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Sinistra e comunicazione


Mi è stata posta recentemente la domanda: “Perché nell’epoca della comunicazione di massa la sinistra risulta perdente?”
Mi viene spontaneo rispondere: “La sinistra è perdente (eufemismo per non dire: estinta) perché si è posta la domanda solo “recentemente”.
La destra si era preoccupata per tempo del tema della comunicazione. Pur partendo da una posizione di handicap (negli anni ’70 la sinistra deteneva un primato indiscusso sulla cultura e sui media) o forse proprio per questo, la destra ha affrontato da allora il problema di rendersi credibile degli occhi dell’opinione pubblica ed ha vinto la sua sfida.
Per la sinistra la comunicazione non ha mai costituito un problema reale. Era una sorta di “sovrastruttura”, una vaga emanazione di problemi economici. Ed aveva qualcosa di “sconveniente” perché tendeva ad imporsi al di là della verità oggettiva delle cose.

Ho vissuto sulla mia pelle questa contraddizione. Negli anni ’80, a partire dalla mia professione di programmatore nella nascente televisione commerciale, segnalavo sul manifesto il rischio intrinseco in una visione del mondo che si costruisce a partire dall’audience. Avevamo creduto sino ad allora nel pensiero critico, nella decostruzione del Reale. La rilevazione dell’audience si imponeva invece come una sorta di fabbrica della maggioranza e come una consacrazione della quantità sulla qualità, della ripetizione sulla differenza. L’audience non si limitava infatti alla rilevazione delle scelte della maggioranza, ma proponeva queste scelte come prototipi e modelli della produzione successiva in un processo che tagliava fuori l’innovazione e l’emergenza del diverso.
Nella mia testa tutto ciò era una critica, una denuncia, (se no non avrei scritto sul manifesto, ma sul Corriere) ma venne interpretata al contrario. Come si permette costui di fare certe cose, nefandezze e di venircele pure a raccontare?”. In realtà il problema era più complesso. Come potevo oppormi io, rotella di un ingranaggio, all’avvento della logica dei nuovi media? Cercavo appoggio ed attenzione. In realtà il problema di una rivoluzione epistemica che ci proiettava fuori dalle forme critiche del pensiero, non interessava a nessuno. La sinistra continuava a ragionare con le sue categorie tradizionali. E a credere in una verità eterna, immutabile e comunicabile solo razionalmente.

Per il suo rifiuto di prendere posizione nei confronti della comunicazione, la sinistra ha continuato a combattere a mani nude contro i carri armati della postmodernità, contro i nuovi media che riplasmavano il nostro cervello: la televisione, il computer, la telefonia, la digitalizzazione. Come scriveva Lyotard ne La condizione postmoderna, solo quello che è compatibile coi nuovi media può sopravvivere, il resto è destinato ad estinguersi.

Per questo la sinistra si è estinta, almeno a livello comunicativo e sopravvive soltanto nell’Universo della Galassia Gutenberg. Cioè nell’era della stampa.
Ho scritto molte volte sul tema sinistra/comunicazione, peraltro senza grande esito.
Come se il tema non interessasse a nessuno. Di fronte alla domanda che mi è stata posta, penso di doverlo fare in maniera riassuntiva ed esaustiva. In pratica, di fare qui un “bignami” di tutte le mie argomentazioni in proposito.
Prima di tutto voglio rilevare che la domanda è interpretabile su due fronti: un piano macro comunicativo ed un piano micro comunicativo: in breve la comunicazione come macro-cosmo e come micro-cosmo, cioè come sistema generale e come tecnica individuale o locale.

Cominciamo dalla comunicazione come sistema globale.

1. La sinistra è perdente, come abbiamo visto, per essersi posta il problema con grande ritardo. Nel recente passato la destra ha lavorato su una molteplicità di piani: ha costruito Think Tank, pensatoi, per promuovere idee di destra. E poi fondazioni ed università. Ha erogato borse di studio a volenterosi studenti del 1° e del 3° mondo, che hanno potuto formarsi e studiare in centri del pensiero neoliberista. È evidente che questi studenti sarebbero stati i più fedeli sostenitori dei Chicago Boys. Ed avrebbero occupato la comunicazione a favore della destra.
Il massimo è stato raggiunto quando, abbandonato il marxismo, dopo la caduta del muro di Berlino, il neoliberismo è diventato il credo dei partiti progressisti e sedicenti di sinistra, come i democratici negli Usa, i laburisti in Inghilterra, il Pd in Italia. Sono i famosi teorici della III° via. Subiamo oggi una crisi economica che sembra mancare di una via d’uscita, ma questa crisi non nasce dal nulla. È originata piuttosto da un numero limitato di leggi economiche che ad esempio separano il tesoro dalle banche centrali dei singoli stati, ed unificano banche di credito e banche d’affari. Bene, tutte queste leggi portano firme di esponenti “progressisti”.
Per la fusione tra banche d’affari e di credito, Clinton in America, Prodi in Italia.
Se il neoliberismo è di sinistra, nulla da obiettare. Possiamo anzi dire con Renzi che la sinistra è vincente, ma, dal mio punto di vista, la maggior vittoria della destra, risiede proprio nell’aver fatto credere alla sinistra che il neoliberismo sia compatibile con le sue tradizioni e con i suoi obiettivi. Potenza della comunicazione.

2. E veniamo al secondo motivo di debolezza della sinistra. Nell’ambito della comunicazione accecata dal credo neoliberale la sinistra o almeno i partiti sedicenti progressisti, hanno ritenuto che il pluralismo dell’informazione si identificasse con una molteplicità di editori privati: Berlusconi, De Benedetti, Murdoch. Il pluralismo come conflitto individuale tra manager degli opposti interessi privati. In realtà una molteplicità di attori non cambia le regole del capitalismo che persegue sempre e solo il profitto e quindi il raggiungimento della maggioranza a discapito di ogni altro valore.
Per questo, donchisciottescamente, ho sempre difeso il servizio pubblico televisivo, ormai allineato agli standard commerciali, come polo di possibile diversità.
Che il profitto confluisca in una o in un’altra direzione, non cambia la visione del mondo maggioritaria e conformista degli editori, impegnati ad accaparrarsi inserzioni pubblicitarie e quindi, il pubblico più vasto e meno differenziato.
Negli anni ’70/’80 prima dell’avvento del monopolio berlusconiano, la sinistra si è cullata nell’illusione delle cosiddette tv libere: televisioni gestite dal basso per permettere a tutti l’accesso al video. In realtà nella comunicazione vince la disponibilità di mezzi da investire. Sono i fondi a disposizione che fanno il successo di una rete televisiva, di una casa editrice, di una produzione cinematografica.
E, tradizionalmente, i soldi si situano a destra e, se non sono pubblici, non hanno lo scopo di educare, ma di creare nuovi guadagni in una spirale progressiva che annulla ogni ideale di sinistra.

3. Infine ritorniamo alla constatazione iniziale dell’indifferenza della sinistra nei confronti della comunicazione. Questo ha prodotto un totale disinteresse nei confronti della mediologia. Se come dice McLuhan il medium è il messaggio, non possiamo pensare che i mezzi di comunicazione siano una sorta di veicolo neutro per la propagazione di idee altrettanto neutre. Ma c’è di più. Un medium non è un soggetto morale: non è né buono né cattivo. È come un apriscatole: può rivelarsi utile se lo utilizzi in maniera corretta. Ha pregi e difetti, come ogni strumento materiale e per questo se ne deve conoscere il funzionamento.
La sinistra non ha mai avuto grandi interessi mediologici ma è sempre stata contraddistinta da un certo romanticismo/finalismo per cui alla fine le cose si risolvono e arriva la rivoluzione, il deus ex machina, in questo caso il medium buono che scaccia il medium cattivo.
È successo, come ho detto tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 con l’utopia delle tv libere contrapposte alla rigida convenzionalità del servizio pubblico. Mentre sarebbe bastata un poco di attenzione alle caratteristiche del medium per capire che più che di televisioni libere si doveva parlare di televisione commerciale.
Qualcosa di simile è successo più avanti (’80/’90) con il computer contrapposto alla televisione privata, in un utopia salvifica nuova.
Confesso, ci sono caduto anch’io e questo per un semplice motivo. Ho sempre conosciuto, per motivi professionali, la televisione. Al computer ci sono arrivato più tardi, come dilettante e dopo aver letto una quantità di libri entusiastici che parlavano di intelligenza collettiva, comunità virtuale, moltitudine contrapposta alla squallida maggioranza televisiva. Il primo ad aprirmi gli occhi è stato Assange.
E poi, di seguito, tutta la letteratura critica di oggi (Modoroff….) [Morozov, ndr.].
Il motivo dell’equivoco è semplice.
Televisione e computer sono due media apparentemente antitetici. La televisione, soprattutto nella sua variante commerciale, si basa sulla rilevazione dell’audience e quindi sulla ricerca della maggioranza.
Al contrario il computer si presta a contatti individualizzati, anche se egualmente numerosi: la famosa moltitudine di soggetti diversi.
In effetti il digitale permette di lavorare sui media non solo e non più in senso maggioritario. Come direttore di reti digitali ho potuto lavorare sul fenomeno della coda lunga: reti di nicchia basate sul culto. Un programma prodotto per la televisione generalista ha l’obiettivo di catturare il maggior pubblico possibile in un unico passaggio. Le repliche non sono rilevanti. Le reti telematiche raccolgono invece un pubblico ristretto ma fedele nel tempo e innamorato di un determinato prodotto. L’esempio per eccellenza di questo rapporto di culto è costituito dalle serie americane, abbastanza difficili e complesse da poter andare in onda più e più volte, per poter essere più profondamente comprese.
Nelle reti tematiche i grandi numeri si costruiscono nel corso del tempo, sommando ogni volta piccole audience.
Anche su internet esistono comunità di fan, che, per quanto minoritarie, raggiungono grandi numeri a livello globale. Ma non c’è solo questo, anzi. Sempre di più Internet si identifica coi grandi Network: Facebook, Google e gli altri motori di ricerca.
Questi Big data usano internet in senso maggioritario, applicando le stesse forme di marketing che funzionano sulla tv commerciale. È vero che tutti possono accedere ad internet e scaricare le proprie informazioni sperando che possano liberamente circolare. È anche vero però che quando gli utenti medi fanno ricerca, la massa dei dati disponibili deve essere disciplinata e resa accessibile da algoritmi che non conosciamo, ma che sono costruiti per favorire le informazioni condivisibili della maggioranza.
Il motivo è, ancora una volta, la richiesta della pubblicità di raggiungere più utenti possibili e non a caso la remunerazione avviene sulla base del numero di contatti.
Cosa c’entra tutto questo con la sinistra? La sinistra è, almeno attualmente, minoritaria e marginale. Quindi tende ad essere marginalizzata ancora di più dagli algoritmi in base ai quali avviene la selezione.
Il marketing non fa altro che, premiare e replicare l’esistente, creare maggioranza a partire dalla maggioranza. In questo contesto la sinistra è naturalmente perdente perché, in quanto minoranza, viene scartata e resa progressivamente più irrilevante.

4. Tutto questo a livello oggettivo e senza procedere a nessuna manipolazione ideologica intenzionale.
Scopo della sinistra resta l’informazione o, meglio, la controinformazione. Ma gruppi di potere, multinazionali, Stati, procedono intenzionalmente a vere e proprie compagne di disinformazione e manipolazione dell’opinione pubblica. Queste campagne vengono portate avanti non tanto con l’oscuramente della notizia, quanto con altre tecniche più idonee al mezzo.
Una notizia scomoda può essere anziché cancellata, replicata e moltiplicata, sino a creare saturazione (vedi il testo in appendice qui sotto).
Ma della propaganda tratterò la prossima volta, insieme al tema della comunicazione individuale, a misura d’uomo.

Appendice
Come la propaganda del potere può intervenire per neutralizzare “la libertà” di Internet?

Quando ero ragazzino, stavo camminando per strada, quando venni fermato da un presidio di attivisti iraniani che chiedevano firme contro lo Scià di Persia. Lo Scià di Persia faceva allora parte del Jet set e tutti conoscevano la telenovela del suo amore infelice per la prima moglie Soraya, ripudiata perché sterile. Il nome Persia, l’attuale Iran, suggeriva l’idea di mondanità e ricchezza, di lusso e insieme di tradizione e di modernità. Gli attivisti esibivano immagini shoccanti di torture. Corpi martoriati di dissidenti con incisi i segni di un accanimento raccapricciante.
L’immagine fotografica cancellava in un attimo le immagini patinate dei rotocalchi di gossip, rendeva grottesco ed irritante quel lusso e quell’efficienza che circondavano nell’immaginario collettivo lo stato persiano.
Molti anni dopo, sempre per strada e dopo che la Rivoluzione khomeinista aveva trasformato la Persia da operetta nell’austero Iran degli ayatollah, venni nuovamente avvicinato dal presidio dei dissidenti. Essi misero sotto i miei occhi le stesse identiche foto di tortura, che mi avevano turbato la prima volta. Questa volta il cattivo era il regime integralista. Niente era cambiato, almeno in quelle immagini e, per la prima volta pensai che qualcosa non quadrava.
Noi attribuiamo alle immagini un potere assoluto di verificazione. In una società, come quella occidentale, basata sull’immagine, l’immagine è la prova indiscutibile, inappellabile, di ogni valutazione politica. Ma da sempre l’immagine può essere manipolata o, più semplicemente, attribuita a chi vogliamo screditare. Così funziona la propaganda. Le sue origini stanno in quella psicologia sociale codificata da studiosi come Le Bon e strateghi come Bismarck. Fu Bismarck per primo a teorizzare la forza del disgusto. Come si può giustificare una cosa orribile come la guerra, se non a partire da qualcosa di ancora più disgustoso, qualcosa che provochi in noi un moto di indignazione?
C’è un classico dell’indignazione che riguarda le stragi di bambini. A Saddam Hussein venne attribuito a suo tempo, prima che gli fossero imputate le armi di distruzione di massa, uno sterminio di neonati prematuri in un ospedale, tolti dalle incubatrici e lasciati per terra a morire di freddo e di fame?
La propaganda, che è essenzialmente generalista e cioè diretta al grande pubblico, può funzionare e funziona anche su internet. Se la volta scorsa abbiamo esaminato un uso individuale e mirato della pubblicità e della propaganda politica, oggi vediamo invece la sua traduzione generalista. Tutto si basa sul concetto di comunicazione, contrapposto al rigore della pagina scritta. Quello che è scritto non può essere negato. Bisogna semmai confutare l’avversario al fine di ristabilire la verità. La comunicazione dei media digitali, invece non ha memoria. Ogni notizia è cancellata e rimossa dalla notizia successiva che, assorbendo l’attenzione del pubblico, cancella, semplicemente, l’enunciato precedente. E paradossalmente questa logica si è estesa anche ai giornali, che, per il loro supporto nella pagina scritta, dovrebbero essere dotati di memoria. È la quantità di notizie, che ci obbliga a consumarle in maniera distratta ed acritica. L’informazione non ha bisogno di smentite perché, come un grande buco nero, inghiotte quella che potrebbe essere la verità cancellandola dalla nostra memoria. Pensiamo a internet. Ad un certo punto si è diffusa la speranza e la certezza che potesse costituire il mezzo di controinformazione per eccellenza. Le testate giornalistiche e televisive sono proprietà di pochi magnati che hanno tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con il potere economico e politico. Ad internet invece può accedere chiunque per affidare al cyberspazio il suo messaggio in bottiglia. Tutte le recenti rivolte, come le Primavere Arabe o gli assemblamenti di Occupy Wall Street, hanno fatto uso di internet per coordinarsi. E chi ha notizie dirette o immagini di un evento, può riversarle in rete.

Come poteva intervenire per neutralizzare internet la propaganda del potere? Non certo con la censura. C’è sempre un modo per aggirare un blocco o un divieto. Piuttosto per moltiplicazione. Le notizie vere si neutralizzano inondandole di cloni falsificati. Pensiamo alla scena in cui, ne La signora di Shanghai il protagonista vuole aggredire la moglie, la cui immagine è frantumata in una serie di specchi. Il suo obiettivo è mancato perché sostituito da una molteplicità di obiettivi fittizi. Non c’è bisogno di cancellare nulla. Posso neutralizzare una notizia sommergendola di notizie simili. Posso capovolgerne il significato attribuendola all’avversario.
Vorrei tornare al mio ricordo sulla propaganda della resistenza iraniana. Recentemente ho rivissuto su internet la stessa storia. Ho ricevuto per un periodo relativamente lungo, l’immagine straziante di cadaveri di bambini riversi al suolo. In primo piano un bambino biondo bellissimo, insieme ad altri corpicini abbandonati al suolo. La didascalia attribuiva quel massacro alla ferocia di contro cui combatteva l’eroica resistenza siriana. Dopo un breve lasso di tempo l’immagine mi è tornata ad attribuzione rovesciata. Era una strage della resistenza. Infine questa resistenza ha trovato una identificazione. L’immagine è ritornata, ancora una volta, come prodotto dell’Isis.

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