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Contro il feticismo costituzionale, per l’insolvenza costituente

Chi aveva pensato che la crisi aprisse spazi praticabili per una qualche alleanza tra movimenti sociali e pezzi della rappresentanza, è definitivamente servito. Come era non troppo difficile immaginare, non è avvenuta alcuna resurrezione dello Stato: il processo di crisi radicale delle istituzioni nazionali, e in generale il tracollo della rappresentanza hanno conosciuto al contrario un’accelerazione definitiva. La mossa disperata di Papandreou è stata certo la mossa opportunistica, tardiva e disperata di leader corrotto al tramonto. Non per questo, è meno significativa di quanto sia tremendamente illusorio pensare che nella crisi possano esistere spazi di difesa a livello dello stato nazione. La via referendaria, con il suo rapidissimo affossamento da parte europea e le conseguenze drastiche sia in Grecia che in Italia, testimonia, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, che la dimensione della democrazia nei confini nazionali, tutta intera la tradizione della democrazia nazionale e dei suoi poteri costituiti, non ha più niente da opporre al governo della finanza, se non la propria nostalgia. Il governo della finanza ci mette mezza giornata a liquidare chi agita la bandiera della sovranità.

Va detto subito e con grande chiarezza: davanti al dispiegarsi della governance finanziaria a tutti i livelli, il rifugio nell’idea di una sovranità democratica nazionale come spazio protetto, è completamente fuori tempo massimo. Anche in Italia del resto non manca chi ora comincia a gridare all’alternativa tra democrazia e finanza: la Lega è ovviamente in prima fila, sempre pronta a proporre il proprio cieco identitarismo come fortezza ringhiosa per le paure e i risentimenti generati dal terrore di perdere la “roba”. Ma anche a “sinistra” il richiamo alla democrazia nazionale, magari nelle forme del feticismo elettorale, trova i suoi seguaci. Vendola ha raggiunto in questi giorni vette difficilmente superabili nel giustificare il governo della finanza ponendo la strabiliante condizione dei limiti temporali al governo Monti. A parte la risibilità del pensare che tutta la baracca dei “tecnici” e degli “esperti” sia stata mobilitata solo per un rapidissimo lavoretto commissariale, la cosa che lascia stupefatti è l’idea che tutto diventerebbe accettabile se solo si lasciasse aperto comunque uno spiraglio elettoralistico, non troppo in là nel tempo. Il terreno della rappresentanza politica, agonizzante oggi sino al punto di lasciare il campo alla gestione diretta del “commissario” per eccellenza dei mercati finanziari, dovrebbe resuscitare non si sa come da qui a quattro mesi, e trasformarsi in primavera in un meraviglioso strumento di resurrezione democratica. Ma stiamo parlando di chi era riuscito a teorizzare le “primarie di programma”, tutt’al più un vago rito sondaggistico, come la più avanzata frontiera della nuova democrazia partecipativa, quindi non ci sorprendiamo. Spiace semmai che nei giochini da illusionista da fiera ci caschino di tanto in tanto settori di movimento in cerca di “alternativa”: ma anche lì le ambiguità e l’improduttività più assoluta delle scorciatoie costituite dai rapporti più o meno strumentali sono oramai diventate evidenti, e, si vuol sperare, improseguibili.

Quello che davvero ci interessa è esser chiari su ogni tentazione d’opporre governo della finanza e sovranità popolare: sia nella versione populista della Lega o di settori Pdl che sollevano la crociata dei popoli contro la cricca giudaico-massonica, sia nella versione “responsabile” di chi accetta la compatibilità con il governo della finanza, proclamando però la necessità di elezioni al più presto, si tratta di archeologia. Il problema non è né quello di tornare a parlare la lingua del sovranismo populista, né quello di preservare ancora un qualche spazietto elettorale: nessuna opposizione al governo della finanza è possibile dentro i dialetti della sovranità nazionale o della rappresentanza.

Del resto questo lo sanno benissimo proprio tutti coloro che in Italia hanno plaudito ai salvatori della patria e al “ritorno alla Costituzione”. Il ritorno alla Costituzione dopo la tempesta berlusconiana coincide, in realtà, con la sua sospensione: è la formula classica della dittatura – la sospensione della legge per meglio riaffermarla. É stata davvero straordinaria l’inflazione di evocazioni più o meno dittatoriali, in questi ultimi giorni: le lodi intessute all’opera del presidente Napolitano sono state tutte animate dal sottinteso, a volte neanche troppo sottinteso, e talvolta anzi rivendicato esplicitamente, che il suo capolavoro sia stato proprio nel forzare gli equilibri costituzionali, imponendo una decisa svolta presidenziale al sistema. Napolitano è apparso come il tanto invocato, da Carl Schmitt, custode della costituzione, acclamato come l’incarnazione del Politico con la maiuscola. Asor Rosa può gongolare abbastanza soddisfatto: anche senza carabinieri, polizia e guardia di finanza, può vedere realizzata la sua idea di una forzatura presidenziale, del tanto richiesto impulso “dall’alto” per scacciar via Berlusconi. É però davvero una triste sorte per tutti i cantori dell’autonomia del Politico, del ritorno della decisione nei panni quirinalizi, che il loro alleluja coincida con il parto del governo diretto della finanza. Se dittatura qui è stata esercitata, si tratta di quella dittatura finanziaria, forma ibrida di interventismo funzionale ai mercati, che in questa crisi ha già fatto più volte la sua apparizione. Già nel 2008 l’amministrazione Bush, quando si trattò di immettere nuova liquidità nel sistema bancario, adottò strumenti di intervento commissariali. Ora in Europa gli interventi commissariali si moltiplicano, giustificati da continui richiami allo stato d’eccezione. Ma come la sovranità nazionale invocata dai populismi si rivela poco più che una residuale nostalgia, completamente subalterna al governo della finanza, così questo ritorno al Politico, alla decisione in stato d’eccezione, tutto questo acclamare padri storici e autorità super partes per “salvare la costituzione” non riesce a nascondere la funzione reale di questi interventi, che è solo quella di far ripartire l’accumulazione finanziaria. L’unica costituzione difesa da Napolitano e dai suoi zelanti supporters è questa e solo questa: il comando politico deve essere esercitato nelle modalità dettate dalla necessità dell’accumulazione finanziaria di riattivarsi tra un’esplosione e l’altra delle sue bolle.

Questa e non altra costituzione difendono oggi i vari “custodi”, un “costituzionalismo” europeo in formazione che coincide perfettamente con la serie di interventi e di dispositivi necessari ad assicurare che la finanza possa continuare a estrarre valore dal comune. L’eccezionalismo dell’amministrazione Bush mirava ad usare senza vincoli la leva dell’indebitamento pubblico per rimettere in piedi il sistema bancario, e rispondere così alla crisi dei subprime; l’eccezionalismo europeo, che fa saltare in pochi giorni i governi italiano e greco, mira dichiaratamente a realizzare “riforme strutturali”, cioè a permettere, attraverso un’ulteriore spinta alla privatizzazione dei servizi, l’immissione nei circuiti dei mercati finanziari anche delle forme residuali del welfare.

Al feticismo populista dei cantori della sovranità nazionale violata, risponde il feticismo costituzionale dei festeggiamenti per il “ritorno allo Statuto” guidato da Napolitano: in ogni caso, di feticismo si tratta. L’adorazione della Costituzione, feticcio massimo della sinistra italiana, si è completamente risolta – come Asor Rosa ha ammesso con una onestà intellettuale pari alla spudoratezza – nell’accettazione della sottomissione alle necessità del capitale finanziario, condita da un po’ di appelli retorici all’equità e alla giusta distribuzione, non della ricchezza, ovviamente, ma dei sacrifici.

Tra feticci sovranisti e feticci costituzionalisti, che nascondono solo la sottomissione alle necessità del capitale finanziario, l’unica strada è uscire con forza da qualsiasi logica della difesa dei poteri costituiti: di tutti i poteri costituiti, della sovranità, della rappresentanza, della costituzione. Abbiamo particolarmente insistito, nell’analisi dei movimenti delle acampadas dalla Spagna ad OccupyWallStreet, sulla straordinaria attenzione per il momento dell’esercizio della decisione comune. Tutti questi movimenti sono attraversati da una forte tensione a non farsi relegare nell’ambito della società civile o dell’opinione pubblica, ma di presentarsi come spazi di esercizio immediato, costituente di potenza democratica. “Democrazia ora” non è un “auspicio”, ma il segno che la vita stessa del movimento è intesa come una pratica costituente. Che non c’è alcuna opinione da esprimere verso chicchessia, nessuna pressione da esercitare, nessun rappresentante da convincere: ci sono solo decisioni da prendere insieme e spazi da occupare. Che se ne vadano tutti, e subito, è l’unica possibile relazione con la rappresentanza. Del resto, nel momento in cui comando politico e accumulazione finanziaria si fondono perfettamente, l’unica politica possibile non ha nulla a che fare con l’esercizio di una pressione più o meno ideologica o “simbolica” sulla rappresentanza, per costruire con parti di essa una qualche alternativa. E questo non per purismo “estremista” di questi movimenti: ma per la saggia considerazione che la coincidenza realizzata di comando politico e finanza toglie di mezzo qualsiasi rappresentanza, lasciando in piedi appunto solo il feticcio dell’antico equilibrio costituzionale.

La distanza da qualsiasi difesa della rappresentanza esprime il deciso rifiuto di difendere questo feticcio e questo equilibrio: le soggettività che animano questi movimenti appartengono ad un mondo completamente diverso dai soggetti su cui l’equilibrio costituzionale tradizionale si fondava. Per loro, il compromesso welfaristico tradizionale non ha mai funzionato: l’estraneità profonda di OWS o delle acampadas alla rappresentanza, di “sinistra” o “destra” non ha nessuna importanza, è la lucida presa d’atto della distanza profonda tra i soggetti collettivi, che hanno fondato gli equilibri costituzionali del Novecento, e le soggettività dell’epoca della precarietà generalizzata. Nessuna difesa della costituzione potrebbe quindi mai attirare queste soggettività “precarie”, che si sanno completamente estranee a quel compromesso. Immaginare che questi movimenti possano essere trattenuti in un disegno di difesa delle costituzione esistente, che le acampadas italiane potessero svilupparsi nel segno di un’austera difesa di equilibri e valori costituzionali lontanissimi dalla materialità delle vite precarie, che i precari italiani avessero gran voglia di accamparsi nel nome della difesa di un patto sociale che li esclude, di partiti incapaci a rappresentarli, di sindacati disegnati sul mondo del lavoro dei nonni, è stato solo uno dei tanti equivoci per cui il movimento italiano ha sinora avuto difficoltà nel tradurre le occupazioni costituenti delle metropoli globali. Con tutta la buona volontà, non ci riesce di pensare che “difendiamo la costituzione” sia una traduzione molto efficace di “que se vayan todos”.

Fuori dal feticismo costituzionale significa fuori dall’idea nefasta dell’inviolabilità della regola prima della vera costituzione vigente, quella finanziaria: quella Grundnorm che vorrebbe imporre sempre e in tutti i casi il pagamento del debito, persino quando questo significhi mettere a repentaglio le basi stesse della riproduzione sociale. Una logica accettata anche da chi propone, da “sinistra”, l’“equa” distribuzione dei sacrifici, o magari un po’ di austera sobrietà per il bene comune. Come la costituzione dei padri non si può che difendere, così il debito non si può che estinguere, recita la voce dei poteri costituiti, anche quando sono poteri costituiti di sinistra. Al contrario, pratica costituente qui e ora, “democrazia reale ora”, non può che coincidere con la sottrazione materiale alla logica dei mercati, e con l’organizzazione concretissima della rottura della “costituzione finanziaria”: la forza dei movimenti può risiedere solo nell’organizzazione materiale dell’insolvenza. Diffusione capillare delle occupazioni, creazioni di statuti dell’autorganizzazione della precarietà, sciopero precario come ricerca di forme di lotta che nella loro materialissima efficacia costituiscano l’equivalente funzionale dello sciopero tradizionale industriale; e ancora, centralissima, la generalizzazione della logica del default controllato, non solo come rivendicazione di un rifiuto al pagamento del dedito “sovrano”, ma come pratica sociale di riappropriazione di ricchezza attraverso l’organizzazione dell’insolvenza; la pratica di tutte le forme di autoriduzione e di affermazione che la vita non è in debito. Dopo la realizzazione della sintesi perfetta tra comando politico e accumulazione finanziaria, l’effrazione della logica della “costituzione” finanziaria diventa oggi la sola, autentica pratica costituente: lontana da qualsiasi difesa del “popolo”, della “sovranità”, degli scampoli di rappresentanza, tutte forme di feticismo residuale per lo Stato e per il “pubblico”, stanze dove aleggiano – loro sì davvero “sovrane” – solo le passioni tristi.

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