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La Bestia Umana

Ricapitoliamo. Negli scorsi giorni Cecil, star naturalistica del parco di Hwange (Zimbabwe) viene ucciso da un dentista statunitense in cerca di emozioni forti in una battuta di caccia: legale e praticata in un contesto di controllo della popolazione animale secondo l’interessato, illegale e predatoria secondo le autorità locali. Una volta che il cacciatore ed il suo domicilio vengono individuati a mezzo leaks, la mobilitazione (e la shitstorm) è colossale: a condannare l’episodio non solo noti personaggi dello spettacolo e dello sport (e a cascata molti loro seguaci sui social media), ma anche politici, in un momento in cui il dibattito sulla liceità delle armi da fuoco negli USA è più acceso che mai. Si susseguono appelli all’ostracismo, censure e minacce: spesso limitate al semplice clicktivism, ma che rimbalzano ingigantendosi dai media mainstream al web e viceversa, scomodando le istituzioni statali e l’ONU. Fino a produrre risultati perfino paradossali da un punto di vista liberale: come la richiesta di estradare il dentista in quello Zimbabwe paese paria della comunità internazionale fino al giorno precedente, o comunque la messa in questione del primato borghese (sempre più tutelato da trent’anni a questa parte, a scapito di forme collettive) dell’inviolabilità dell’iniziativa economica individuale: in questo caso quella di pagare per esercitare un diritto di proprietà sul corpo dell’animale, in un contesto di carente o corruttibile regolazione statale.

Un episodio in sé non nuovo: basti pensare a quanto accaduto con la soppressione dell’orso Daniza in Italia (che produsse appelli al boicottaggio turistico del Trentino) o con quella del cane Excalibur in Spagna, sospetto portatore di Ebola, che lo scorso ottobre suscitò un’ondata di indignazione ed una serie di azioni dimostrative contro le autorità iberiche (in questi due casi è interessante invece notare l’inversione delle parti).

Tornando alla questione di partenza, per proporre un’ipotesi di comprensione del fenomeno vanno a nostro avviso ingaggiati e approfonditi due piani di senso, uno linguistico e comunicativo e l’altro politico e sociale. Letture che non vanno scisse, pena la produzione di un punto di vista rispettivamente sterile o astratto.

Iniziamo dal primo piano. E’ pacifico dire che il mondo animale e la sua rappresentazione, fin dei tempi dei pittogrammi di Lascaux, siano mediati secondo un criterio umano. Cioè attribuendo loro tutta una serie di caratteristiche e stereotipi definiti attraverso il linguaggio e le convenzioni, in molti casi inculcati dalla favolistica e dalla produzione audiovisiva per l’infanzia (fino a tempi recentissimi la stessa delle principesse obbligatoriamente difese e sposate dai cavalieri bianchi); e che, accompagnando i bambini nella definizione del sé, propongono come metro di paragone di volta in volta il “carisma” della tigre, l’ “operosità” della formica, la “dissolutezza” dei maiali (PIGS!); spesso nel più completo arbitrio – basti pensare agli effettivi ruoli esercitati in un branco da leoni e leonesse.

Un dispositivo che non viene meno con l’età adulta: sia arma di distrazione di massa (vedi Dudù), che tentativo di recupero istituzionale (le battaglie pro-animali della Brambilla o di Michelle Obama), veicolazione di meme più o meno raffinati (gattini) o simbolo di consenso e mobilitazione, anche per i movimenti (Loukanikos), gli animali parlano attraverso di noi e di noi. E continueranno a farlo, persino in un ipotetico domani in cui la comunicazione interspecie procedesse per hardware ed algoritmi definiti a priori dall’uomo. Tant’è che, in un doppio avvitamento (e, anche qui, almeno fin dai tempi di Aristotele), spesso ad essere “animalizzati” sono gli esseri umani stessi: dai migranti definiti come “topi” o “scarafaggi” alle donne sessualmente attive come “troie”, ma anche i poliziotti come “maiali” o i giornalisti come “sciacalli”. Ovviamente qui non si tratta di fare lezioni di bon ton a chicchessia, ma di prendere atto e coscienza dell’utilizzo di convenzioni linguistiche che, nell’era dell’informazione – e con tutte le gerarchie comunicative del caso – equivalgono a strumenti di produzione e “consumo” del reale.

Da ciò deriva il fatto di come (allo stesso modo di quanto avviene per le persone) si identifichino specie più o meno desiderabili, più o meno tutelabili, più o meno utili all’ecosistema (traslato immediatamente in termini economici, in questo caso nella redditività della presenza di Cecil per il parco). La morte del leone, vertice di una catena non solo alimentare, ma anche di valore immaginifico evoca una minaccia all’ordine costituito, amplificata dalla rarità della sua specie e dal suo carattere relativamente indifeso davanti ai mezzi impiegati dal suo carnefice. Non solo: Cecil ha un nome (peraltro in apparente tributo al sanguinario colonialista britannico Cecil Rhodes), una storia, un volto quotidianamente negati dai media non solo a tanti animali (e conferiti ad altri); ma anche a troppi cadaveri periti nelle carestie, in guerra e nel Mediterraneo.

Venendo al secondo piano di senso, gli episodi citati potrebbero in parte (perlomeno nel contesto occidentale) individuare un portato antispecista “vittorioso”, sedimentato da una serie di lotte (come quelle liberazioniste o di conservazione alla Sea Sheperd) ed approcci al benessere animale (stili di vita, diete, consumo etico e cruelty-free). Uno spazio politico che, in mancanza di un discorso anticapitalista forte, è sempre a rischio di venire incluso nell’armamentario ideologico neoliberale come recupero e ossificazione istituzionale di un diritto formale, se una Brambilla trova l’agibilità ed il terreno per piazzarsi davanti alle telecamere ed innalzare al cielo un beagle liberato da Green Hill. Aprendo così alla tecnica di governo di plasmare la soggettività sociale in/su un agire morale (fintamente) universale opposto all’agire politico partigiano: cosa che rende ancora più difficile il compito di inchiodare il sistema economico e mediale neoliberale allle sue responsabilità nella degradazione delle condizioni di vita di tutti gli esseri viventi. Gli stessi limiti per cui, limitandosi ad una battaglia puramente etica e vertenziale di riconoscimento di diritti, dopo le lotte delle donne c’è sempre in agguato una Merkel, dopo le lotte dei neri un Obama e dopo quelle LGBT una Luxuria (per non parlare di forze dell’ordine rosa, etniche e arcobaleno varie…). Insomma, si possono stigmatizzare le persone che si disperano per Cecil così come il dentista killer, ma il problema ultimo è quello di elaborare un discorso chiaro e riproducibile per tracciare una linea di inimicizia netta contro il mondo che produce gli uni e l’altro.

Per farlo andrebbe approfondito ed integrato il discorso sulla condizione post-umana con una post-animale – in un contesto sociale in cui tra l’altro, per scelta o per necessità, gli animali da compagnia finiscono per rappresentare sotto la maggioranza degli aspetti non più un surrogato ma l’equivalente di altri tipi di legame affettivo; mentre le tecniche di selezione riproduttiva si aggiornano, ed iniziano a fare capolino i primi innesti meccanici, biomeccanici e genetici. Ma ciò può produrre un terreno di rinnovata consapevolezza e ricomposizione solo a patto di evitare l’insidia del relativismo post-moderno. Di un’ideologia che, nella sua presunta equidistanza e “tolleranza” non fa altro che avallare (ignorandone la collocazione privilegiata, o implicitamente assumendolo come “naturale”!) il dominio del più forte, vale a dire il punto di vista e la gerarchia di valori del capitalista collettivo e delle sue istituzioni sociali. Anche, e soprattutto, in rapporto alla nostra mediazione/relazione con il mondo animale.

Baldanders

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