotto contro l’impero neoliberale dal capitale… e però gliene abbiamo dato tante ed abbiamo ancora la forza di dargliene». Se lo dice lui… È d’altra parte vero che se qualcuno forse «gliene ha dato tante», mostra di averne prese certamente altrettante, anche sulla intellettualistica capoccia.

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