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I nuovi padroni di Palermo: giudici, amministratori giudiziari e curatori fallimentari

 

Mentre Palermo è completamente immersa in dibattiti e polemiche sul peso mafioso nei quartieri popolari, e destabilizzata dagli scandali riguardanti il suo Tribunale, ci teniamo – come fatto già di recente sulle pagine di Infoaut – ad offrire qualche punto di vista utile ad una corretta lettura dei fatti entro cui questi dibattiti si sviluppano e che si distinguono per lucidità anti-ideologica e potenzialità narrativa.

Vogliamo quindi proporre un’analisi di qualche giorno fa, scritta da Salvo Vitale – blogger, attivista di Antimafia 2000 ed ex compagno di lotta di Peppino Impastato – e pubblicata sul sito di Telejato.com, al netto di alcune nostre considerazioni introduttive e provandone, anche, ad evidenziarne i meriti.

Se, infatti, con Salvo Vitale ci siamo trovati a volte in disaccordo rispetto all’approccio complessivo – che sottende differenti analisi sul rapporto tra questione mafiosa e questione di classe – che lo ha visto impegnato per anni in una politica di “antimafia sociale” che, a nostro avviso, ha più mascherato una tendenza ideologicamente “moralista” che inciso sulla materialità delle contraddizioni, consideriamo comunque importante dare spazio ad un testo i cui meriti principali non sono soltanto (come leggerete) legati ai canoni dell’inchiesta giornalistica ma anche, e forse soprattutto, alla messa a critica dell’intero sistema legislativo che, in questo caso, sostiene certe politiche antimafia e strutture di potere. Di fatto, nel testo del Vitale, emerge una via utile alla caratterizzazione della “corruzione” non come distorsione individuale ma come questione sistemica indistricabilmente legata agli assetti di potere complessivi.

 

Il testo appare più che mai utile in una fase, come quella attuale, in cui di mafia si parla sì, ma in relazione ai fatti accaduti (e che continuano ad accadere) in questi giorni nel quartiere popolare del centro storico di Palermo, Ballarò. Lì, come molti sapranno, balzata la notizia su vari media mainstream, è da giorni in corso una vera e propria ritorsione di Stato (invocata nella forma di “risposta” da larghe fette della società civile) fatta di retate, azioni congiunte interforze, sequestri, multe, arresti (oltre che di uno spaventoso investimento mediatico) rivolto contro l’intero quartiere, oggi, a tutti gli effetti in stato d’assedio. Botteghe e bancarelle dello storico mercato vengono fatte chiudere, i putiari (bottegai) comuni colpiti da sanzioni di tutti i tipi: un quartiere già povero minacciato integralmente nelle sue forme di sussistenza. Il tutto condito dalla retorica del “sono tutti colpevoli”. Ciò avviene dopo che, nella piazza del quartiere, un locale confiscato alla mafia viene dato alle fiamme per impedirne la riapertura ad opera di una cordata di imprenditori (tra cui l’unico nome reso pubblico è quello di Todaro, vicepresidente della locale Confindustria) che si sono fatti assegnare il bene confiscato dalla Sezione misure preventive del Tribunale di Palermo.

Proprio la seguente Sezione è attualmente investita da uno scandalo che vedrebbe tutti i suoi componenti impegnati nella “spartizione” arbitraria dei beni confiscati – che ricordiamo essere migliaia con un potenziale valore, approssimativo, di decine di miliardi di euro complessivi – ad avvocati, commercialisti, imprenditori “amici”; dunque, in quest’ottica clientelare, su ogni bene confiscato – sembrano suggerire le carte dei giudici di Caltanissetta che indagano sulla vicenda – parrebbero muoversi interessi di famiglie “bene” palermitane impegnate in un vero e proprio business dell’Antimafia.

 

Se dunque, i seguenti fatti, ci dicono come istituzioni e criminalità organizzata agiscano anche momenti e fasi di scontro dettate da interessi contrapposti (*), la lettura offertaci dal testo che segue aggiunge dei pezzetti narrativi utili ad intravederne, poi, gli esiti sociali (reazioni, condotte, costi) in simili dinamiche. È infatti chiaro come, su queste partite, si giochino anche equilibri di classe in cui un ruolo fondamentale viene assunto da un livello legislativo che, da “emergenziale”, si configura sempre più come paradigma di governo e controllo, oltre che occasione di profitto e rendita economica.

 

Buona lettura

 

* Avvertenza: quando parliamo di interessi “contrapposti” lo facciamo rifuggendo le due tendenze analitiche più diffuse sul rapporto Stato-Mafia: quella dominante che vede soltanto un rapporto dicotomico, di scontro ideologico, di interessi “strutturalmente” opposti; di confronto tra bene e male, giusto e ingiusto, legalità e illegalità, ordine contro barbaria. E anche l’analisi cara a tanti pezzi di sinistra “sensibile” e illuminata: quella lettura cioè che sostiene l’identificazione tra Stato e Mafia e che, semplicisticamente dichiara l’ormai assoluta convergenza, sovrapposizione, indistinguibilità tra i due poteri.

La realtà è molto più complessa di come, entrambe le letture, propongono. Compito dei militanti è quello di capire queste complessità e agirle sapendo “situarsi” lì dove è possibile muovere le leve della “frattura” e del discorso di classe. Prendere posizioni superficiali o, peggio, ideologiche vorrebbe dire (basti chiedere a certi attivisti palermitani che proprio dalla vicenda-Ballarò stanno uscendo schiacciati e costretti al “non è questa la risposta che volevamo”) prestare il fianco e diventare funzionali alla più illegittime e ipocrite narrazioni dominanti.

 

 

Infoaut Palermo

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È STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA  RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.

Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva,  anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”.

Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni.  Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach.

Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere  qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli  amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”.

Stesso circuito con stesse perversioni , nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro  dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare  di Palermo hanno chiesto di procedere a un  “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”.Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta  il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli,mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti,  ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate , sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto,  “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro.

Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si  sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione.

In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare.  La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in  trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi,va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella  presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”,  e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo.In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.

Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?

 

(di Salvo Vitale per Telejato.com, 3 ottobre 2015)

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